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Egitto. “Le uniche parole che posso scrivere è che ho perso le parole”

A cinque anni dal 25 gennaio 2011, quando in piazza Tahrir prendeva vita la rivoluzione, l’attivista Alaa Abdel Fattah scrive una lettera aperta dal carcere in cui è recluso. La traduzione di Osservatorio Iraq. 

 

 

Cinque anni fa, in quello che sarebbe stato l’ultimo giorno normale della mia vita, mi trovavo seduto alla scrivania di una compagnia informatica a Pretoria e fingevo di lavorare quando, in realtà, stavo scrivendo un breve articolo per il Guardian.

Era incentrato sul perché la rivoluzione egiziana dovesse essere presa seriamente in considerazione. O almeno, è così che lo ricordo.

Adesso non posso rivedere quel pezzo: è trascorso più di un anno da quando ho potuto avere accesso a Internet. In Egitto, i prigionieri non hanno neanche diritto a una chiamata telefonica. Ciononostante, non dovrei lamentarmi: se non altro riesco a vedere la mia famiglia due o tre volte al mese. Ad altri prigionieri politici (principalmente islamisti) non è concesso ricevere visite. 

Quel giorno di cinque anni fa mi sono innanzitutto occupato della battaglia inerente ai discorsi e alla narrativa della rivoluzione, una battaglia che mi avrebbe consumato per i successivi quattro anni. Eppure non ero sicuro che si stesse verificando una rivoluzione in Egitto: temevo sarebbe svanita proprio mentre scrivevo di una nuova forma di panarabismo giovanile.

Ci sarebbe voluto un altro giorno per accettare pienamente che ciò che si stava verificando era reale, e altri tre prima d’imbarcarmi su un aereo per il Cairo e unirmi a Tahrir. Sono passato dal dubitare della profondità della sollevazione alla preoccupazione di arrivare troppo tardi e perdere tutto. 

Dopo la caduta di Mubarak, la battaglia sulla narrativa rivoluzionaria è cresciuta d’importanza. Lo Stato si è visto costretto a fare dei compromessi con la rivoluzione senza per questo rinunciare a contenerla appropriandosi della sua stessa storia.

Abbiamo scritto sul perché continuassimo a protestare e perché non l’avessimo mai fatto fino ad allora.

I bambini che lanciano pietre alla polizia sono dei rivoluzionari o dei sabotatori? I prigionieri morti durante le rivolte avvenute all’interno delle carceri andrebbero conteggiati tra i martiri della rivoluzione oppure no? Qual è il ruolo dei militari nel regime di Mubarak? L’educazione dovrebbe continuare a essere gratuita nelle università pubbliche? Abbiamo bisogno di una costituzione? Se si, chi dovrebbe redigerla? E così via.

Ho scritto e riscritto, principalmente in arabo, perlopiù sui social media ma a volte anche sui quotidiani nazionali. Mi rivolgevo soprattutto ai compagni rivoluzionari con un crescente tono d’ammonimento: i temi principali erano la fragilità del momento rivoluzionario e la precarietà della nostra situazione.

Eppure, non avrei potuto scrollarmi di dosso quella pura e semplice sensazione di speranza e possibilità – nonostante tutti gli ostacoli, il nostro sogno continuava a librarsi in volo.

La gente parla di una “barriera della paura”, ma io l’ho sempre percepita come una barriera della disperazione e, una volta rimossa, persino la paura, i massacri e le prigioni non potrebbero riportala indietro.

Ho fatto tutte le sciocchezze che i rivoluzionari eccessivamente ottimistici fanno: sono tornato in Egitto, ho avuto un bambino, ho fondato una start-up, mi sono impegnato in una serie d’iniziative progressiste orientate al raggiungimento di una democrazia più popolare, decentralizzata e partecipativa, ho violato ogni legge draconiana e scardinato vecchi taboo, sono entrato in prigione sorridendo e ne sono uscito trionfante.

Nel 2013, abbiamo cominciato a perdere le redini della battaglia sulla narrativa rivoluzionaria per cederle a una velenosa polarizzazione tra un rabbioso e pseudo-secolare statalismo militarizzato e una forma brutale d’Islamismo settario e paranoico.

Tutto quello che ricordo del 2013 è quanto la mia voce fosse risultata stridula mentre urlavo “Una piaga in entrambe le vostre case”: quanto ci si sente piagnucolosi e melodrammatici a lamentarsi della maledizione di Cassandra, che avverte del fuoco distruttore, quando nessuno ti sta ad ascoltare.

Mentre le strade venivano occupate dalle manifestazioni, dove campeggiavano le foto dei poliziotti, anziché quelle delle loro vittime, i sit-in si riempivano di cori contro gli sciiti, le cospirazioni copte prosperavano, le mie parole non avevano più potere e nonostante questo continuavano a uscire.

Avevo ancora una voce, anche se solo in pochi l’avrebbero ascoltata. 

Ma in seguito lo Stato ha deciso di porre fine al conflitto commettendo il primo crimine contro l’umanità nella storia della Repubblica. Le barriere della paura e della disperazione sarebbero ritornate dopo il massacro di Rabea al-Adaweya. Un’altra battaglia narrativa sarebbe cominciata: convincere i non-islamisti ad accettare che non ci sia mai stato un massacro, a respingere la violenza commessa in loro nome. 

Tre mesi dopo il massacro sono tornato in prigione e la mia prosa ha assunto un ruolo nuovo e strano: richiamare i rivoluzionari ad ammettere la sconfitta.

Ad abbandonare l’ottimismo che era diventato pericoloso nel suo incoraggiamento a prendere posizione: un trionfalismo militare oppure un’ostinazione impopolare e impraticabile a cambiare radicalmente di regime. Ciò di cui avevamo bisogno era raccogliere tutta la forza che avremmo potuto per mantenere un baluardo a difesa dei diritti umani.

Ho parlato di sconfitta proprio perché il linguaggio della rivoluzione è andato perduto, rimpiazzato da un pericoloso cocktail fatto di un linguaggio nazionalista, nativista, collettivista e post-colonialista, utilizzato da entrambe le parti in conflitto con il fine di alimentare contorte teorie complottiste e diffondere la paranoia. 

Agli inizi del 2014, chiedere ai rivoluzionari d’impegnarsi in campagne per i diritti umani limitate alla revoca della legge sulle proteste e alla liberazione dei prigionieri politici era ancora motivo di dibattito. Molti ritenevano ancora che la rivoluzione stesse vincendo (definendo la vittoria in base alla caduta o al trionfo dei Fratelli Musulmani). L’idea che lo stato d’emergenza costituisse la nuova normalità era stata respinta dalla maggior parte delle persone. 

Oggi sembra che abbiamo vinto la battaglia finale sulla narrazione della rivoluzione. Mentre lo Stato ha ancora i suoi sostenitori, il loro numero si sta riducendo rapidamente, soprattutto tra i giovani.

Tanta gente ormai non discute più sulla natura degli eventi dell’estate 2013. Il dibattito tra colpo di Stato e rivoluzione è passato di moda. Persino i sostenitori di Al-Sisi non credono realmente che la prosperità possa giungere presto. Più difficile valutare il sentimento dei supporter degli islamisti: l’affetto raccolto per via della loro difficile situazione è in crescita, ma la loro abilità nel riuscire a organizzare un fronte unito contro il regime è probabilmente insufficiente. La disperazione prevale. 

Ho trascorso la maggior parte del 2014 in carcere, eppure avevo ancora tante parole.

Il mio pubblico si era ridotto parecchio, il mio messaggio non era più di speranza e nonostante questo sembrava importante ricordare alla gente che anche ammettendo la sconfitta si potesse ancora resistere. Che tornare indietro ai margini che avevamo combattuto durante l’epoca di Mubarak era accettabile fintanto che avessimo continuato a combattere per i diritti umani fondamentali.

Ma agli inizi del 2015, quando ho ascoltato la mia sentenza, non avevo più niente da dire a nessuno.

Potevo solo scrivere lettere personali. La rivoluzione, e quindi lo stesso Egitto, sarebbero lentamente svaniti anche da quelle lettere e alla fine del 2015, persino le mie personali parole si sono prosciugate.

Sono passati mesi dall’ultima volta che ho scritto una lettera e oltre un anno dall’ultimo articolo. Non ho niente da dire: nessuna speranza, nessun sogno, nessuna paura, nessun allarme, nessuna opinione.

Niente, assolutamente niente. Come un bambino con segni d’autismo, sto regredendo fino a perdere l’uso delle parole, la mia abilità d’immaginare un gruppo di persone in ascolto e di modellare mentalmente l’impatto delle mie parole su di loro. 

Cerco di ricordare cosa ho scritto per il Guardian cinque anni fa, durante l’ultimo giorno normale della mia vita.

Tento d’immaginare chi abbia letto l’articolo e quale possa essere stato il suo impatto, cerco di ricordare com’era quando il domani sembrava pieno di possibilità e le mie parole sembravano avere il potere d’influenzare (seppur leggermente) ciò che sarebbe potuto diventare il domani.

Non riesco a ricordarlo. Adesso, il domani sarà esattamente come oggi, ieri e tutti i giorni che l’hanno preceduto e che lo seguiranno. Non ho più influenza su niente.

Ma una cosa che ricordo, una che conosco, è che il quel senso di possibilità era reale.

Sarebbe potuto essere naïve credere che il nostro sogno si sarebbe avverato, ma non era sciocco pensare che un altro mondo sarebbe stato possibile. Era realmente possibile.

O almeno, così lo ricordo.

 

*Questa lettera è stata originariamente pubblicata sul giornale indipendente egiziano “MadaMasr”, ed è disponibile qui. La traduzione dall’inglese è a cura di Giovanni Piazzese. 

February 01, 2016di: Alaa Abdel Fattah per Mada Masr*Egitto,

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