Le mele sono l’unico commercio che lega Israele e Siria, e un importante mezzo di sostentamento per i drusi del Golan occupato. Attraverso le storie degli abitanti di Majdal Shams, questo documentario racconta di resistenze e nazionalismi durante gli anni immediatamente precedenti al conflitto che ha spaccato in due la madrepatria.
di Ylenia Gostoli da Londra “Questa terra ha sempre avuto cinque semi,” dice il coltivatore di mele, mentre ne taglia una in due per mostrare le cinque punte che i semi formano al suo interno. Cinque come le punte delle stelle nella bandiera siriana. La stella di David, ci ricorda l’uomo, ne ha sei. Un po’ come le due metà di quella mela, la Siria da due anni a questa parte s’identifica con due diversi tricolori: quello dei lealisti e quello dell’opposizione. In parte perché girato fra il 2007 e il 2012, dunque prima dell’inizio del conflitto, “Apples of the Golan” (Le mele del Golan) non guarda a quanto sta accadendo, se non nel suo incipit, quando sullo schermo si alternano la testimonianza di un sostenitore di Assad e di un uomo accusato – e quindi torturato – di essere una spia del Mossad. Presentata il 5 maggio scorso al Barbican Centre di Londra, nell’ambito del Palestine Film Festival 2013, la pellicola dei registi irlandesi Keith Walsh e Jill Beardsworth è un omaggio alla gente di Majdal Shams, uno dei cinque villaggi drusi sopravvissuti all’annessione del territorio da parte di Israele durante la guerra dei sei giorni nel 1967 (gli altri 134 furono distrutti). Dalla giovane sposa che, avendo attraversato il confine che divide la Siria da Israele per amore, lascia dietro di sé la sua famiglia e il diritto al ritorno, ai giovani rapper sul cui passaporto la nazionalità è sempre stata “indefinita”. Attraverso questa molteplicità di voci e di storie, l’altopiano occupato si mostra unito, nei suoi diversi nazionalismi, contro l’occupazione israeliana. Un’occupazione onnipresente negli spazi fisici del paese: nei graffiti e nella valle che divide le famiglie che si parlano attraverso i megafoni; nel filo spinato e nel campo minato che divide un cimitero da una base militare Israeliana; nel lago prosciugato che rappresenta lo sfruttamento delle risorse naturali dell’altopiano, dal quale proviene il 30% delle risorse idriche di Israele. Ma grazie alle immagini eleganti e alla narrazione frammentata e discontinua, quasi un flusso di coscienza, il film rappresenta l’occupazione in modo particolarmente introspettivo. “Non parlando la lingua, spesso non sapevamo cosa avessimo in mano fino al momento di tradurre il materiale, una volta tornati a casa” rivela Keith Walsh, che ha vissuto a Majdal Shams per quattro anni durante le riprese. “Questo ci ha aiutato a mantenere una certa distanza nei confronti dei personaggi e delle loro storie”. Una ‘distanza’ evidente anche rispetto al conflitto in corso. A partire dal 2012, Majdal Shams è diventata teatro di piccole manifestazioni contro il regime alawita, immortalate da una breve sequenza che chiude il film. *Per le fotografie si ringrazia Two Pair Films May 19, 2013Israele,Siria,