“Non solo Ghannouchi: cambiamenti sociali e islamismo in Tunisia”. È questo il titolo di un lungo lavoro di analisi svolto dagli accademici Rikke Hostrup Haugbølle e Francesco Cavatorta alla luce delle prime elezioni politiche post-Ben Ali.
Il 23 ottobre del 2011 si svolgevano in Tunisia le elezioni per l’Assemblea Costituente. Il primo libero esercizio di democrazia dopo la caduta del regime di Ben Ali avrebbe portato alla guida del paese il nuovo esecutivo guidato da Hamadi Jebali, e in cui si sarebbero riuniti i tre partiti usciti vincenti dalle elezioni: al-Nahdah (Ennahda) – il Movimento per la Rinascita di Ghannouchi di cui Jebali è segretario generale – il Congresso per la Repubblica (al-Mu’tamar) e la formazione di centro-sinistra Ettakatol.
Elezioni che avrebbero premiato Ennahda con il 37% di consensi popolari, e la conseguente assegnazione di 89 seggi all’Assemblea Costituente, dopo un ventennio di attività clandestine ed esilio per i suoi militanti.
Elezioni precedute da un periodo di grande incertezza, in cui sembravano emergere forze nuove: una fase “molto interessante per noi”, raccontano Rikke Hostrup Haugbølle (Università di Copenhagen) e Francesco Cavatorta (Università di Dublino).
I due analisti che, un anno fa, hanno svolto un lungo lavoro di indagine sul campo in seguito elaborato in un saggio di recente pubblicazione, dal titolo “Beyond Ghannouchi: social changes and Islamism in Tunisia” (Middle East Report 262, Spring 2011) e intervistati dal giornale online Jadalyya.
Un lavoro svolto per capire, prima di tutto, “se ci fosse una relazione tra l’aumento della religiosità individuale tra i tunisini registrata nel corso degli anni duemila, e il successo di Ennahda”.
Che, a loro parere, ben poco ha avuto a che fare con l’idea della creazione di uno “stato islamico” in Tunisia, dal momento che i maggiori sostenitori del partito “sono stati influenzati da anni di riforme socio-economiche in senso liberista da parte di Ben Ali”.
L’idea di fondo, dunque, è che ben prima dell’esplodere della rivoluzione tunisina, sotto l’apparente inattaccabilità delle strutture del regime, esistesse una opposizione organizzata ma scarsamente rappresentata dai media, proprio per non intaccare l’immagine di stabilità che del paese si voleva dare.
Molte sono state le spiegazioni date dagli analisti nei mesi passati riguardo al successo elettorale di Ennahda.
Dalla necessità di una affermazione di tipo identitario, sulla quale si è incentrata parte della campagna elettorale del partito, alle riforme economiche promesse, passando per la frammentazione delle forze di sinistra e per la necessità, da parte del popolo, di fare piazza pulita del vecchio regime premiando gli oppositori politici costretti all’esilio, garanzia di una presunta integrità morale.
Tutte spiegazioni che, per i due studiosi “sono in parte vere e hanno senso” ma non bastano a spiegare come, dopo una “sparizione” durata oltre un ventennio, Ennahda abbia ottenuto un sostegno “trasversale alle regioni, alle classi sociali e alle generazioni in un paese che si supponeva essere fortemente secolarizzato dopo anni di riforme modernizzatrici in stile francese”.
“Abbiamo riscontrato che la liberalizzazione economica messa in atto durante gli anni ’90 e 2000 ha creato una nuova classe media, insieme a una nuova classe lavoratrice povera. Ampi settori di entrambe sono stati esposti alla vacuità della nuova società dei consumi, da questa lasciati fuori come perdenti nel processo di globalizzazione.
Entrambe hanno trovato conforto nella pratica privata dell’Islam e nella riscoperta della religione hanno visto un mezzo per avviare il cambiamento sociale intorno a loro, per creare una società diversa attraverso l’impegno civile, nei limiti imposti dal regime”.
Una società dunque più attiva e ricettiva di quanto non si volesse far credere. E che, di fronte all’opportunità delle elezioni, ha visto tante persone “attivarsi per sostenere e influenzare un partito che incarnava i loro valori etici, che si sarebbero potuti tradurre in valori sociali condivisi nella creazione della nuova Tunisia”.
Ed è diventato ovvio che la scelta sarebbe ricaduta su Ennahda “perché incarnava valori etici e morali che avrebbero potuto diventare la base della nuova Tunisia.
La cosa più interessante, comunque, è il grado attuale di ‘liberalismo’ che molti militanti di Ennahda dimostrano quando si tratta di pensare e legiferare in merito ai diritti e alla condotta individuale. Mentre membri, attivisti e sostenitori ordinari non si descriverebbero probabilmente come ‘liberali’, devono manifestare un certo grado di tolleranza per ciò che potrebbero definire un comportamento non-islamico”.
Ma Ennahda, secondo la tesi avanzata, non rappresenterebbe il classico attore politico di opposizione: un partito salito nel consenso popolare grazie all’improvvisa apertura di un sistema politico prima strettamente controllato dal regime.
“E’ stato l’attivismo degli ordinari cittadini, in molti casi spontaneo, a portare il partito così in alto, e così velocemente. Il membro del partito Rafik Abdessalim, attuale ministro degli Esteri, riconosce questa realtà: “Nel 1989 molti membri sono stati esiliati, 4 mila erano in prigione. Prima del gennaio 2011 non c’erano uffici, attività pubbliche, segni visibili di Ennahda: la struttura attuale del partito è quindi il prodotto dell’impegno della gente. Non si può spiegare tutto in base alla struttura del partito o all’idea che ciò che si dovrebbe fare sia dettato dall’alto. Sono stati i cittadini ad aver aperto sedi locali di Ennahda, non i dirigenti”.
Da questa premessa deriva l’idea che Ennahda sia percepito come un ampio movimento composto da tante ‘sezioni’, che sottoscrivono ampiamente un ideale islamico, sviluppato durante il dominio di Ben Ali ma sotto il radar del regime. Questi gruppi locali hanno poco o niente a che fare con la Ennahda del 1980, il movimento islamista di Rachid Ghannouchi, lo storico leader esiliato che ha fatto ritorno in patria dopo la fine della dittatura di Ben Ali.
Ma hanno un’idea molto chiara di come dovrebbe essere il partito, nella vita pubblica e in politica. Di quale dovrebbe essere il suo impegno. Il progetto politico del partito è stato – e per alcuni è ancora – costruito dal basso come una prosecuzione del processo di re-islamizzazione della società negli anni 2000. Sono passati più di 25 anni prima che Ennahda potesse operare apertamente, e in questo periodo il paese è cambiato drammaticamente.
Tre fenomeni da questo punto di vista sono particolarmente rilevanti: l’emergere di una classe media a favore del liberismo economico e a suo agio con la modernità occidentale; la definizione di un’identità araba-musulmana forte che si è discostata dal progetto occidentale – e francese in particolare – di modernizzazione della Tunisia di recente indipendenza; e parallelamente l’enfasi posta sull’Islam come forma di fede personale (…). Gradualmente, questi vettori di cambiamento sociale hanno contribuito insieme a influenzare la sfera della vita pubblica (…). La rivoluzione del 2011 ha liberato queste forze sociali, portandole a sfidare il mito della laicità tunisina (…).
Secondo gli autori insomma l’attivismo sociale islamista ha permeato la società tunisina sin dall’inizio degli anni duemila, crescendo costantemente. Da una parte la necessaria risposta alle inefficienze del sistema di welfare, dovute alla corruzione diffusa nel settore pubblico: una situazione non dissimile a quanto riscontrato in Libano, con il movimento di Hezbollah, o nei Territori Palestinesi Occupati, con Hamas;
ma anche una risposta ‘morale’ alla mancanza di moralità del regime.
“E’ il legame tra etica e Islam come difesa contro l’immoralità del regime ad aver contato nella diffusione dell’attivismo islamico privato, mentre le forze laiche di sinistra si concentravano molto di più sulle carenze di tipo economico, come indicavano le rivolte del 2008 nel distretto di Gafsa”, scrivono gli autori.
“Mentre il numero di associazioni attive è cresciuto dopo la rivoluzione, il fenomeno non è una diretta conseguenza della caduta di Ben Ali. È caratterizzato da un Islam profondamente personale, centrato sull’attivismo sociale più che sulla politica, e dipendente da reti di sostegno e di diffusione. Il collante di questo network è una conoscenza specifica e una pratica dell’Islam in cui i precetti religiosi si applicano a chi li sceglie, e non vengono imposti a tutta la società.
Questo mutamento di prospettiva è stato filtrato anche dalla leadership di Ennahda, che ha ripetuto incessantemente professioni di tolleranza da quando è stato legalizzato, in parte per rassicurare i tunisini laici, ma in parte per rappresentare il punto di vista e la pratiche di questi nuovi membri e sostenitori” (…).
(…) C’è una risonanza chiara tra il discorso degli attivisti sociali ed Ennahda. L’attivismo sociale si è sviluppato anni prima che il partito di Ennahda fosse legalizzato nel 2011 e autorizzato ad operare liberamente.
Una situazione che suggerisce come molti quadri del partito ed elettori vengano dai ranghi dell’attivismo sociale e portino con loro le esperienze e i valori elaboarti sotto la dittatura di Ben Ali. Ne consegue che ci sono echi delle attitudini del settore islamico della società nelle posizioni ufficiali di Ennahda (…).
Sono per la maggior parte questi giovani attivisti della classe media, insieme alle generazioni più anziane di militanti tornate dall’esilio e uscite di prigione, che hanno gonfiato le fila di Ennahda e contribuito al suo successo (…).
(Estratti dal testo originale)
Il loro lavoro di ricerca si è svolto un anno fa, e nel frattempo Ennahda ha assunto la guida di una coalizione di governo che, nel conciliare le anime di tre diversi partiti, e le spinte che arrivano dalle rispettive basi, affronta difficoltà quotidiane.
Come ricordano i due studiosi, però, “all’epoca della nostra ricerca Ennahda era il nuovo attore verso il quale tutti manifestavano interesse.
Oggi è chiaro che un lavoro sull’Islam e sulla partecipazione politica in Tunisia dovrebbe prendere in considerazione anche il salafismo, che è in parte una reazione alla secolarizzazione della politica pubblica tunisina sotto Bourguiba e Ben Ali, ma anche una reazione a quello che viene percepito come un ‘ammorbidimento’ di Ennahda sulle questioni che i salafisti sentono cruciali per la costruzione di un nuovo paese: come l’applicazione della shari’a e il suo inserimento nella Costituzione”.
L’intervista originale così come gli estratti dello studio in inglese sono consultabili qui.
1 novembre 2012
di: Cecilia Dalla Negra (a cura di)Tunisia,
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