Non l’Egitto, ma gli egiziani. Quelli che sono scesi in piazza, che hanno manifestato, che hanno protestato: i veri artefici delle “rivoluzioni”. Oggi al Cairo come in tutto il paese non si combatte per il potere, ma per la legittimità.
O forse sarebbe meglio dire primo atto di una rappresentazione teatrale che si preannuncia particolarmente ricca e complessa. Non c’è improvvisazione, ma solo un freddo e asettico calcolo: il copione è scritto da tempo.
La “chiamata alle armi” del vice premier egiziano è un segnale forte e inequivocabile: tutti uniti contro il terrorismo dei Fratelli Musulmani.
Ma prima di tutto, cosa intende al-Sisi con “terrorismo”, perché utilizza la parola irhab? Come ieri l’insicurezza ha aiutato i militari nella loro scalata verso il potere, oggi la dialettica diventa ambigua per potersi modellare e adattare agli eventi in corso.
Molti analisti sostengono che al-Sisi stia cercando una sorta di luce verde per affrontare vis à vis la Fratellanza e poter debellare quelle ultime sacche di malcontento che ancora oggi si ostinano nel chiedere il ritorno in carica del presidente egiziano. Leggendo le parole ufficiali rilasciate dall’esercito si tratta di una conseguenza logica inoppugnabile: al-Sisi vuole mobilitare la piazza per affrontare la Fratellanza.
Ma è davvero solo per questo motivo? I militari hanno davvero bisogno del sostegno popolare per scacciare la “minaccia islamista”?
Forse no. Nel corso di queste ultime settimane i militari hanno già ingaggiato durissimi scontri con i manifestanti che chiedevano la fine del “colpo di Stato” e il ritorno di Morsi, da oltre due settimane scomparso dallo scenario nazionale.
Gli scontri, violenti e sanguinosi, hanno già causato la morte di decine di persone e il ferimento di altre centinaia, tanto che Amnesty International ha chiesto con fermezza l’istituzione di commissioni di indagine indipendenti per verificare come si siano effettivamente svolti i fatti e poter accertare le responsabilità.
I militari sparano sui manifestanti già da lungo tempo senza che abbiano chiesto preventivamente il permesso a nessuno.
Si potrebbe tuttavia obiettare che la società egiziana si sia ribellata a quest’ordine di idee, a questo uso della forza che molti hanno descritto come eccessivo e sconsiderato, contro i manifestanti. Secondo questa logica allora, attraverso il comunicato di al-Sisi l’esercito starebbe chiedendo una sorta di ‘autorizzazione a posteriori’ alla piazza. In questo caso si starebbe cercando di sanare una frattura fra militari e manifestanti.
Ma allora come spiegare l’immediata adesione di Tamarud (che in teoria rappresenta sulla carta 22 milioni di egiziani) ad una manifestazione indetta dai generali? Come spiegare il parere positivo espresso dal Fronte di Salvezza Nazionale?
Al-Sisi non ha bisogno dei milioni di egiziani che scenderanno in piazza oggi per legittimare la battaglia contro gli islamisti: ne ha bisogno per legittimare se stesso.
Se, come accadrà, le piazze si riempiranno in seguito al suo messaggio e milioni di egiziani acclameranno, ancora, l’esercito e i suoi rappresentanti, chi potrà mettere in dubbio la sua legittimità? Chi ricorderà più il golpe tecnico messo in atto il 3 luglio? Chi oserà levare la voce contro di lui?
I militari stanno nuovamente agendo nel loro interesse sfruttando la piazza. Lo hanno fatto nel momento delle dimissioni di Mubarak e lo faranno oggi dopo la destituzione di Morsi.
Sarà un caso forse che in questi giorni in Egitto i parallelismi fra al-Sisi e Gamal Abd al-Nasser si rincorrano? Che ci sia una diffusione virale sui social network e sui blog di una foto che, presumibilmente, ritrae un giovanissimo al-Sisi che porta un fascio di fiori allo storico rais egiziano ricambiandone il saluto militare?
Il quotidiano Tahrir, con un articolo a cura di Ibrahim Aissa, fa ancora di più mettendo in contatto diretto l’opera di Nasser e quella di al-Sisi e ricamando un cameo che vuole la gente e l’esercito come un sol uomo, fusi in un solo corpo. Come Nasser, prosegue Aissa, anche al-Sisi ha sfidato e sta sfidando gli Stati Uniti d’America, il cui obiettivo era quello di sostenere nel lungo periodo la Fratellanza. La sfida che al-Sisi sta indirizzando all’America, allora, equivale alla nazionalizzazione del Canale di Suez voluta da Nasser nel 1956.
Forse è per questo motivo che ieri Tamarud ha ufficialmente chiesto l’espulsione dell’ambasciatore statunitense dichiarandolo ‘persona non gradita’ sul territorio egiziano.
Oltre alle riflessioni di Aissa, è interessante osservare lo sviluppo di una retorica favorevole ad al-Sisi sulla base dell’esperienza storica di Nasser.
“Tutti parlano di questo in Egitto”, rivela un collega egiziano. E il messaggio di al-Sisi è arrivato proprio nella settimana in cui tutto il paese ricorda con emozione il colpo di Stato degli Ufficiali Liberi guidati proprio da un giovane Nasser.
Molti indizi costituiscono quasi sempre una prova.
La piazza oggi rischia di perdere qualcosa. Finora la sua forza era stata nella mobilitazione di massa spontanea, indipendente. Il rigurgito d’orgoglio avuto contro Mubarak prima, lo SCAF poi ed infine Morsi ha dimostrato che gli egiziani hanno ormai fatto propria la strategia della contestazione sviluppando una notevole capacità di critica.
L’indipendenza dei manifestanti da qualsiasi tipo di partito o movimento e la possibilità di mostrare orgogliosamente la propria autonomia, sono due elementi che rischiano oggi di venire meno. Oggi che è un uomo con le mostrine sul petto a invitarli (o autorizzarli?) a riprendere il controllo delle strade.
Qualcuno però si è rifiutato. I salafiti, come era prevedibile, ma anche gruppi come il 6 April Youth Movement – che hanno scritto la storia delle sollevazioni del 25 gennaio 2011 – e gli Egyptian Revolutionary Socialists.
Ovviamente i Fratelli Musulmani hanno incitato i propri affiliati, serrato i ranghi e compattato le fila: neanche a loro sarà sfuggito il continuo e costante richiamo a Nasser, e il ricordo delle torture subite durante gli anni della sua dittatura devono essere tornati subito alla mente.
Altri ancora non solo si sono rifiutati ma hanno apertamente criticato la mossa dei militari. Forse le loro voci non sono così forti come quelle di chi andrà in piazza o, peggio, sono messe a tacere. Come è successo a Wael Qandil, il giornalista che si è visto rifiutare la pubblicazione di un articolo su al-Shurouk per la sua posizione critica nei confronti dei militari.
Una critica che invece ha potuto esprimere la blogger Baheyya, che in un articolo indaga il fenomeno della “tutela” militare sulle sorti presenti e future del paese, riassumendo in una frase quello che è forse il senso di tutto quanto sta accadendo: “l’Egitto è troppo importante per essere governato dal suo popolo, troppi interessi ispessiti da millenari giochi di potere”.
Wael Abbas, sul suo profilo Facebook, sceglie invece una tattica diversa. La critica avviene attraverso le immagini: militari che sparano ad altezza uomo contro i manifestanti, picchiano, trascinano inermi dimostranti mostrando tutta la loro violenza.
Bassem Sabry invita a rileggere la storia egiziana evidenziandone corsi e ricorsi storici, ma sopratutto sottolinea la mancanza di un reale dialogo nazionale che includa anche gli islamisti: “Prima avevamo un dialogo nazionale senza liberali, oggi abbiamo un dialogo nazionale senza islamisti…”.
Il dialogo nazionale inizialmente proposto da Adly Mansour sembra essere giunto ad un punto morto, senza che vi sia apparentemente la possibilità di una miracolosa resurrezione.
I due fronti sembrano più che mai essere giunti alla resa dei conti e i risultati già si vedono: morti, feriti, arresti arbitrari.
Tuttavia la fluidità della situazione non permette di stabilire punti fermi.
E’ interessante notare che ieri, 25 luglio, Hisham Qandil, ex premier fedele al presidente Morsi, ha rilasciato un comunicato nel quale vengono poste alcune condizioni per il “dialogo” con i militari.
I primi punti da implementare sono sei: il rilascio di tutti i detenuti che sono stati arrestati dopo il 30 giugno 2013; fermare il congelamento dei fondi; attivare il lavoro di una commissione d’inchiesta indipendente sull’operato della Guardia Repubblicana e i fatti di al-Nahda; permettere la visita di una delegazione che possa visitare Morsi, presidente della Repubblica, per verificare il suo stato di salute; calmare la campagna di attacco mediatico e l’escalation di accuse nell’interesse nazionale, e infine non formare raduni e impegnarsi ad evitare manifestazioni.
La politica può dunque ancora trovare una via di uscita oppure è troppo tardi? Troppo presto per dirlo, non resta che aspettare.
Del resto alle dichiarazioni di Qandil hanno fatto seguito quelle della Guida Suprema Mohammed Badie, che si è duramente scagliato contro al-Sisi definendo la rimozione di Morsi “un’offesa”, addirittura maggiore rispetto alla demolizione del sacro sito della Ka’aba.
Lo scopo di questa forzatura è ancora mobilitare la popolazione facendo ricorso al potentissimo mezzo religioso. Ancora una volta la Fratellanza mostra una divisione fra movimento e partito che non è stata “digerita” dai suoi rappresentanti, e forse nemmeno dalla sua base.
Quel che è certo è che i militari, in ogni possibile futura contrattazione, vorranno giocare da una posizione di forza: non come i sanguinari usurpatori giunti al potere attraverso un golpe, ma come salvatori della patria a protezione della volontà del loro popolo.
Et maintenant, on va où? Il titolo di un famoso film libanese diretto e interpretato da Nadine Labaki sembra quello più adatto: e ora, dove andiamo? Impossibile rispondere e ancor più difficile azzardare previsioni.
Ma non è escluso che qualcuno già conosca il finale.
(Foto by Rami Raoof via Flickr in CC)
July 26, 2013di: Marco Di DonatoEgitto,Articoli Correlati:
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