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Egitto. Che fine hanno fatto i giovani rivoluzionari?

Sono stati i protagonisti della sollevazione del 25 gennaio 2011. Poi sono stati estromessi dalla lotta tra islamisti e militari. L’immagine dei giovani egiziani, però, non è completa: i “rivoluzionari da salotto” hanno preso tutti i meriti. 

 

 

L’11 febbraio del 2011 è un giorno che non potrà mai essere dimenticato. Il popolo egiziano credeva nel potere dei ‘giovani del 25 Gennaio’ e si aspettava che sarebbero stati loro a guidare e portare avanti la rivoluzione.

Da quel giorno, invece, se ne sono perse le tracce: sembrano spariti, lasciandoci con la domanda: “Dove sono andati a finire?”

Generalmente, quando il cittadino medio egiziano si pone questa domanda non fa riferimento a un gruppo specifico o a qualche particolare individuo, quanto piuttosto ad un soggetto quasi super-eroico.

Si va in cerca di quel concetto astratto di ‘gioventù’ che avrebbe organizzato proteste scandendo slogan rivoluzionari contro il potere dei militari; che avrebbe rotto il coprifuoco imposto, salvato le donne dalle molestie della polizia, che si sarebbe schierata contro le violazioni dei diritti umani, a prescindere da chi ne fosse la vittima. 

In effetti qui non si tratta del classico problema rivoluzionario di ‘leader a corto di energie’. Semmai, in Egitto sta accadendo esattamente il contrario: le figure carismatiche della rivolta hanno avuto sin troppa energia, tanta da averli portati a correre in tondo, come in un circolo vizioso.

Che siano rimasti profondamente scioccati dall’entità del fallimento del sistema democratico emerso dopo la caduta di Mubarak, non è una novità: è un fatto universalmente riconosciuto ed accettato. La loro sfiducia verso ogni sorta di autorità – che si trattasse della classe politica, dei media, degli analisti e degli esperti, o persino dei più anziani – li ha convinti del fatto che avrebbero dovuto perseverare nel sogno di una ribellione di tipo ‘utopico’, senza dare ascolto a quegli allarmi lanciati da più parti con sgradevole saggezza.

Ma questi giovani leader sono rimasti senza parole in tutte quelle occasioni in cui hanno scoperto di rappresentare una ‘maggioranza perdente’ di fronte ad una ‘minoranza organizzata’. 

(…)

Grazie al 25 Gennaio i giovani si sono convinti che tutto ciò che potevano leggere – notizie, libri, giornali – semplicemente rappresentasse una realtà troppo pessimista rispetto a quanto erano convinti di poter fare.

Ma dai loro calcoli ottimistici sono rimasti fuori due attori centrali: gli islamisti e i militari, entrambi a favore della destituzione di Mubarak, ma non del tutto favorevoli alla rivoluzione del 25 Gennaio.

Detto in altri termini, “si”, il primo passo è stato facile, molto più facile di quanto potessimo immaginare o ascoltare dalle parole degli esperti. Ma questo risultato non è stato merito del solo ‘eroismo’ giovanile, come alcuni di noi hanno voluto affettuosamente immaginare. 

Ora che questi due ex alleati (islamisti e militari, ndt) sono coinvolti nella lotta per il controllo del paese, la gioventù rivoluzionaria di ieri è caduta nell’inazione e nel silenzio.

Il Cairo del 2013 è quindi davvero molto simile alla Parigi del 1848: in entrambi i casi, le masse credevano che la rivoluzione avesse fallito nell’ottenimento dei suoi obiettivi democratici, e di conseguenza si sono “rivoltate contro la rivolta”.

Paradossalmente, i più convinti democratici hanno fatto appello ai militari per porre fine alla loro stessa scelta democratica.

In seguito, una volta compresa la portata della loro azione, i francesi – così come probabilmente faranno oggi i Tamarud egiziani, i cui leader sembrano essere scesi a patti con l’intelligence – rimpiansero amaramente quella decisione. Semplicemente, avevano punito i nuovi governanti per aver disatteso le loro richieste rivoluzionarie, riportando al potere i vecchi contro i quali si erano inizialmente rivoltati. “Un nemico che almeno conosciamo bene”, come disse una volta George Ishak.  

Questo circolo vizioso che porta a scegliere sempre il peggio del peggio si ripete ancora. 

Dall’altra parte, bisogna dire che la società ha scelto un ‘rivoluzionario-tipo’ da glorificare e sostenere. Avete mai notato che tutti i martiri sulle nostre t-shirt, fotografie e giornali sono cittadini di ‘serie A’?

Avete notato che i più popolari portavoce della rivoluzione parlano perfettamente inglese e sono probabilmente laureati in qualche università internazionale?

Ci sono diversi pezzi che mancano al quadro che raffigura la ‘gioventù del 25 gennaio’, ed è colpa nostra se sono stati esclusi. Si potrebbe arrivare a dire che questi ‘rivoluzionari da salotto’ hanno assunto tutti i meriti della rivoluzione, mentre gli altri ne hanno preso solo le colpe.

Questi rivoluzionari ‘da back-stage’  possono essere blogger, fotografi, attivisti dei Social media o altri generi di dilettanti che, senza sporcarsi davvero le mani, hanno avuto un ruolo importante nell’animare quella versione della rivoluzione favorita da tutti gli attori politici: lo Stato ha dato loro il benvenuto sui media ed ha innalzato la bandiera della ‘rivoluzione pacifica’ (o anche della ‘Facebook Revolution’) perché questa causava solo piccole disfunzioni, conferendo allo stesso tempo una certa legittimità alle azioni repressive contro ‘gli estremisti’ in piazza. I partiti politici – gli islamisti come i laici – sono stati ben contenti di escludere dalla lotta di strada la gioventù rivoluzionaria, dipingendo questa mossa come una semplice divisione del lavoro: “noi prendiamo le strade, voi i Social media”. 

(…)

I media internazionali hanno cercato di dare un ‘senso occidentale’ alla Primavera araba, trovando attraente rappresentare questi ‘egiziani occidentalizzati’ come protagonisti di rivoluzioni costruite attraverso Social media occidentalizzati, dando all’Occidente il vecchio fascino e il credito per ‘illuminare’ la strada dell’Oriente.

È più semplice poi raccogliere tweet, contributi e interviste con attivisti che parlano inglese piuttosto che condurre inchieste approfondite, traduzioni, ricerche (…).

Oggi abbiamo bisogno di quegli attivisti che già una volta ci hanno organizzati nelle strade e nelle piazze, e che sono capaci di farlo ancora, riorganizzando il potere che ha in mano la gioventù egiziana per raggiungere i suoi obiettivi rivoluzionari. Sebbene rappresentino una minaccia per l’intero sistema politico, la contro-rivoluzione non si è ancora confrontata direttamente con loro. 

Per il vecchio regime non erano che il classico nemico che ha sfidato e vinto la dittatura. Per i poteri politici tradizionali, laici come islamisti, rappresentano i potenziali rivali che li sostituiranno sulla scena politica. Per lo Stato sono la più temibile minaccia alla stabilità. Per la comunità internazionale, si tratta di gruppi sparsi difficili da comprendere, e con cui non è in grado di negoziare, e per le élite rivoluzionarie di Facebook e Twitter sono ‘selvaggi’ che minacciano la loro egemonia politico-mediatica con prospettive molto diverse.

Si tratta di veri rivoluzionari, che hanno affrontato qualsiasi tipo di censura, oppressione e diffamazione. Se lo Stato li accusa di ottenere fondi da Israele i partiti politici sostengono queste accuse, gli attivisti di Twitter le rilanciano, la comunità internazionale le copia. 

Un solo attore politico è assente attualmente: il cittadino ordinario.

Quello stesso cittadino che oggi si chiede: “Dove sono finiti i giovani della rivoluzione?”. Spero che lei, o lui, adesso lo sappia. 

 

*Traduzione a cura di Cecilia Dalla Negra. Per la versione originale dell’articolo, pubblicato su Open Democracy, clicca qui

*Foto Francesco La Pia

October 31, 2013di: Hasham Shafick per Open Democracy*Egitto,Articoli Correlati: 

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