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Egitto, il significato (politico) di una condanna a morte

Cinquecentoventinove detenuti condannati a morte. Una sentenza che deve ancora ricevere la ratifica definitiva delle autorità religiose (arriverà in Aprile, per la precisione il 28 Aprile), ma che ha suscitato enorme clamore: al Cairo come nel resto del mondo.

 

Oltre cinquecento persone accusate di aver assaltato la stazione di polizia di Matay, a Minya (250 chilometri a sud del Cairo), aver ucciso un ufficiale di polizia e tentato di assassinarne altri due. Ma davvero il boia egiziano applicherà alla lettera l’ordinanza giudiziaria? La domanda è tanto banale quanto di estrema importanza per comprendere il significato del caso di Minya.

Nelle stesse ore in cui veniva rilasciato il noto attivista Ala’a Abd el-Fattah, la scure della giustizia egiziana si abbatteva sui Fratelli Musulmani con una tempistica che risulta difficile definire casuale.  Il nemico è stato inquadrato con chiarezza, qualora ve ne fosse stato ancora ulteriore bisogno. I “terroristi” sono i Fratelli Musulmani, il deposto presidente Muhammad Morsi e la Guida Suprema Muhammad Badi’e: i veri nemici del popolo egiziano da mettere alla forca.

Difficile tuttavia, nonostante tali premesse, che l’Egitto decida di dare fattivamente seguito a quello che Amnesty International ha definito come un caso di giustizia selettiva che renderebbe al Paese arabo un non certo invidiabile primato: quello di aver ucciso il più alto numero di persone tramite pena capitale nel corso di un singolo processo. Forse, suggerisce qualcuno, saranno portati al patibolo solo i ranghi più alti, come quando nel 1966 la giustizia egiziana decise di eseguire le condanne a morte di Sayyed Qutb ed altri cinque affiliati alla Fratellanza.

Il clima di incertezza è massimo, ma la sentenza di Minya è un messaggio politico e tale potrebbe rimanere: diversamente le conseguenze per la stabilità interna del Paese sarebbero difficilmente immaginabili.Tuttavia bisognerà attendere lo svolgersi degli eventi.

La blogger Zeinobia, ci informa di come immediatamente dopo la decisione del giudice due scuole copte di Minya siano state date alle fiamme da ignoti apparentemente come forma di ritorsione e del resto già ieri [24 Marzo 2014 ndr] le strade della cittadina dell’alto Egitto sono state luogo di manifestazioni di protesta contro il pronunciamento giuridico con decine di donne che hanno urlato e pianto dinanzi al tribunale.

L’esecuzione di 529 imputati contribuirebbe solo ad aumentare una tensione da tempo ai livelli di guardia tra Fratelli Musulmani e governo in carica. Gli studenti di al-Azhar sono da mesi in piazza per protestare contro la deposizione del presidente Morsi, contro le proprie istituzioni universitarie, contro l’attuale governo. I Fratelli Musulmani protestano nelle strade del Paese con forme e modalità quasi ininterrotte dall’estate 2013. Una sentenza di condanna a morte per 529 persone affiliati alla Fratellanza non farebbe altro che esacerbare, ulteriormente, gli animi.

Del resto le presidenziali si avvicinano: entro il 17 Luglio l’Egitto dovrebbe avere il suo nuovo presidente che, salvo colpi di scena, dovrebbe essere il Feldmaresciallo al-Sisi dimessosi dalle sue cariche militari e pronto a concorrere per lo scranno più alto della Repubblica Araba d’Egitto. L’Egitto aspetta dunque quello che molti quotidiani internazionali hanno definito il nuovo “Faraone”.

Il messaggio che si ricava da questi due intensi giorni di cronaca giudiziaria è lampante: si può (mal)tollerare un certo tipo di attivismo proveniente da determinati ambienti politici e sociali, ma con la Fratellanza Musulmana non può esserci nessuna forma di dialogo.

Il verdetto ha prevedibilmente avuto anche un valore mediatico fortissimo oscurando tutte le altre notizie provenienti dal Cairo e dintorni. I media locali ed internazionali hanno focalizzato la propria attenzione sul pronunciamento del tribunale di Minya, facendo passare in secondo piano (quando non ignorando) il fatto che ai 20 giornalisti di al-Jazeera venisse, sempre Lunedì 24 Marzo, negata la possibilità di uscire su cauzione. Rimarranno rinchiusi nella prigione di al-Aqrab dove, secondo le denunce dei loro avvocati difensori, sono stati stati sottoposti a torture e angherie da parte dei secondini. Il processo è stato aggiornato al 31 Marzo 2014. Anche qui il popolo egiziano, così come la comunità internazionale, è in attesa.

Ma l’attesa di un popolo, la sua ansia, il suo trepidare, non corrisponde all’attivismo di una classe dirigente che prepara il terreno per la sua (ri)salita al potere. In forme diverse, con uomini diversi, ma con la medesima volontà di ripristinare quell’autoritaristica egemonia del terrore che ha stretto per decenni l’Egitto nella morsa della dittatura.

 

March 27, 2014di: Marco Di Donato Egitto,Articoli Correlati: 

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