Le relazioni tra Israele ed Egitto non sono mai state così positive. Per una convergenza di ragioni, che hanno a che fare con le politiche di sicurezza nel Sinai e gli interessi legati all’energia. Dopo l’era Mubarak, Al-Sisi si è rivelato per Tel Aviv un partner ancora più amichevole.
Poco meno di un anno fa, precisamente nel marzo del 2015, in occasione della conferenza di Sharm Al-Sheikh che avrebbe segnato il rilancio del faraonico progetto di sviluppo economico egiziano, più di 100 paesi, tra cui l’Italia, hanno ribadito il loro sostegno all’ennesimo dittatore nella storia dell’Egitto.
Solo quattro paesi, tra quelli che rientrano nella visione geopolitica del presidente-generale, sono stati ufficialmente etichettati come “non graditi” a prendere parte al meeting: Turchia, Iran, Siria ed ovviamente Israele.
Consapevoli che le contingenze costringono Al-Sisi a muoversi in questa direzione, né la cancelleria né la diplomazia israeliana si sono per questo risentite: ad un incontro nel quale le potenze del Golfo – Arabia Saudita in primis – hanno monopolizzato la scena attraverso l’elargizione di un investimento pari a 12 miliardi di dollari, la presenza di Israele avrebbe sollevato più di qualche critica.
In questo momento, tuttavia, le relazioni tra Egitto e Israele non sono mai state così positive.
Il rovesciamento del regime di Mubarak nel 2011 ha certamente rappresentato un duro colpo nelle relazione tra i due paesi, rischiando di compromettere la normalizzazione dei rapporti in corso. A pochi mesi dalla Rivoluzione, nel marzo del 2012, l’Egitto ha pubblicamente criticato il suo potente vicino per l’inizio delle ostilità nella Striscia di Gaza.
Nel giugno dello stesso anno, il presidente eletto Morsi ha deciso per la sospensione delle relazioni diplomatiche, richiamando il proprio ambasciatore da Tel Aviv per protesta contro le manovre militari condotte all’interno dell’ operazione “Pillar of Defense”.
Dopo una serie di tensioni iniziali, tuttavia, il governo egiziano ha optato per una politica di stabilità, cercando di evitare l’alienazione dei suoi tradizioni alleati e degli Stati Uniti in particolare.
Nei confronti di Israele, più precisamente, Morsi optava per una posizione di forte ambiguità. Gli Accordi di Camp David venivano infine non solo mantenuti ma anche emendati per favorire la cooperazione nei settori di sicurezza ed intelligence in conseguenza delle violenze esplose nella regione del Sinai.
Solo la fornitura di gas naturale ad Israele, regolata da un contratto dalla durata ventennale, veniva temporaneamente interrotta a seguito di una serie di bombardamenti che avevano ostacolato le capacità di trasferimento del gasdotto che collega el-Arish alla città israeliana di Ashkelon.
Con la presa del potere da parte dell’esercito nel 2013, lo Stato di Israele si è nuovamente trovato di fronte ad un partner ideale per soddisfare le sue esigenze politico-economiche: Al-Sisi si sarebbe rivelato altrettanto ben disposto, se non addirittura più amichevole, di Mubarak.
Pochi giorni dopo il coup, il presidente-generale ha imposto la creazione di una buffer zone al confine con la Striscia di Gaza, soddisfacendo una richiesta presentata più volte da Israele negli ultimi 15 anni ma sempre sistematicamente respinta.
Il nuovo regime del Cairo ha quindi ordinato l’evacuazione della città di Rafah, al confine con la Striscia, e ha distrutto le abitazioni civili in un’area di 5 chilometri quadrati. Durante la guerra nella Striscia del 2014, inoltre, l’Egitto ha dichiarato Hamas ‘illegale’, dimostrando la sua volontà di compiacere il vicino sionista. In cambio, Israele ha permesso all’esercito egiziano di penetrare nelle Zone B e C del Sinai (vedi mappa), modificando così i termini degli Accordi di Camp David.
Nel frattempo la cooperazione in termini di sicurezza ed intelligence è stata incrementata e le relazioni diplomatiche sono migliorate enormemente. In una intervista rilasciata al Washington Post il 12 marzo 2015, Al-Sisi ha confermato di intrattenere “rapporti amichevoli e frequenti” con il primo ministro israeliano, Benjamin Nethanyau.
La prova evidente di questo riavvicinamento è la nomina, dopo un’interruzione durata tre anni, del nuovo ambasciatore egiziano a Tel Aviv, Hazem Khairat.
Alla base della rinnovata fiducia tra i due paesi possono quindi essere identificati due ordini di fattori: la lotta congiunta al terrorismo nella penisola del Sinai e la cooperazione energetica nel Mediterraneo orientale.
Se qualcuno potesse accedere liberamente agli uffici governativi di Abdel Fatah al-Sisi è probabile che in una cartella dal titolo “top priorities” troverebbe, tra i primissimi punti, la dicitura ‘lotta al terrorismo’.
Per l’Egitto la radicalizzazione jihadista nella penisola del Sinai costituisce la minaccia principale alla sicurezza nazionale, considerata l’importanza che in questi mesi si attribuisce all’allargamento del canale di Suez per il futuro dell’economia egiziana.
Inoltre, gli iniziali sospetti che Ansar Bayt al-Maqdis ed altre cellule terroristiche abbiano operato ed operino attraverso il Canale sono stati ampiamente confermati da una serie di attentati come quello di Mansoura del dicembre 2013.
Lo stesso non può dirsi, in verità, per Israele, che ha dimostrato, specie nell’ultimo anno, di considerare la minaccia sciita di Hezbollah la vera ‘scheggia nelle carni’ per la sicurezza nazionale.
Tuttavia, la minaccia rappresentata dalle cellule jihadiste, tra cui in primo luogo Ansar Bayt al-Maqdis, non può lasciare indifferente Tel Aviv data la presenza di potenziali obiettivi sensibili nel Golfo di Aqaba o all’aereoporto di Eilat.
Le preoccupazioni egiziane, affiancate da quelle israeliane, hanno dunque costituito la base per una solida cooperazione bilaterale.
Nel gennaio del 2014, con il tacito assenso israeliano, l’Egitto ha de facto alterato i termini del military annex agli accordi di pace, dispiegando nel Sinai un cospicuo contingente militare per combattere le cellule jihadiste.
Nel corso dello stesso anno, Israele ed Egitto hanno fatto ricorso ad uno strumento legale non molto conosciuto, l’Agreed Activities Mechanism, che consente loro di modificare i termini degli accordi del ’79 senza ricorrere alle procedure formali di revisione del trattato stesso.
Questo cambiamento nel modo in cui il trattato di Camp David è interpretato e implementato, è stato reso possibile anche grazie alla supervisione dall’organizzazione internazionale indipendente Multinational Force of Observers (MFO).
A seguito di questa procedura, il Cairo ha ottenuto l’autorizzazione al dispiegamento di truppe nelle regioni “proibite” del Sinai centrale e orientale (area B e C della penisola) ed ha intrapreso un incremento qualitativo e quantitativo del suo arsenale militare in queste regioni.
Da allora la situazione non è più cambiata: la presenza militare egiziana nel Sinai si è trasformata in una pratica permanente, tanto da far parlare alcuni osservatori di una revisione del trattato sulla base della prassi consuetudinaria, con il vantaggio di evitare i rischi politici legati alla revisione formale degli Accordi.
Grazie soprattutto alla collaborazione con il vicino sionista, l’Egitto ha così portato a termine con successo una serie di operazioni militari condotte nella parte settentrionale del Sinai, a partire dal luglio 2013.
Per il momento, l’unico ostacolo ad una piena realizzazione della cooperazione israelo-egiziana in materia di sicurezza è rappresentato dalle incertezze riguardo l’azione da intraprendere nei confronti di Hamas, l’organizzazione affiliata della Fratellanza Musulmana che contende all’Olp la legittimità nella rappresentanza della questione palestinese.
Per l’esercito egiziano la delegittimazione di Hamas nella striscia di Gaza è funzionale alla lotta contro la Fratellanza Musulmana all’interno del territorio nazionale. Le autorità militari egiziane sono convinte che la sconfitta della Fratellanza passi attraverso lo sradicamento dei movimenti germani e di conseguenza hanno fatto ricorso ai media nazionali allo scopo di pubblicizzare una forte campagna in funzione ‘anti-Hamas’, sostenendo, tra l’altro, di essere a conoscenza di informazioni circa un accordo segreto tra Hamas stesso e il jihadismo salafita.
Israele, dal canto suo, sembra essere riluttante a sferrare un colpo mortale verso lo storico nemico. Si teme cioè che Gaza possa cadere in uno stato di incontrollabile anarchia oppure, nella peggiore delle ipotesi, nelle mani di gruppi più radicali, magari appoggiati dall’Iran.
Nonostante questo aspetto ancora controverso, il sostanziale sviluppo della collaborazione tra Egitto e Israele configura un nuovo quadro geopolitico: stabilizzare e pacificare il Sinai eliminerebbe il pericolo di azioni terroristiche che minacciano le relazioni tra i due paesi e la sicurezza delle operazioni commerciali navali nel canale di Suez.
La cooperazione israelo-egiziana nel settore dell’energia è tra i temi più caldi nel dibattito sulle potenzialità dell’hub energetico nel Mediterraneo orientale. Già nel 2008, due compagnie egiziane – l’Egyptian General Petroleum Corporation e l’Egyptian Natural Gas Holding Company (EGAS) – avevano stipulato un contratto di vendita alla Israel Electric Corporation (IEC) per la fornitura di gas attraverso l’Eastern Mediterranean Gas pipeline (EMG).
Nella fase pre-rivoluzionaria i trasferimenti di gas ad Israele hanno mostrato una notevole regolarità ed efficienza, soddisfacendo il 18% del fabbisogno nazionale israeliano di gas. Alla fine del 2011, tuttavia, in concomitanza con l’ascesa della Fratellanza Musulmana, il gasdotto è stato ripetutamente sabotato attraverso una sequenza di attacchi dinamitardi che hanno costretto il governo egiziano ad interrompere la fornitura.
Il mancato rispetto dei vincoli contrattuali ha costretto l’Autorità Israeliana per l’Elettricità a riesumare le proprie centrali a gasolio per la produzione di energia elettrica, con un aumento considerevole dei costi dell’elettricità a danno della popolazione israeliana.
Poco dopo la compagnia israeliana ha citato in giudizio la EMG e le società egiziane, chiedendo un risarcimento pari a 4 miliardi di dollari. La Camera Internazionale di Commercio ha poi ridotto l’indennizzo da corrispondere a 1,76 miliardi di dollari. Cionostante, il Cairo ha optato per il congelamento delle negoziazioni in materia di gas naturale.
L’interruzione dei negoziati si è però rivelata una scelta politica di scarsa lungimiranza dato che le contingenze storiche hanno ben presto costretto il generale Al-Sisi a riprendere l’iniziativa in campo energetico. Dalla caduta di Hosni Mubarak, infatti, l’Egitto sembra essere precipitato in una sorta di buco nero energetico.
La crisi – una delle più gravi nella storia del paese – è dovuta principalmente a due fattori: l’aumento del consumo interno di energia (destinato a crescere ancora, parallelamente all’espansione demografica) e il calo nella produzione.
Secondo i dati dell’americana EIA (Energy Information Administration) il consumo totale di petrolio è cresciuto a una media annuale del 3% negli ultimi 10anni – circa 770mila barili al giorno nel 2013 – superando i tassi di produzione degli ultimi 6 anni.
Sebbene l’Egitto sia il secondo più grande produttore di gas del contenente africano, e malgrado possieda le maggiori infrastrutture di raffinazione di petrolio in Africa, queste stanno operando ben al di sotto delle loro potenzialità. Il prodotto delle raffinerie è crollato infatti del 28% tra il 2009 e il 2013.
Come risultato, l’Egitto è stato costretto ad importare i prodotti petroliferi per soddisfare la crescente domanda interna e il debito accumulato con le imprese di petrolio e gas straniere è cresciuto costantemente, trasformandosi in un pesante fardello per il bilancio del paese.
La cooperazione tra Egitto e Israele sulle risorse naturali non è pertanto una situazione da tenere in scarsa considerazione.
“Il petrolio e il gas hanno da tempo un ruolo chiave nelle relazioni tra Israele e Egitto”, afferma James Stocker, assistente universitario in Affari Internazionali presso l’Università Trinity di Washington. Il percorso di riavvicinamento può considerarsi iniziato nel giugno 2014, quando l’egiziana Dolphinus Holding Ltd. ha stipulato un accordo settennale per l’importazione di gas naturale dalla piattaforma off-shore di Tamar.
Dopo l’annuncio della sensazionale scoperta del giacimento Zohr da parte del CEO di ENI Claudio Descalzi, la stampa israeliana si è lanciata in proclami allarmistici, lamentando in particolare il collasso delle azioni delle società che sviluppano Leviathan e Tamar, ovvero l’Americana Texan Noble Energy e il Delek Group (composto da Delek drilling e Avner Oil Exploration) e prefigurando l’esclusione di Israele dall’hub energetico del Mediterraneo orientale.
Per Israele, le conseguenze di Zohr vanno ben oltre la perdita dell’Egitto come possibile acquirente di gas: Tel Aviv, infatti, programmava di destinare parte ingente del suo gas ai terminali egiziani di Idku e Damietta per rafforzare le proprie quote di esportazione. Nel caso in cui l’Egitto fosse in grado nei prossimi anni di allocare parte del suo gas verso l’esportazione, i terminali esaurirebbero la loro capacità di assorbimento, con l’inevitabile esclusione del gas israeliano.
Per questo motivo, a partire dall’agosto 2015, Nethanyau ha deciso di imprimere un’accelerazione alle discussioni interne alla Knesset circa l’approvazione di un accordo per lo sfruttamento del gas. Di fronte alle accuse mosse da David Gilo, il commissario antitrust che ha rilevato la presenza di pratiche monopolistiche all’interno della partnership Noble-Delek, Nethanyau ha sottolineato come il raggiungimento di un accordo tra il governo e il duopolio israelo-americano garantirebbe un flusso di centinaia di miliardi di shekels nelle casse dello Stato.
Lo scorso dicembre il ministro israeliano per l’Energia, Yuval Steiniz, ha approvato l’accordo di massima per il trasferimento del primo carico verso l’Egitto. Tale gesto si può interpretare come un segnale di apertura se non un esplicito invito al Cairo a sedersi al tavolo del futuro consorzio che nascerà nella regione e inclusivo di Giordania, Grecia, Turchia ed Europa in generale.
La volontà di Israele di rilanciarsi come superpotenza regionale offre quindi all’Egitto un’importante occasione di sviluppo, mentre la scoperta del supergiacimento ‘Zohr’ accelera notevolmente i tempi di rapprochement tra questi due paesi.
March 01, 2016di: Leonardo Giansanti Egitto,Israele,Articoli Correlati:
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