Il processo contro due artisti di strada, accusati di ‘grave attentato contro lo stato’ per aver realizzato un graffito a Gabès, apre una finestra sul mondo della street-art in Tunisia. E del ruolo che questa forma di denuncia ha avuto, e continua ad avere, nel cammino verso la democrazia.
di Cecilia Dalla Negra
Un graffito sul muro – “Il popolo vuole diritti per i poveri” – due giovani artisti, un arresto. E la gente che, nel mondo reale e in quello virtuale, si mobilita in loro sostegno.
È la storia di Oussama Bouajila e Chahine Berriche, due che da qualche parte, in qualche città occidentale, sarebbero forse considerati vandali, ‘imbratta-muri’.
Ma che sotto il regime di Ben Ali diventano attivisti, mani colorate sui muri della rivoluzione nei giorni della Casbah, voce del popolo nella Tunisia post-rivoluzionaria, nella quale una parete diventa spazio di espressione e teatro di diffusione di un messaggio collettivo.
Il 4 novembre scorso Bouajila e Berriche vengono arrestati nella città di Gabès, uno dei principali centri industriali della costa: dove si produce il cemento, si fanno i mattoni, e dove si trovano le raffinerie di petrolio.
Ma dove resta alta la tensione sociale, come dimostrano gli scontri recenti tra le forze di polizia e i manifestanti scesi in strada per denunciare povertà e disoccupazione.
Oussama e Chahine, graffeurs del collettivo Zwewla – i ‘poveri’ – cercano una parete, impugnano le bombolette spray e lanciano un grido. Il popolo, che ha rovesciato la dittatura e guadagnato la democrazia, vuole giustizia sociale. Vuole ancora il pane e la dignità che rivendicava nelle piazze, due anni fa.
Sorpresi da alcuni agenti, vengono arrestati e accusati di “grave attentato allo Stato, danneggiamento di beni pubblici e diffusione di un messaggio turbativo dell’ordine pubblico”.
Il 23 gennaio, durante l’udienza di prima istanza, una piccola folla si raduna davanti al tribunale: è il segno che qualcosa, nel paese, è davvero cambiato. Anche se non abbastanza per il momento. Portano cartelli e striscioni, per affermare che ‘i graffiti sono una forma d’arte e d’espressione, non un crimine da punire per legge’.
Un processo, il loro, che non riguarda solo un muro, e va ben oltre il dibattito sull’arte di strada e l’espressione visuale.
Ma che chiama in causa lo spazio pubblico che diventa terreno di riappropriazione popolare, luogo di espressione del disagio collettivo e di rivendicazione. Un muro, e il messaggio politico che può veicolare.
“Questo processo non riguarda personalmente né me, né il mio collega Oussama. Riguarda tutti gli zaweli, i ‘miserabili’ tunisini, e tutti coloro che hanno scelto una determinata forma di espressione per le proprie opinioni”, ha dichiarato in un’intervista a Radio Kalima Chahine Berriche.
“In Tunisia dopo la rivoluzione si può parlare di democrazia, di diritti umani, dei rapporti tra islamisti e laici. Ma non di grandi problemi come la povertà e la giustizia sociale: in quel caso si viene arrestati”, gli fa eco Bouagila.
Il collettivo di cui fanno parte, che firma i suoi ‘tag’ con una Z richiamando il personaggio di Zorro, ha un obiettivo dichiarato: quello di denunciare la marginalizzazione e lo stato di abbandono in cui versano ancora ampi settori del paese.
Per farlo, hanno scelto i graffiti: una forma d’arte metropolitana, che si sviluppa tradizionalmente nei luoghi più degradati delle grandi città. Nelle periferie dimenticate, nelle aree industriali prive di vita; tra i vagoni di un treno, o in qualche grande stazione del tram.
Una forma d’arte che parte da lontano, dai margini, e che lentamente si fa strada per arrivare al cuore dell’agglomerato urbano e di chi lo abita: denuncia il dittatore, ne rivendica la destituzione, divulga slogan e immagini in cui il popolo possa riconoscersi.
Il fenomeno ha preso piede in Tunisia molto prima della rivoluzione, ma è durante i mesi della sollevazione, dei sit-in alla Casbah, dei comitati di quartiere, che invade coscienziosamente le strade ottenendo il consenso popolare.
E se sotto il regime i graffeurs erano controllati a vista, il processo di Gabès dimostra che i loro contenuti continuano a spaventare il potere.
Ma è il clima oggi ad essere cambiato, e il collettivo dei ‘miserabili’ nelle ultime settimane ha incassato il sostegno di migliaia di internauti solidali, che hanno lanciato la campagna online “I graffiti non sono un crimine”, e organizzato manifestazioni di solidarietà.
E quello del Sindacato degli artisti tunisini che, attraverso le parole del suo segretario generale, Amor Ghedamsi, ha ricordato le tensioni createsi già nei mesi passati con alcuni fondamentalisti religiosi. “Loro ci hanno minacciati in nome della religione: adesso il governo fa esattamente lo stesso, in nome della legge e della giustizia”.
Hani Naim, blogger libanese autore di ‘Grafiti Uprising’, un libro che ripercorre il ruolo dell’arte di strada nei paesi arabi protagonisti delle rivolte, sostiene che è la città a definire i limiti e i confini della vita popolare. Ed è per questo che il potere – che sia in Egitto, in Tunisia o in Europa – sviluppa con essa una reazione di possesso, tentando di dominarla con l’imposizione di un messaggio controllato.
E allora, caduta la dittatura, lo spazio pubblico torna ad essere proprietà del popolo, e il graffito una forma di comunicazione che si riappropria di una agora a lungo negata.
Se in Palestina il muro di annessione Israeliano diventa la tela di Banksy su cui mostrare un’umanità negata; se a Beirut Seeman Khawam finisce sotto processo per aver raffigurato in un graffito uno dei tanti soldati che militarizzano lo spazio cittadino; se a Kabul Shamsia Hassani è la prima donna a scegliere i graffiti per denunciare la condizione femminile, e in Egitto i muri di piazza Tahrir sono diventati una forma di rivendicazione di genere contro abusi e violenze, anche i muri tunisini parlano.
E raccontano un paese che non ha paura di lottare.
“Ormai chi dice ‘libertà di espressione’ dice ‘arte di strada’. Sotto la dittatura eravamo dentro un cubo di vetro: ma il cubo è esploso. Ed ecco che adesso condividiamo la nostra arte con tutta la società”, spiega Meen One, uno dei graffitari più popolari in Tunisia, artefice di alcune opere a quattro mani con il collega SK-One, il primo tra gli artisti visuali del paese ad aver esposto in una galleria (in questo video all’opera insieme).
Tempi che stanno davvero cambiando, se anche l’Università di Tunisi e l’ambasciata britannica hanno invitato alcuni graffeurs a ‘disegnare’ la rivoluzione nei loro spazi.
Intanto, in attesa della prossima udienza del processo contro Boughila e Chahine, i due hanno fatto appello “alla solidarietà delle associazioni e di tutti coloro che difendono i diritti umani e la libertà di espressione”.
“La battaglia non è finita. Siamo insieme, per una Tunisia migliore, una vita migliore, e perché i poveri e i miserabili in questo paese possano vivere con dignità”.
*La foto finale, “La revolution continue en Tunisie”, è di Busy Pochi (via Flickr)
27 gennaio 2013