Egitto. Racconti da un paese in transizione

Dal Cairo ad Alessandria, tre diverse storie di gente comune, semplici cittadini protagonisti di un processo di transizione dalle mille incognite.

Muhammad non va al lavoro da una settimana. La sua azienda è chiusa, perché è troppo rischioso uscire per strada. Fatima, 24 anni, ha dovuto lasciare la sua casa a Imbeba per ‘emigrare’ al di fuori di un quartiere che come molti altri è diventato troppo pericoloso per una famiglia composta da tre donne. Lei lavora solo tre ore al giorno. Ahmed è invece ad Alessandria, e quando lo chiamo mi risponde mentre è affacciato al balcone di casa, a fumare, e a guardare la gente che manifesta in strada.

Tre egiziani, tre storie diverse: la fotografia di un paese diviso e profondamente polarizzato.

Muhammad sostiene con forza ‘l’opzione militare’ che lui stesso definisce un golpe. Solo tecnicamente però, poiché senza il sostegno della piazza i militari non sarebbero stati in grado di raggiungere alcun risultato. Quanto la folla sia stata controllata, indotta o incitata dai militari, su questo non si pronuncia e non sa rispondere.

Insiste invece sul fatto che Morsi abbia miseramente fallito, nominando ministri incapaci e gestendo le strutture amministrative del paese come peggio non poteva. Il presidente, sempre secondo Muhammad, ha portato l’Egitto sull’orlo della bancarotta, del disastro.

Dal suo punto di vista qualsiasi soluzione era preferibile al perdurare della sua presidenza: anche l’opzione militare.

Gli chiedo se teme che possano sequestrare il processo rivoluzionario per ridurlo alla propria volontà. Gli domando se la piazza, e gli egiziani in generale, non siano fin troppo dipendenti dall’idea di essere tutelati, protetti, governati da un uomo che indossi un’uniforme.

La risposta non lascia spazio alle interpretazioni: “Se guardi alla nostra storia, è da centinaia di anni che i militari ci governano con l’uso della forza. E’ inevitabile che per il popolo sia quasi impossibile pensare ad un sistema diverso da quello che siamo sempre stati abituati ad avere”.

E Tamarud? Allora come è stato possibile ottenere 22 milioni di firme in così breve tempo?

Muhammad, che per lavoro è abituato ad avere a che fare con tabelle, numeri, statistiche, e quindi fa un ragionamento elementare: tutti quelli che avevano votato per Shafiq, Sabbahi e Aboul Futouh si sono uniti e hanno creato un fronte comune.

E sui numeri forse ci siamo, anche perché Muhammad mi racconta di una campagna capillare che ha coinvolto tantissime persone. Solo suo fratello ha raccolto 50 firme, mentre alcuni suoi colleghi svariate centinaia. Moltiplicando questi dati per la popolazione cairota e più generale egiziana, e tenendo nel conto le percentuali delle ultime elezioni presidenziali, 22 milioni di nomi potrebbero non essere una cifra così assurda.

Ciò che Muhammad non dice è che questi numeri danno l’idea di quale sia il peso reale degli esponenti del vecchio regime in questo nuovo scenario. Shafiq è stato l’ultimo rivale di Morsi, ha convogliato sulla propria persona quasi la stessa percentuale di voti destinati alla Fratellanza per cui, se il ragionamento di Muhammad è valido, circa 12 milioni di quei 22 sono sostenitori del ‘vecchio che ritorna’.

Quello di Fatima è invece un Egitto pro-Morsi. Lei ha votato per il candidato della Fratellanza nel 2012 e ne ha sostenute le politiche. Lavorando nel settore turistico sperava che quest’estate ci sarebbe stato un nuovo flusso di arrivi dall’estero, ma la nuova crisi nazionale ha riportato i numeri del settore in una drammatica situazione di immobilità.

Fatima, che pure è andata a Tahrir nel 2011, oggi ha paura a scendere in piazza, anche se avrebbe voluto farlo per sostenere “il suo presidente”.

Infine c’è Ahmed, l’unico dei tre che guarda a quanto sta accadendo con parziale distacco, dall’alto del suo balcone. Ha studiato per diverso tempo all’estero, lavora nell’ambiente universitario e sta provando ad analizzare la situazione a mente lucida, senza farsi trasportare da quell’inevitabile emotività.

E’ l’unico che apre la nostra conversazione discutendo della nuova dichiarazione costituzionale: “E’ un processo top-down, nel quale nessuno viene coinvolto. Siamo molto arrabbiati e delusi”.

In effetti ieri la politica egiziana ha registrato una lunghissima serie di critiche a una ‘road map’ che sembra aver scontentato tutti. I tempi per le elezioni sono lunghi (12 mesi), i poteri del presidente ad interim sproporzionati e il ruolo dei militari fin troppo evidente così come la strizzata d’occhio ai salafiti che vedono riconosciuta nell’articolo uno la preminenza del sunnismo come dottrina di Stato.

Tuttavia, ad accomunare queste tre storie, è la paura del futuro. Dalle loro parole traspare infatti un senso di insicurezza, sempre più profondo e radicato, e in parte diverso dallo spirito del 2011. Muhammad, Fatima e Ahmed sono l’immagine di un paese che – seppure diviso – necessita di essere totalmente coinvolto nell’attuale transizione, senza che nessuna delle tre posizioni prevalga sull’altra.

*Tutti i nomi di persona qui riportati sono frutto di fantasia al fine di proteggere l’identità dei soggetti intervistati.

July 10, 2013di: Marco Di DonatoEgitto,Articoli Correlati:

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