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Egitto. La rivoluzione delle “donne in rosso” tra violenza, solitudine ed esclusione

Una donna in rosso che lotta per divincolarsi tra le centinaia di mani che tentano di violarle il corpo. Quell’inferno ritratto dall’artista egiziana Salma el Terzi racconta il vissuto di centinaia di altre donne da Alessandria a Piazza Tahrir. 

  di Marco Di Donato, Valentina Marconi, Anna Toro

 

 

Cronaca di una giornata di ordinaria violenza in Piazza Tahrir

 

“All’inizio siamo state minacciate, poi un gruppo di uomini si è stretto intorno a noi, mentre alle nostre spalle la strada era sbarrata dal carretto di un venditore ambulante. Non so come, ma all’improvviso erano almeno cinque le mani che mi toccavano (…), con decine gli uomini che si accalcavano per raggiungerci”.

 

Queste le parole di una giovane egiziana, che da ‘soccorritrice’ si è trasformata in vittima.

 

La ragazza, la cui identità rimane anonima, prestava servizio come volontaria in una delle numerose squadre di soccorso formate da gruppi di cittadini intenzionati a garantire una maggiore sicurezza durante le ormai rituali manifestazioni di piazza Tahrir. Ai più giovani, e soprattutto alle donne. 

 

Un compito tutt’altro che facile. E anche il racconto, man mano che prosegue, si fa sempre più angosciante. 

 

“Mi hanno stretto una kefiah intorno al collo, mi sentivo soffocare. Ho dimenticato tutti i suggerimenti imparati nel gruppo di volontari di cui faccio parte. Non riuscivo a mantenere la calma sebbene fossi consapevole che le mie grida non facevano altro che eccitarli di più”.

 

Poi, qualcuno le strappa il maglione di dosso, continuando a toccarla.

 

Un altro uomo le si avvicina urlando alla folla di lasciarla stare, come volesse difenderla: in realtà vorrebbe solo sottrarla agli altri per poterla poi molestare. 

 

E’ in quel momento che si materializza l’opportunità di scappare.

 

“Improvvisamente si è aperto un varco e siamo corse all’interno di una pizzeria. Ci hanno chiuse dentro mentre fuori gli aggressori cercavano di sfondare la porta”.

 

Alla fine le due ragazze si sono salvate da una violenza che poteva essere ancora peggiore. Ma il loro non è un caso isolato, viste le moltissime testimonianze, soprattutto dall’inizio della cosiddetta ‘Primavera Araba’, che in Egitto ha portato al rovesciamento del regime di Hosni Mubarak, sostituito al potere da Mohamed Morsi e dai Fratelli Musulmani.

 

 

Un fenomeno dilagante

 

Secondo i responsabili della pagina Facebook Uprising of Women in the Arab World, la dinamica degli attacchi è sempre la stessa: “Un gruppo di 10-15 uomini chiudono la donna in un cerchio, la isolano dai suoi amici e dalle persone che le sono accanto. Iniziano a strapparle i vestiti con strumenti affilati, provano a violare in ogni modo le sue parti intime. Nessuna autorità s’intromette e non un solo poliziotto viene schierato per fermare questi crimini”.

 

In questo modo, Piazza Tahrir da simbolo della rivoluzione rischia di diventare sinonimo di ingiustizia di genere, trasformata ormai in luogo insicuro, dove le donne non possono più avventurarsi liberamente senza incorrere in uno o più molestatori.

 

Anche in occasione dell’anniversario per la celebrazione del secondo anno della rivoluzione, lo scorso 25 gennaio, nei dintorni della piazza si sono consumati almeno 19 casi di violenza documentati. 

 

“Coloro che sopravvivono a queste esperienze dolorose devono affrontare il giudizio della società, commenti sprezzanti, interrogatori e domande sui loro usi e costumi o in merito alle ragioni per le quali avevano deciso di scendere in strada – spiegano in un comunicato i volontari dell’Anti-Sexual Harassment/Assault  –. Nella nostra società l’atto di violenza sessuale è sostenuto da una cultura del silenzio, della negazione, della colpevolizzazione della vittima”.

 

Ed è per questo motivo che non esistono statistiche ufficiali del fenomeno delle violenze di gruppo in piazza: molte donne, infatti, preferiscono non denunciare i loro aggressori per paura della stigmatizzazione sociale che le accompagnerebbe.

 

Le parole di Fatma Sayed, studiosa e ricercatrice presso l’European University Institute, inquadrano perfettamente la problematica: “Lo stupro è certamente un mezzo di intimidazione. Ma, cosa ancora più grave, è un elemento ormai socialmente accettato, che finisce per colpevolizzare la vittima e non chi la esercita. È sorprendente che spesso finisca per assumere la forma di una violenza di massa: un assassinio sociale collettivo nei confronti di chi osa ribellarsi al sistema vigente. Certamente è un mezzo di repressione politica”. 

 

Eppure, nonostante il clima di omertà, il problema della violenza contro le donne in Egitto è particolarmente sentito.

 

Secondo i recentissimi dati dell’United Nations Entity for Gender Equality and the Empowerment of Women, il 99,3% delle egiziane ha già subito una qualche forma di aggressione, sia fisica che verbale. 

 

Un aumento considerevole, specie in riferimento a uno studio del 2008, secondo cui, alla medesima domanda, ‘solo’ l’80% delle donne rispondeva positivamente. 

 

Anche le percentuali del rapporto stilato dall’Egyptian Center for Women’s Rights rivelano in realtà una situazione drammatica per le donne egiziane, a tutt’oggi escluse dalla vita politica del paese, sottoposte ad angherie, aggressioni e a una continua espropriazione dei loro diritti fondamentali.

 

Ecco che, ad esempio, il 40% delle prigioniere egiziane finite in carcere per prostituzione sono state costrette a vendere il proprio corpo a causa di violenze e forzature.

 

L’88% delle donne ha sofferto forme di FGC (Female Genitale Cutting), il 60% è stata assoggettata con percosse alla volontà del marito, mentre il 38% non ha potuto esercitare il diritto di libero arbitrio nella scelta del consorte, che le è stato imposto dal nucleo familiare di appartenenza.

 

Sempre secondo il rapporto, l’Egitto è il secondo paese al mondo dopo l’Afghanistan con il più alto tasso di abusi sessuali.

 

La città più pericolosa – in termini di aggressioni verbali – sembra essere Port Said, mentre, per quanto concerne le molestie sessuali l’area di Gharbya guadagna il triste primato di luogo meno sicuro.

 

Le recenti testimonianze dimostrano come anche il Cairo sia ormai una delle città più pericolose in questo senso, anche se non bisogna dimenticare che il fenomeno delle violenze a sfondo sessuale non è una novità del post-primavera: in forme e misure (forse) minori era presente anche durante il regime di Mubarak, sebbene fosse tenuto sotto silenzio.

 

“Lo stupro come arma politica è stata usata anche durante il periodo di transizione dello SCAF – ricordano gli attivisti del gruppo Facebook Uprising of Women in the Arab World – quando alcuni ufficiali dell’esercito hanno trascinato una donna Niqabi e le hanno strappato il suo abaya, in quello che è diventato in seguito noto come lo scandalo del ‘reggiseno blu'”. 

 

Ma è dopo la “rivoluzione” che la situazione è ulteriormente degenerata, con gli attivisti che si dicono convinti che dietro a questo fenomeno si celi un preciso disegno politico per reprimere le legittime rivendicazioni della popolazione, soprattutto quella femminile.  

 

“Come non pensare infatti che fra le aree più insicure del Cairo figurano oggi gli immediati dintorni di Piazza Tahrir, i ponti che hanno testimoniato le grandi battaglie contro le forze di polizia, i luoghi dove tutti gli egiziani pensavano di poter costruire un nuovo Egitto?” si chiede  tra gli altri Janet Abdul-Alim, coordinatrice di Fouada Watch.

 

Così, sembrano ormai lontani i tempi delle statistiche dell’Egyptian Center for Public Opinion Research che sottolineavano le tante aspirazioni delle donne dopo la “rivoluzione del 25 gennaio 2011”. 

 

In base ai risultati del sondaggio, il 60% delle egiziane riteneva opportuno che una donna occupasse un ministero, quasi l’80% che il sesso femminile avesse adeguata rappresentanza parlamentare e, cosa ancora più rivoluzionaria a livello sociale, oltre la metà delle egiziane riteneva la propria educazione prioritaria rispetto al matrimonio. 

 

 

La risposta della società civile

 

“Le molestie sessuali sono, purtroppo, un fenomeno presente da molto tempo nelle strade del paese. Ma i casi di violenza e aggressione di gruppo in mezzo alla folla non possono essere assimilati alle molestie ordinarie con cui le donne egiziane hanno purtroppo a che fare ogni giorno” spiega Sally Toma, psichiatra, attivista e fondatrice di Kazeboon, campagna mediatica contro la violenza del regime. 

 

Anche lei ha subito un’aggressione durante una manifestazione di piazza: “Mi ha ‘salvata’ solo l’intervento di una guardia dell’ambasciata americana che non voleva problemi davanti al palazzo. Mi ha preso per i capelli e mi ha trascinata via”, ha dichiarato ai microfoni di Osservatorioiraq.it

 

Altre non sono state così ‘fortunate’, e questo nonostante la nascita dei vari gruppi che si sono auto-organizzati in squadre anti-violenza, proprio per contrastare il fenomeno delle aggressioni sessuali, specie durante le manifestazioni che si susseguono nella capitale.

 

In quanto a incidenza e brutalità, l’escalation appare sorprendente.

 

I responsabili degli attacchi sono sia singoli individui che gruppi di molestatori organizzati. In alcuni casi sono stati usati coltelli e altre armi, anche contro i volontari e chiunque altro cercasse di fermare le molestie. 

 

Per attivisti come Alam Wassef, coordinatore di Operation Anti-Sexual Harassment (iniziativa nata da diverse organizzazioni della società civile per monitorare e arginare queste violenze), gli aggressori prendono di mira le donne “con l’intento di far percepire la piazza come un luogo pericoloso e insicuro”, cercando anche di gettare discredito sull’immagine di Tahrir.

 

Wassef sostiene che i molestatori organizzati potrebbero perfino essere pagati.

 

D’altronde non sarebbe la prima volta. Nel suo documentario “Molestie sessuali e Rivoluzione”, la giornalista Ramita Navai rivela che in passato gli aggressori venivano reclutati nei quartieri poveri del Cairo, al soldo di uomini legati al regime di Mubarak per scoraggiare le proteste.

 

Queste aggressioni “sono un atto politico – commenta Sally Toma – un modo per uccidere la rivoluzione eliminando la presenza femminile dalle piazze”. 

 

Così, i vari gruppi di volontari cercano di colmare il vuoto lasciato dallo Stato, che non garantisce nessuna protezione ai cittadini e alle cittadine, anche nel luogo che dovrebbe essere il più sicuro per antonomasia: la piazza della protesta, in pubblico, all’aperto, dove le persone marciano le une accanto alle altre accomunate da bisogni e aspirazioni simili.

 

Secondo Mohamed al-Khateeb, volontario dell’Operation Anti-Sexual Harassement, il lavoro dei nuclei di soccorso che operano a Tahrir è stato utile a inquadrare alcuni aspetti del fenomeno delle violenze di gruppo ancora poco conosciuti.

 

In base alla sua ricostruzione, le gang che abusano sessualmente delle manifestanti preferiscono agire in angoli bui della piazza, evitando invece le aree più illuminate, per paura di essere identificati.

 

Inoltre, anche nei casi in cui la persona aggredita è armata, questo incide poco sulla sua capacità di difendersi.

 

Sempre sulla base della testimonianza di questo volontario, la presenza dei Black Block a Tahrir non avrebbe avuto nessun effetto positivo sul fenomeno delle aggressioni di gruppo, perché “se anche alcuni hanno dato una mano ai gruppi anti-violenza, altri si sono rifiutati di farlo e l´anonimato conferito dalla loro divisa nera potrebbe essere sfruttato dai molestatori per commettere abusi senza il rischio di essere identificati”.

 

Per le donne, poi, la sofferenza non si esaurisce con il singolo episodio. Basti pensare alla nuova Costituzione, frutto, commenta ancora Sally Toma “del lavoro di un’Assemblea formata al 90% da uomini e islamisti” che per lei “non rappresenta nessuno se non i Fratelli Musulmani”. 

 

Anche se, precisa l’attivista, la religione c’entra fino a un certo punto: “La cultura del machismo è ovunque, non solo nei partiti islamisti” spiega, aggiungendo che anche il forte tasso di disoccupazione della popolazione maschile potrebbe senz’altro essere una causa del peggioramento dei problemi legati alla violenza di genere.

 

Un punto di non ritorno? In realtà la velocità con cui si sono costituiti tanti gruppi di volontari a difesa delle proprie concittadine, così come le diverse campagne d’informazione e le numerose iniziative che stanno sempre più coinvolgendo giovani e attivisti, mostrano come le battaglie per i diritti delle donne siano tutt’altro che finite. 

 

I responsabili del gruppo Facebook The Arab Women for Arab Uprising sottolineano inoltre il significativo “aumento del numero di coloro che denunciano le aggressioni senza provare vergogna”. 

 

Sembra dunque farsi strada una maggiore consapevolezza dei diritti di genere perché “le egiziane appaiono sempre più convinte di non dover biasimare sé stesse per le molestie subite e questo atteggiamento, a poco a poco, cambierà la percezione nei confronti di questi crimini”.

 

 

 

May 30, 2013

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