Quale è il legame tra dittatura e città e come è possibile liberare lo spazio pubblico dalla presenza del tiranno? Hani Naim, blogger e fotografo libanese, affronta queste tematiche nel suo primo libro “Grafiti of Uprising”. Attraverso una collezione di oltre 50 immagini, il testo riflette sul ruolo dei graffiti nel processo di riappropriazione della piazza durante i cambiamenti sociali e politici che interessano oggi il mondo arabo.
di Elisa Piccioni
Giornalista, blogger e fotografo, Hani Naim, libanese di nascita ma trapiantato a Dubai, è autore di uno libro in lingua araba dedicato ai graffiti nel mondo arabo in rivolta.
“Grafiti of Uprising”, edito dalla casa editrice Asp, sarà presto tradotto anche in inglese. Composto da dodici capitoli e arricchito con oltre 50 immagini, il libro dedica ampio spazio al caso egiziano, si sofferma su Siria e Libano, ed infine, offre una panoramica generale su Tunisia, Libia, Bahrain e Yemen.
Un viaggio immaginario tra i muri delle principali città del Nord Africa e del Medio Oriente, che è innanzi tutto un prezioso documento per salvaguardare una particolare cultura visuale di un momento storico ben preciso e tanto cruciale.
Studiando il diffondersi di questo originale fenomeno espressivo, Naim porta il lettore a riflettere sul ruolo dell’arte di strada durante le rivolte popolari.
La città – scrive Naim sul suo blog – definisce la vita della gente ed è lo spazio pubblico dove le persone si incontrano e si mischiano. Per questo motivo il dittatore sviluppa una relazione possessiva con essa e cerca di dominarla.
I poster con i volti dei leader si diffondono così nelle strade e nelle piazze e Il dittatore, sempre presente in ogni angolo della città, appare come un eroe, un’icona indiscussa. Il tradizionale spazio pubblico scompare identificandosi con il “tiranno” che diviene il vero “Grande fratello” della città che controlla e protegge i cittadini.
Non è una sorpresa – continua Naim – che il primo atto di ribellione dei popoli sia stato proprio quello di rimuovere le immagini e le statue dei dittatori come una rappresentazione simbolica della loro rivolta contro il sistema.
Attraverso i graffiti, il popolo tenta dunque di riprendersi lo spazio pubblico e di diffondere liberamente e senza censure il proprio messaggio.
Com’è nata l’idea di scrivere un libro sui graffiti?
E’ da qualche anno che mi interesso di graffiti e attivismo, soprattutto se ci riferiamo a Beirut, città dove ho vissuto per molti anni. I graffiti erano qualcosa di presente in ogni mia giornata. Facevano parte della mia memoria visuale.
Con l’inizio della primavera araba poi, il fenomeno ha preso altre dimensioni. Quando ero a Beirut ho scritto diversi articoli sull’argomento, ho ricevuto molti feedback che mi hanno incoraggiato e allo stesso tempo aiutato a scrivere il libro. Inoltre, ci sono pochissime pubblicazioni in arabo sull’argomento.
Come hai organizzato il tuo lavoro e quanti paesi hai visitato?
Ho impiegato circa nove mesi per scrivere il libro, ma in realtà non ho avuto bisogno di viaggiare. Ad eccezione di Beirut, città in cui torno spesso, gran parte dei graffiti li ho raccolti via internet, attraverso blog o utilizzando i miei contatti e le mie conoscenze fra gli attivisti che mi hanno inviato le foto.
Il libro inizia parlando della relazione tra il dittatore e lo spazio pubblico. Come si esprime questa relazione e in che senso la ‘street art’ può liberare lo spazio pubblico?
Nel secondo capitolo ho parlato di come il dittatore usa lo spazio pubblico per i suoi propri interessi. C’è sempre stata una relazione tra dittatore e città e non solo nel mondo arabo.
Basti pensare a Hitler e Stalingrado, a Roma e Nerone o Holako e Baghdad. La città viene riempita di immagini e statue che lo raffigurano e il dittatore è come un “Grande Fratello” sempre presente.
Quando il popolo ha cominciato la rivoluzione la prima cosa che ha fatto è stata quella di scendere in piazza, scrivere sui muri e rimuovere queste immagini, in un tentativo simbolico di riappropriarsi dello spazio pubblico.
Il terzo capitolo è dedicato a Damasco, descritta come un caso particolare. Perché?
Chiunque abbia vissuto a Damasco avrà avuto quella particolare sensazione di essere costantemente osservato. All’ingresso della città per anni una gigantografia del grande fratello Hafez al-Asad dava il benvenuto a chiunque entrasse nella capitale. In seguito è stata aggiunta la foto di suo figlio Bashar insieme a citazioni volte a rafforzarne l’immagine.
Nonostante Damasco sia una città piena di persone e mercati ha dato a lungo l’impressione di essere una città silenziosa, soffocata da anni di oppressione. La sua identità è seppellita sotto.
Quando le prime proteste sono scoppiate, per molto tempo lì la vita è rimasta normale. Questo ha dato al tiranno la falsa sensazione di essere ancora legittimato. Finché controlla Damasco, controllerà simbolicamente tutto lo spazio pubblico.
Hai intervistato gli autori dei graffiti? Perché ricorrono a questo mezzo di espressione e in che condizioni lavorano?
Affronto queste tematiche nel quarto capitolo dove parlo di cosa c’è dietro un graffito, di come viene scelto un simbolo rispetto ad un altro e di come gli artisti mantengono la propria identità segreta.
Noi vediamo solo il lavoro finito ma dietro c’è un processo molto lungo che va dalla sintesi del messaggio alla sua trasformazione in termini visuali. Non potendo contare sui principali mezzi di comunicazione hanno scelto il modo più semplice ed economico per esprimersi.
Parlo inoltre della loro identità: di giorno molti di loro sono ad esempio studenti, dottori o operai e di notte si trasformano in combattenti che lottano per la loro causa tramite i graffiti.
Molto spazio è dedicato all’Egitto che descrivi come la piazza più vasta, diversificata e potente per quel che riguarda i graffiti. C’è un graffito un particolare che vorresti citare?
Sì, il reggiseno blu. Credo che questa immagine sia divenuta un’icona della lotta delle donne contro il sistema patriarcale. Un altro che mi viene in mente e l’immagine del leader dello Scaf Mohammed Hussein Tantawi con la barba islamica.
Il messaggio è una critica all’alleanza tra l’esercito e i Fratelli Musulmani in un chiaro intento di suggerire che entrambi sono contro la rivoluzione.
Il quinto capitolo è invece dedicato ai graffiti in Siria.
I graffiti in Siria sono stati la fiamma che ha incendiato la rivoluzione. Tutto è iniziato quando dei bambini hanno scritto sul muro di una scuola a Daraa. Prima della rivoluzione andavo spesso in Siria e molti graffiti erano opera dei servizi segreti. Vi erano solo scritte che inneggiavano a Bashar al-Asad e a suo padre.
Quando la rivoluzione è iniziata sono cominciate ad apparire altre scritte. Ma se paragonati ai graffiti in altri paesi, quelli siriani sono tendenzialmente più semplici. Sono scritte. Fare graffiti è molto pericoloso, non c’è tempo per pensare all’aspetto estetico perché si rischia di morire.
Sono così una minaccia per il governo che oggi in Siria, e specialmente a Damasco, se vuoi comprare una bomboletta spray devi mostrare la carta d’identità e vieni interrogato.
Il Libano, e in particolare Beirut, è un altro paese in cui la ‘street art’ è molto presente e politicizzata. Hai notato dei cambiamenti di contenuto negli ultimi anni, in particolare dopo l’inizio della primavera araba?
Prima di trasferirmi a Dubai ho vissuto a lungo in Libano, quindi posso fare il paragone. Prima dell’inizio della primavera araba gran parte dei graffiti si rivolgevano a differenti battaglie sociali, come ai diritti degli omosessuali e al secolarismo, oppure a questioni politiche, come la guerra di Gaza o la questione al Zaidi-Bush.
Dopo l’inizio della primavera araba sono cominciati ad apparire numerosi graffiti in supporto delle rivolte arabe, in particolare della rivoluzione egiziana e siriana e alle proteste nel Bahrain. La città si è sentita molto vicina a queste lotte.
D’altronde ogni causa del mondo ha sempre trovato posto a Beirut. Per un periodo si è diffusa anche una campagna contro il sistema confessionale, ma non è durata molto, a mio parere perché priva di contenuto.
E nel caso libanese ci sono dei graffiti a cui sei legato particolarmente?
Diversi. Mi viene in mente la gigantografia della scritta “moua’mara”, ovvero cospirazione, presente in molti muri di Beirut. E’ un graffito sarcastico che fa riferimento al continuo ricorso dei regimi alla cospirazione internazionale contro di loro per discreditare le proteste.
Un altro graffito che ho trovato molto divertente è quello che raffigura Topolino affiancato dalla scritta “Siamo con te”. Il riferimento questa volta è a quanto accaduto nel 2008, quando uno sceicco saudita emise una fatwa contro topolino perché considerato un soldato di satana.
In uno dei tuoi ultimi capitoli studi la relazione tra media e rivolte. Di cosa parli in particolare?
Ho analizzato il ruolo dei mezzi di comunicazione nelle rivolte arabe e come questi sono stati criticati dagli attivisti tramite la street art. La TV ha senza dubbio ricoperto un ruolo importante nella primavera araba. Si pensi, da un lato, all’opera divulgatrice e propagandistica di al-Jazeera nel sostenere alcune delle rivolte e, dall’altro, alle campagne per la legittimazione del regime sostenuta dagli organi di stampa statali.
In Libano, Siria ed Egitto troviamo molti graffiti che criticano l’assuefazione delle masse alla televisione. “Distruggi il main stream”, “I media siriani sono bugiardi” o “Uccidi la tua televisione” per citarne alcuni.
I graffiti sono un mezzo di comunicazione così potente che sono stati utilizzati anche dalle compagnie multinazionali. A questo tema dedichi l’ultimo capitolo.
Anche le multinazionali sono ricorse ai graffiti per parlare alla gente e invogliare al consumo dei loro prodotti. Nell’ultimo capitolo parlo di questo aspetto, di come alcune compagnie hanno utilizzato quest’arte per fare pubblicità e come questo sia stato rifiutato dagli attivisti che hanno risponsto vandalizzando o modificando i loro messaggi.
Quale è dunque oggi il ruolo dei graffiti politici nel mondo arabo?
Gli artisti visuali hanno utilizzato la loro creatività per combattere le dittature. Ora al mondo arabo aspetta un’altra battaglia, quella contro l’islamizzazione della società. L’arte di strada, con la sua capacità di indirizzarsi e coinvolgere le masse, può giocare un ruolo importante anche qui.
20 gennaio 2013
Bahrain,Egitto,Libano,Libia,Siria,Tunisia,Yemen,
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