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In Egitto la giustizia è cieca?

Yara Sallam potrebbe essere solo un altro nome da aggiungere alla lista delle persone che hanno subito un torto da parte del sistema giudiziario egiziano. Ma ancora più importante, è un altro nome fatto sparire temporaneamente da un elenco sempre più ridotto di coloro che lottano contro le ingiustizie.

 

 

 

La scorsa primavera, sulla via del ritorno da un viaggio a Dahab con alcuni amici, siamo stati bloccati dagli ufficiali militari durante uno dei tanti controlli di sicurezza lungo la strada. Ci hanno chiesto di uscire dal bus mentre le nostre borse venivano perquisite. 

Hanno aperto una borsa dopo l’altra, le hanno rivoltate e sparso il contenuto con noncuranza sulla strada (non si riesce a capire come questa particolare procedura possa contribuire a una maggiore sicurezza e stabilità).

Dopo la quarta o quinta borsa, gli ufficiali del checkpoint avevano già perso un po’ del loro entusiasmo e la loro ricerca si è fatta meno approfondita. Di conseguenza, e per il sollievo di molti di noi, alcune delle borse sono state caricate di nuovo nel bus senza perquisizione, tra cui una appartenente a Yara Sallam che, senza rendersene conto, ha detto ingenuamente all’ufficiale dell’esercito che si era dimenticato di guardare nella sua borsa.

Ma la scorsa primavera ora sembra decenni fa. 

Oggi, quella giovane donna dall’onestà accattivante è rinchiusa nella prigione di Qanater, dove è stata posta in detenzione preventiva dalla fine di giugno.

Yara, che oggi ha 28 anni, potrebbe compierne 30 in carcere, secondo il verdetto emesso il 26 ottobre dalla Corte di Heliopolis, che l’ha condannata insieme ad altre 22 persone a tre anni di carcere, più altri tre anni di libertà vigilata e una multa di 10mila lire egiziane. Il verdetto è in fase di appello. 

Ora vediamo di capire: tre agenti di polizia, responsabili della morte di 37 detenuti lasciati a soffocare nel camion che li trasportava nell’agosto 2013, hanno ricevuto un anno di sospensione condizionale della pena.

Il quarto ufficiale, condannato nello stesso caso, ha ricevuto una condanna a dieci anni, che è stata successivamente annullata.

Così, si può solo ipotizzare che il delitto che Yara e i suoi 22 coimputati hanno commesso fosse qualcosa di più grave rispetto all’aver lasciato intenzionalmente morire soffocati 37 esseri umani.

Forse qualcosa di simile, più o meno, all’aver sottratto milioni di dollari dai fondi statali, il reato per il quale il presidente Mubarak è stato spodestato e condannato a tre anni di carcere? 

Yara Sallam è stata condannata a tre anni per aver protestato, violando così la legge sulla protesta (legge n. 107 del 2013), un “crimine”, che sta ricevendo una risposta sempre meno indulgente da parte dello Stato egiziano.

E se abbiamo imparato qualcosa dagli ultimi tre anni, è che protestare non è mai un reato a sé stante, ma un crimine che si porta dietro degli amici, e cioè “atti di vandalismo” e “utilizzo della forza con lo scopo di terrorizzare il pubblico”.

Così è stato in una notte buia e tempestosa (almeno è così che ci si sentiva), il 21 giugno, quanso Yara è stata arrestata pochi minuti dopo la dispersione violenta di un manifestazione pacifica proprio contro la legge sulla protesta, con l’accusa di violazione della suddetta legge e di quel che ne consegue.

Non importa che sia stata catturata da civili in borghese e consegnata alla polizia. Non importa che in realtà sia stata arrestata mentre acquistava una bottiglietta d’acqua da un chiosco in prossimità della zona della protesta, intorno al palazzo presidenziale Ethadyia.

Non importa che lei sia stata arrestata insieme a suo cugino, che è stato rilasciato la notte stessa. Non importa che gli “atti violenti” che sarebbero stati commessi da Yara e dai suoi co-imputati abbiano avuto luogo dopo che tutti loro erano già in carcere.

E non importa che Yara non sia stata identificata in nessuno dei video forniti dall’accusa come prova: è stata comunque condannata. Niente di tutto questo conta, perché la giustizia è cieca.

Chiunque abbia seguito in una certa misura la situazione in Egitto negli ultimi mesi si è probabilmente imbattuto nel nome di Yara Sallam un paio di volte. Amici e colleghi di Yara non hanno risparmiato nessuno sforzo per rendere pubblica la sua storia e perorare la sua liberazione immediata, con tutti i canali disponibili, o meglio, con quelli restanti.

Non c’è bisogno di conoscere realmente Yara per convincersi che lei non è il tipo di persona che “terrorizzi” qualcuno o “vandalizzi” nulla. 

Tutte le sue foto, con quel famoso sorriso, che circolano nelle reti dei social media sono fedeli al suo personaggio. Abbiamo avuto dei frammenti del sorriso di Yara, con tutto ciò che riflette, la prima volta che è comparsa davanti alla corte il 29 giugno, quel giorno sconvolgente in cui il giudice ha rifiutato di concedere la libertà provvisoria ai detenuti, mentre la causa è stata rinviata al 13 settembre.

Quel giorno tutti abbiamo iniziato a renderci conto che non avremmo festeggiato la liberazione di Yara il fine settimana successivo… o quello dopo ancora.

Quando la rivoluzione è scoppiata nel 2011, Yara si trovava in Gambia a lavorare come assistente legale presso la Commissione africana dei diritti dell’uomo e dei popoli. E’ tornata in Egitto poco dopo e ha partecipato a quasi tutte le proteste nei mesi che sono seguiti, quasi a compensare la propria mancanza durante la prima scintilla che aveva promesso un futuro migliore per l’Egitto.

Ha lavorato con l’associazione Nazra for Feminst Studies, dove il suo lavoro le è valso l’Africa Human Rights Defenders Award nel 2014, prima di trasferirsi di nuovo all’Egyptian Initiative for Personal Rights, dove aveva iniziato la sua carriera nel campo dei diritti umani, lavorando sulla giustizia di transizione. 

Laureata in Giurisprudenza all’Università del Cairo in Egitto, alla Sorbona di Parigi, e all’Università di Notre Dame negli Stati Uniti, Yara ha fatto la difficile scelta di lavorare nel settore no-profit come avvocato e difensore dei diritti umani, in un ambiente tipicamente ostile nei confronti della società civile, ma ha sempre mantenuto la sua determinazione.

E’ riuscita a sopravvivere, fino a quella triste sera, alle misure repressive adottate contro il dissenso dai regimi successivi, implementati, ironia della sorte, dai medesimi apparati di sicurezza.

Siamo spesso accusati di intensificare gli sforzi per il rilascio di chi è detenuto ingiustamente solo quando si tratta di un “attivista-celebrità”, qualcuno che sta nelle cerchie immediate di coloro che hanno accesso agli strumenti necessari per fare quel tipo di rumore, quando ci sono centinaia di altri casi a cui non viene data la stessa attenzione.

Non vi è, naturalmente, nessuna verità in queste affermazioni, ma quando sono proprio coloro che hanno dedicato la loro carriera alla lotta contro le violazioni dei diritti umani, ad essere soggetti a quegli stessi abusi, allora meritano una protesta speciale. 

Yara potrebbe essere solo un altro nome da aggiungere alla lista delle persone che hanno subito un’ingiustizia da parte del sistema giudiziario egiziano. Ma ancora più importante, è un altro nome fatto sparire temporaneamente da un elenco sempre più ridotto di chi lotta contro le ingiustizie.

 

*La versione originale di questo articolo è stata pubblicata nella sezione “Arab Awakening” di Open Democracy. E’ disponibile qui. La traduzione è a cura di Anna Toro. La foto è Wikimedia Commons. 

November 05, 2014di: Amani Massoud per Open Democracy*Egitto,

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