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Focus Tunisia/Media in rivolta

Il 23 ottobre 2011, le prime elezioni libere. Un anno dopo la Costituzione non è ancora pronta. Però il popolo tunisino c’è e vuole il cambiamento. Vuole la libertà e far valere i propri diritti. E alla fine ci si accorge che qualcosa è cambiato, quando capita che nella nuova Tunisia si faccia uno sciopero e il governo dia ascolto alla protesta.

Il 23 ottobre di un anno fa ha rappresentato per molti la seconda tappa della rivoluzione dopo la cacciata del dittatore: si sono svolte le elezioni, il primo scrutinio libero della storia tunisina, ed è stata eletta un’assemblea.

Ecco quindi che la data del 23 ottobre 2012 sarebbe dovuta essere una pietra miliare per la storia del paese, con l’entrata in vigore del nuovo testo.

Ma qualcosa non è andato come doveva.

La rivoluzione tunisina nel frattempo ha smesso di essere rivoluzione per cominciare a farsi Stato. Parallelamente ai lavori della costituente un governo provvisorio, eletto dal popolo, ha iniziato a dare la sua impronta al paese e a segnare la direzione verso la quale la Tunisia si sta dirigendo.

I cittadini cercano di mantenere vivo lo spirito che li ha portati un anno fa alle urne, ma si trovano al centro dello scontro tra i nuovi poli politici sorti nel post-Ben Ali.

Sono le nuove generazioni, protagoniste delle manifestazioni di un anno fa, a rappresentare ancora la nota positiva del bilancio del primo anno post-rivoluzionario della Tunisia.

Sul fronte istituzionale, invece, l’orizzonte appare decisamente più cupo.

 

 

Legittimità dell’Assemblea

 

Nei giorni scorsi si è assistito al dibattito sull’attuale legittimità dell’Assemblea costituente. L’art. 6 del decreto che l’ha istituita recita: “L’assemblée nationale (…) se charge d’élaborer une constitution dans un délai maximum d’un an à compter de la date de son élection”.

Prendendo alla lettera l’articolo, dunque, il 23 ottobre 2012 sarebbe dovuto scadere il mandato concesso del popolo.

Su questa base, nelle ultime settimane, quando ormai era chiaro che la scadenza non sarebbe stata rispettata, molti oppositori dei tre partiti al potere (Ennahda, CPR, Ettakatol) hanno iniziato a impugnare l’argomento della legittimità per attaccare il governo.

In realtà, ricorda il giurista Iyadh Ben Achour, il decreto che ha istituito l’assemblea non prevede il decadimento del mandato in caso di non rispetto dei limiti temporali.

Si tratta di una questione più politica che giuridica. I costituenti si sono impegnati politicamente davanti agli elettori a terminare i lavori in un anno.

In ogni caso già un mese fa, per evitare di dare spazio a queste opinioni e richiamare gli avversari politici all’ordine, il ministro Mohamed Abbou, incaricato delle riforme amministrative, ha annunciato via radio che la legge tunisina riserva la pena di morte a chiunque cerchi di destabilizzare il nuovo governo con la violenza.

‘Difendere la rivoluzione’. Questo in teoria il compito delle ‘leghe per la difesa della rivoluzione’ e questo è quello che è accaduto a Tatouine il 18 ottobre scorso, quando nel corso di una manifestazione contro il ritorno di elementi del vecchio regime, i manifestanti hanno travolto e linciato Lotfi Naguedh, coordinatore regionale di Nidaa Tounes, il neonato partito di opposizione a Ennahda.

Un nuovo argomento per gli oppositori della ‘troika’ che hanno iniziato a unire alle rivendicazioni dell’illegittimità anche quello della violenza politica.

La tensione è alta.

Sciogliere i comitati per la difesa della rivoluzione, porre fine alla  violenza politica e ritirare il mandato dell’Assemblea costituente. Queste le richieste che arrivavano da una parte della piazza alla vigilia di questo 23 ottobre.

Ecco quindi che il paese si aspettava che il 23 ottobre diventasse il giorno dell’apocalisse: le diverse anime politiche del paese portavano in piazza le rispettive rivendicazioni.

In realtà non si è registrata nessuna violenza, ma sicuramente non è stato l’anniversario che il popolo tunisino immaginava: avenue Bourghiba è stata invasa dalle forze di polizia e molti hanno atteso con il fiato sospeso l’inizio degli scontri.

 

 

La bozza di costituzione

 

Questo è quanto avveniva all’esterno della sede dell’Assemblea costituente. All’interno invece i lavori andavano avanti. Un testo semi-definitivo, inviato in fretta via mail agli eletti da sottoporre a lettura e votazione. Con una traduzione non ufficiale per i tunisini residenti all’estero che non parlano bene arabo.

L’assemblea cerca quindi di stringere i tempi.

Anche il testo provvisorio non sembrava rispecchiare le idee scandite in piazza all’inizio della rivoluzione. Pochi i riferimenti ai diritti dell’uomo, troppi quelli dedicati all’identità arabo-musulmana del popolo tunisino.

Lo Stato assume, secondo il dettato costituzionale, funzioni particolari che non ritroviamo nella tradizione del costituzionalismo democratico: suo compito è la “preservazione dell’entità familiare”, è il “garante della religione” e il “protettore del sacro”.

Proprio quest’ultimo punto è uno dei passaggi più preoccupanti del testo, come rilevano molti osservatori, particolarmente insidioso per la tutela della libertà d’espressione.

“Un passo avanti, due indietro?”, si chiede Amnesty International che ha da poco pubblicato un bilancio del primo anno post-elezioni.

Prima di tutto Amnesty punta il dito contro il crimine di diffamazione in materia religiosa voluto da Ennahda con l’introduzione dell’articolo 165 bis.

L’emendamento al codice penale prevede la prigione per tutte le “offese contro il sacro”, laddove però il termine ‘sacro’ ha una formulazione vaga che da ampi margini di discrezionalità.

Ma il concetto ‘del passo in avanti e due indietro’ è ben espresso dall’atteggiamento del nuovo governo rispetto ai trattati internazionali.

La nuova Tunisia ha appena firmato numerose convenzioni, soprattutto in tema di diritti umani, salvo poi introdurre nel testo costituzionale un clausola che pone la costituzione al di sopra di tali accordi. 

C’è poi la libertà d’espressione. Il rapporto di Amnesty si apre con un’analisi dai toni particolarmente duri. Nonostante infatti sembrava che il nuovo governo avesse fatto promesse in questo campo, “nella pratica ha fatto ricorso alle vecchie tattiche repressive indirizzate contro giornalisti, blogger, artisti e critici con il pretesto di mantenere l’ordine e la morale pubblici”.

Durante i primi mesi del dopo-rivolta, i segnali erano stati incoraggianti, alcune delle strutture in vita durante il governo di Ben Ali erano stata smantellate come la Tunisian Agency for External Communication, importante strumento di censura del governo per i media nazionali e internazionali.

Il ministro dell’Interno aveva poi concesso un centinaio di nuove licenze per giornali e magazine ed erano stati elaborati due decreti legge, il 115 e il 116, per la regolazione e l’indipendenza dei media.

Per quanto i testi dei due decreti fossero ancora perfettibili, prevedendo ad esempio ancora la diffamazione come reato penale punibile con la prigione, sembravano comunque un importante passo avanti nella protezione del lavoro dei giornalisti.

Ma i decreti sono rimasti ‘bloccati’ per mesi. Questa la ragione che ha portato allo sciopero della scorsa settimana di tutto il settore media. 

 

 

Lo sciopero dei giornalisti

 

Il 17 ottobre scorso in Tunisia c’è stato lo sciopero dei media. Organizzato dal sindacato dei giornalisti tunisini (Syndicat national des journalistes tunisiens – SNJT), è stato indetto  per manifestare contro i tentativi di limitazione della libertà di stampa attuati dal governo.

L’adesione è stata ampia e anche a livello internazionale hanno risposto all’appello 360 media arabi. Lo sciopero è stato rilanciato dall’Unione dei giornalisti Arabi.

Persino i meno critici nei confronti della Troika hanno deciso di incrociare le braccia. I telegiornali sono andati in onda in forma ridotta, dando le principali notizie della giornata ma soprattutto spiegando le ragioni del dissenso.

Il sindacato dei giornalisti ha tenuto a sottolineare che la decisione dello sciopero è stata presa dopo “aver esaurito tutte le possibili vie di dialogo”, sottolineando che il motivo va ricercato “nell’ostinata attitudine del governo” a non aprirsi al confronto rispetto alle rivendicazioni dei giornalisti.

La situazione è stata ben riassunta dal prof. Mohamed Salah Ben Aïssa, nel corso di un convegno sui media tunisini del 28 settembre scorso: “ A dispetto di quello che è successo un certo 14 gennaio 2011, il sistema è ancora lì”, ereditato “dal modello napoleonico, basato su gerarchia e segretezza”.

In realtà mesi fa, quando sembrava ancora tutto possibile, erano stati fatti passi in avanti in materia, in particolare erano state elaborati i due decreti legge già citati, il 115 e il 116, tesi a regolare il settore e a renderlo più trasparente.

Era il novembre 2011.

Affidati a una commissione parlamentare che avrebbe dovuto avere il compito di perfezionarle, le due disposizioni sono rimaste inattuate a dispetto delle continue richieste che venivano dagli attori dell’informazione tunisina.

Ma nella pratica che cosa prevedevano i due decreti?

Il 115 si occupa della libertà di stampa, riguarda l’editoria e la carta stampata. Nel testo viene affermata la libertà dei giornalisti a svolgere il proprio lavoro di investigazione in sicurezza e il diritto alla protezione delle fonti.

Spariscono tutte le autorizzazioni preliminari per la pubblicazione anche di ‘pezzi stranieri’.

Il 116 si occupa invece del settore audiovisivo. Questo secondo decreto avrebbe dovuto portare all’isituzione di un’autorità indipendente di controllo, la Haica (Haute Autorité Indépendante de la Communication Audiovisuelle), che avrebbe dovuto garantire libertà e pluralismo nel settore audiovisivo.

La Haica avrebbe dovuto avere un ruolo consultivo, esprimendo opinioni sui progetti di legge riguardanti il settore, e un diritto di veto rispetto alle nomine dei posti chiave dell’informazione pubblica, nonché un potere di controllo e sanzione.

La ragione del loro ‘blocco’ è da ricercarsi anche all’interno dello stesso mondo dei media, non tutti i professionisti dell’informazione si sono mostrati d’accordo con il testo dei decreti.

In particolare, a presentare le proprie perplessità, sono state le due ‘lobby’ dei canali privati nati durante il governo di Ben Ali, e secondo i quali le due disposizioni non avrebbero garantito realmente quell’indipendenza e quel controllo del settore a cui si doveva tendere.

Critiche mosse da chi, sotto il governo di Ben Ali, aveva potuto beneficiare di vantaggi che ora non vuole perdere, ribatte invece il sindacato dei giornalisti tunisini.

Sta di fatto che il governo ha rallentato l’iter legislativo dei due testi. Ma il settore dell’informazione non ha lasciato correre. Il vuoto legislativo e soprattutto la scarsa trasparenza nella gestione delle nomine attuata dal governo a partire dal gennaio 2012 hanno tenuto alta l’attenzione (e soprattutto la tensione). 

A fine settembre, la plenaria dei membri e rappresentanti del settore dei media ha invocato uno sciopero generale. E il 17 ottobre giornali, radio e televisioni tunisine hanno denunciato in modo chiaro e forte l’opacità che pervade tanti settori del nuovo Stato tunisino.

Il 18 ottobre è lo stesso sindacato dei giornalisti a comunicare che il governo ha deciso di sbloccare i due decreti. La Haica verrà istituita, e con lei una possibilità di indipendenza e controllo. Ora si tratterà di vedere la traduzione in realtà di questo annuncio.
 

 

November 1, 2012

di: Maria Letizia PeruginiTunisia,Articoli Correlati: 

Redazione

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