di Anna Toro
Non volevano tornare a parlare di dati e di spese militari ma, “di fronte alle falsità che sono state diffuse dal governo”, hanno sentito la necessità di intervenire nuovamente.
Così, Rete Disarmo, Sbilanciamoci! e Tavola della pace hanno diffuso un nuovo report dettagliato, “teso a sbugiardare le menzogne sul ritorno occupazionale del progetto Joint Strike Fighter”.
L’occasione, da parte della Difesa, per ribadire queste “bugie”, è stata la convocazione di alcuni giornalisti nella nuova base di Cameri, in provincia di Novara, a fine gennaio.
La stessa base che, costata 800 milioni di euro, si occuperà di assemblare le ali dei super jet e che, secondo le prime stime del governo, avrebbe portato nel nostro Paese circa 10mila posti di lavoro nuovi di zecca.
Se il governo si è poi affrettato a correggersi, dicendo che, nella stima, è compreso anche l’indotto, la realtà è che, fino alla fine del 2012, a lavorare a Cameri non erano che in poche centinaia.
“Certo, ci saranno delle assunzioni e dei trasferimenti. Ma perfino Finmeccanica aveva portato le sue previsioni dagli iniziali 3-4mila posti a un più realistico 2mila o poco più” commenta Francesco Vignarca di Rete Disarmo.
Le associazioni, dunque, hanno fatto due conti: “Per arrivare ai 10mila posti promessi, oltre alle 2.500 unità citate da Finmeccanica, le 50 ulteriori aziende coinvolte dovrebbero impiegare stabilmente sul programma circa 150 persone ciascuna – continua Vignarca – ma trattandosi di medie e piccole imprese, è evidente che questo è impossibile”.
Eppure, al territorio di Cameri era stato promesso molto. Domenico Argirò, insegnante e membro del movimento locale contro gli F-35, racconta l’aria che si respira. “Ora tutta la zona è fortemente militarizzata e sotto controllo – spiega –. Ci arriva pochissimo di ciò che succede nella base di assemblaggio, paradossalmente abbiamo più notizie dal nazionale che dal locale”.
“Soprattutto – aggiunge – la propaganda è pesante. I militari dell’aeronautica entrano nelle scuole e propongono ai ragazzi degli ipotetici corsi di volo, per aumentare il consenso”.
“Si sta promuovendo persino un corso post-diploma per assemblatori di F-35. Ma dei benefici reali del programma, qui ancora non si è visto nulla. Come il millantato miglioramento della viabilità”.
LA FINANZA “CREATIVA” DELLA DIFESA
Accanto ai falsi dati sul ritorno occupazionale, secondo le associazioni ci sarebbero anche quelli sul ritorno industriale.
La Difesa, infatti, ha sempre parlato di un ritorno del 100 per cento delle spese, se non addirittura di più.
Ma, secondo il report, ad oggi le industrie italiane “hanno ottenuto circa 800 milioni di dollari di appalti a fronte di una spesa già sostenuta dall’Italia di circa 3 miliardi di euro, di cui quasi un terzo spesi solo per lo stabilimento di assemblaggio di Cameri”.
Dunque, un ritorno di poco più del 20 per cento della spesa. “Se a questo aggiungiamo che gran parte dell’aereo viene costruito all’estero, non capiamo da dove possa arrivare questo ritorno del 100 per cento di cui tanto parlano”.
“In cosa consistono questi 800 milioni di appalti? – si chiede ancora Vignarca – è il totale dei contratti, o delle commesse esterne? Di cosa stiamo parlando?”.
E poi ci sarebbero i “finti risparmi”. All’inizio, infatti, il governo si era impegnato ad acquistare 131 aerei per un costo di oltre 15 miliardi, per poi ridurre il numero dei velivoli a 90 unità.
Il problema è che i costi dei caccia continuano a lievitare senza sosta, tanto che il risparmio sul tanto decantato taglio sarebbe ormai di appena 3 miliardi.
Ora, la spesa prevista per acquistare i 90 aerei è di 10,8 miliardi di euro (dati del Pentagono), a cui si aggiungono i costi di sviluppo, che portano la spesa totale a circa 14 miliardi di euro.
“Arriviamo, in pratica, a un costo medio di 120 milioni di euro per ogni caccia” spiega Francesco Vignarca.
A cui, però, bisogna aggiungere il costo del mantenimento “a vita” che, sulla base degli studi fatti per i programmi canadese ed olandese, dovrebbe portare l’ammontare del costo totale del programma a quasi 52 miliardi di euro.
“In pratica – affermano le associazioni – il costo di una manovra finanziaria”
SE GLI ALTRI CI RIPENSANO…
“Tutti, perfino gli Stati Uniti, hanno messo in discussione il programma. Tranne l’Italia” commenta tra gli altri Massimo Paolicelli, presidente dell’Associazione obiettori Nonviolenti.
L’Olanda, ad esempio, dopo un massiccio voto contro il progetto, ha avviato un’inchiesta parlamentare, mentre il Regno Unito deciderà dopo il 2015.
Il Canada, che ne doveva acquistare 80, ha rinunciato al programma. Lo stop nasce dalla forte polemica scaturita dalle omissioni, da parte del governo conservatore, sui reali costi del programma, fortemente sottostimati.
Intanto, negli Usa, si moltiplicano le critiche da parte del Congresso, e i numerosi problemi manifestati dall’F-35 nel corso dello sviluppo e l’aumento dei costi del programma sono stati puntualmente criticati anche dal GAO, la Corte dei Conti americana.
Si diceva, infatti, che l’F-35, avrebbe dovuto sostituire ben sei diversi modelli non solo negli Stati Uniti, ma in tutti i paesi del mondo.
“Peccato che, una volta pronto per volare, sarà in realtà già obsoleto” spiegano i promotori di Taglia le ali alle armi, che stimano che i primi aerei voleranno con solamente il 35 per cento dei test eseguiti.
“Non faranno in tempo a decollare che dovranno subito tornare in Texas per le riparazioni e gli aggiornamenti. Che saranno costosissimi”.
Contestualmente, i problemi tecnici portano a continui abbassamenti anche degli standard operativi. “Il ché – si legge nel report – mette in dubbio il raggiungimento di quelle capacità militari che hanno spinto le forze armate di molti paesi a imbarcarsi nel programma”.
Ed è così che il super caccia F-35 inizia anche a diventare sempre meno competitivo rispetto ai nuovi caccia di fabbricazione russa e cinese.
“Se non abbassassero gli standard, il caccia F-35, che entrerà in servizio nel 2018 o 2019, probabilmente non supererebbe mai il suo esame finale al Pentagono” commenta su Wired il giornalista David Axe.
TRASPARENZA E ALTERNATIVA
Eppure, il governo italiano continua a definirli “indispensabili”, giustificando ulteriormente il programma con una presunta bassa incidenza delle spese della Difesa sul Pil nazionale: 0,84 per cento pari a 13,6 miliardi nel 2012, contro una media europea dell’1,61 per cento.
“Ecco qui un’altra bugia dato che, sulla base delle informazioni fornite dal governo italiano nel 2011, la Nato ci informa che le spese per la difesa in Italia sono pari a 21,7 miliardi di euro. Quindi l’1,4 per cento del Pil” commenta Vignarca.
Le realtà promotrici di Taglia le ali alle armi chiedono quindi che, sulla questione dell’acquisto dei caccia, venga istituita finalmente una commissione parlamentare di inchiesta, con un intervento della Corte dei conti.
“Possibilmente, vorremmo che si fermasse tutto e si rincominciasse a pensare alle vere priorità del nostro Paese. A oggi è ancora possibile uscire dal progetto senza alcuna penale da pagare” sottolinea Grazia Naletto di Sbilanciamoci, che elenca anche una serie di alternative ai super aerei di cui il paese avrebbe veramente bisogno, soprattutto in tempi di crisi come questo:
“Con il costo di un solo cacciabombardiere F-35 si potrebbero costruire 387 asili nido per più di 11mila famiglie, dando lavoro a 3.500 persone – spiega – oppure si possono acquistare 21 treni per pendolari con 12.600 posti a sedere; o ancora, procurare l’indennità di disoccupazione a oltre 17 mila lavoratori precari, e ripristinare un servizio civile come si deve”.
Le dà man forte Maurizio Simoncelli, di Archivio Disarmo: “Ormai l’argomento è diventato centrale anche in campagna elettorale – commenta – Peccato che mai nessuno, finora, ci abbia saputo dire a che cosa ci servono realmente questi cacciabombardieri”.
E aggiunge: “Il nostro è un paese in cui la politica ancora non sa e non discute su quale modello di Difesa vuole adottare. E questo è molto grave”.
February 13, 2013
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