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“In Siria c’è una generazione ignorata”

Abu Ma’en, attivista damasceno membro della brigata di Manjeb, si definisce socialista e vede la rivoluzione in Siria come una lotta di classe.

 

Per cercare di far conoscere quelle voci che troppo spesso rimangono soffocate all’interno del paese, nelle scorse settimane è stato di passaggio in Europa. Ha concesso una lunga intervista al giornale web Periodismo Humano (qui riproposta in sintesi), nella quale descrive la sua esperienza all’interno della rivoluzione e le difficoltà che affronta – nella fase attuale – la sollevazione contro il regime di Asad.

 

Quando è iniziata la rivoluzione, cosa ti ha portato in Siria, dove non vivevi pur essendo siriano?

All’inizio della rivoluzione vivevo in Siria. Studiavo all’Università Americana di Beirut, però facevo avanti e indietro. Stavo programmando di andarmene, perché studiare economia e gestione d’impresa non mi piaceva. Ho deciso di andare in Svezia dove sono rimasto un paio di mesi.

Poi è arrivato un giorno in cui ho pensato che, essendo una persona benestante, con una buona cultura e degli studi alle spalle, avrei potuto giocare un ruolo importante all’interno della Siria. Così sono “scappato” in Siria senza dirlo alla mia famiglia: la prima volta ad Aleppo, attraverso la Turchia.

Volevo sapere quale fosse la situazione in realtà. Qualcosa vedevo dai media, però, la realtà, quando la tocchi, è diversa. Il problema non è soltanto la distruzione. Il problema in Siria è che esiste una generazione ignorata, che ha bisogno di un nuovo movimento per rappresentarsi.

La mia famiglia è sempre stata contraria alla dittatura, e da quando son nato ho sempre odiato Bashar al-Asad e suo padre Hafez. Per questo non potevo stare seduto a guardare, tanto meno considerando che una rivoluzione non è qualcosa che succede ogni due giorni, ma un evento storico. Prendere parte a una rivoluzione è un orgoglio e impari molto più che all’università. Ho 21 anni, ma oggi me ne sento almeno venti di più.

 

Cos’hai pensato all’inizio? Come vedevi le mobilitazioni?

Prima che iniziasse la rivoluzione, ricordo il giorno della caduta di Mubarak in Egitto. Io e i ragazzi che lavoravano per mio padre eravamo così contenti che sacrificammo un agnello. Desideravamo con tutte le nostre forze che ci fosse una rivoluzione in Siria. Allora domandai a mio nonno, che ha una lunga esperienza politica, cosa ne pensasse. Mi rispose così: “Lo chiedi a me che ho 63 anni? E tu cosa ne pensi? Sei giovane, sarai tu a doverla fare”.

Desideravamo la rivoluzione, e quando è iniziata non sapevamo ancora cosa stesse succedendo. Volevamo soltanto partecipare, comunque andasse. Io fui uno dei primi che scrissero “È arrivato il tuo turno, dottore”.

All’inizio eravamo strettamente legati all’idea del pacifismo, che oggigiorno non considero più un’idea rivoluzionaria in assoluto, quanto piuttosto un’ideale di difficile applicazione. Perché volevamo un movimento pacifico? Qual era l’obiettivo? È semplice: che il mondo ci rispondesse e rinunciasse ad Assad. Già all’inizio non pensavamo che Bashar avrebbe cambiato le cose o che sarebbe caduto in seguito alle prime mobilitazioni. Però, dopo il Ramadan e dopo ciò che è successo ad Hama (2011), non ci credeva più nessuno.

Nella fase del pacifismo io e i miei amici avevamo preso l’iniziativa, creando “L’Unione dei Giovani Siriani Civili”: un gruppo di ragazzi che si riunivano in un luogo nascosto e si dicevamo che non si poteva continuare a stare fermi con  la rivoluzione in corso. Bisognava agire. Di fatto stabilimmo da subito alcuni principi e alcuni obiettivi, però con il tempo ci siamo divisi, proprio come è successo alla rivoluzione.

Anche nel nostro gruppo c’erano molti punti di vista, e di conseguenza iniziammo ad andare in diverse direzioni e a lavorare principalmente in attività di assistenza umanitaria. Tutti i giorni andavamo da Beirut a Tripoli, con delle macchine piene di aiuti, e le consegnavamo ai rifugiati.

È a Tripoli che sono entrato in contatto con l’Esercito libero siriano (ELS). Ricordo che in quel momento dissi: “Bene, vengo con voi”. Mi comprai un fucile, presi le mie cose e mi recai a Tripoli intenzionato ad andare con una delle persone che avevo conosciuto, però poi esitai perché lo vidi troppo condizionato dalla religione. La gente di Tripoli appoggiava la rivoluzione, però sentii che non lo facevano per la rivoluzione in sé. La vedevano in un modo diverso: Bashar non piaceva, ma avevano una visione settaria. Così, con tutti i miei dubbi, sono tornato in Svezia per qualche tempo.

 

C’è ancora una rivoluzione nella Siria di oggi?

La presenza di una guerra non significa che non ci sia una rivoluzione in atto. C’è, ed è molto forte. L’ESL non la rappresenta per intero, anche se ha creato i comitati locali, i gruppi di coordinamento ecc. Nessuna di queste formazioni rappresenta tutto il popolo siriano.

La situazione è complessa. In Siria c’è una guerra e un’occupazione. Hezbollah è entrato nel paese, ci sono milizie irachene, turche, russe, iraniane…[…]

Anche i membri della rivoluzione considerati dalla gente radicali – e non mi riferisco ad al-Qa’ida, ma ai ragazzi che si son fatti crescere la barba e che dicono di voler innalzare la bandiera del “non c’è dio all’infuori di Allah” – erano persone come me. Si son trovati in una situazione molto difficile nella quale chiedevano aiuto al mondo ma nessuno li ha aiutati, né li aiuta adesso. Sono giovani ai quali è stata negata la cultura, la vita sociale, che per esempio io ho potuto vivere soltanto grazie alla mia situazione economica.

Ma la rivoluzione continua…

 

Una guerra o una guerra civile?

Non sono d’accordo con la denominazione di guerra civile, che oltretutto ha diversi significati. Se in Brasile dici “guerra civile”, questa viene intesa come rivoluzione. Però, quando si parla della Siria, significa che noi, il popolo siriano, vogliamo sterminare persone soltanto per via della loro etnia o della loro setta. E’ così? No, non lo vogliamo.

E di fatto, nonostante tutte le accuse di settarismo, gli episodi fanatici sono individuali e ben circoscritti. Quando una persona che ha uno squilibrio mentale, e che non ha posto nella nostra rivoluzione, uccide un membro della comunità alawita, quella persona e il suo gesto non ci rappresentano.

Del resto è l’unica carta che Bashar al-Asad può giocare, quella del settarismo, come suo padre aveva fatto prima di lui prendendo il potere […]. In realtà nel nostro gruppo ci sono alawiti, cristiani, drusi ecc., e lottiamo tutti insieme. I problemi con i fratelli curdi son stati provocati dai contrasti tra i loro rappresentanti e l’ISIS (Stato islamico di Iraq e Siria). E io sto dalla parte dei curdi nonostante consideri il PKK uno strumento del regime. Li capisco: sono venuti per imporgli uno Stato islamico, e tra uno Stato islamico e uno curdo, anche io avrei scelto quello curdo.

Perciò, quello che sta succedendo in Siria non è né una guerra settaria, né una guerra etnica, ma una situazione estremamente complicata: una rivoluzione che ha dato luogo a una guerra complessa alla quale non ci sono solo siriani che partecipano.

 

Tu come partecipi?

Noi a Manbej siamo rivoluzionari di tutti i tipi: civili e militari. Io posso andare al fronte 3 o 4 giorni, tornare a Manbej, lasciare la mia arma da una parte e iniziare a lavorare come elemento civile. Allo stesso modo tutti i miei compagni. Anche i leader delle brigate militari, quando tornano, si rilassano, si cambiano i vestiti e si mettono a lavorare con i giovani.

I militari dell’ESL non sono un corpo estraneo alla Siria, ma qualcosa che è nato dal popolo. Hanno iniziato come persone che non volevano più accettare che qualcuno irrompesse nelle loro case e sequestrasse la loro famiglia, per questo si sono armati. […]

 

Perché non c’è più coordinazione tra civili e militari o tra diverse città?

Il nostro gruppo a Manjeb è un’eccezione, perché c’è sempre coordinazione tra civili e militari, e anche tra città, nel senso che io sono di Damasco, così come altri due miei compagni. Poi c’è gente di Safita (nordest della Siria) e altri di città come Homs. Proviamo tutti a stare in contatto con il nostro territorio di origine.

Del resto il contatto è molto facile finché si resta nelle questioni civili, mentre nel campo militare c’è una chiara influenza di elementi esterni. Per esempio, la nostra brigata non accetta (quasi al 100%) alcun tipo di appoggio esterno politicizzato. Altre invece hanno deciso di accettare il sostegno pur sapendo di essere, in una certa misura, manovrate dall’esterno.

Dal punto di vista interno, poi, c’è il problema della mancanza di leadership. Se vogliamo unire le brigate, lo dobbiamo fare sotto il controllo di una leadership concreta. Chi può esserlo in questa fase? Come deve essere? C’è chi lo vuole islamista, chi laico, chi socialista… ci sono molti punti di vista, il che è naturale in una rivoluzione: l’intero popolo non può avere un’unica opinione.

Noi proviamo a far sì che la componente militare non sia troppo potente, ma che resti uno strumento al servizio di quella civile. Per questo non mi sembra giusto che si chieda ai leader militari di andare a Ginevra. Dovrebbero invitare i consigli locali che sono stati eletti democraticamente e che solo nati dal popolo. Indubbiamente anche l’ESL è nato dal popolo, ma non è stato eletto, e la sua funzione dovrebbe limitarsi a proteggere i civili e abbattere il regime.

[…]

 

Parli con una conoscenza e una visone politica molto sviluppata. Questa è una cosa comune?

No, siamo tutti diversi, e questo è un bene per il consiglio di Manbej: ci sono sheikh, avvocati, lavoratori… Io sono una persona che ha studiato e che ha letto molto, però con me lavora uno sheikh che ha una tattica e una visione politica che ti sorprenderebbero.

L’esperienza del consiglio locale apolitico è meravigliosa, però chi si scontra con noi è molto ben organizzato, con un programma a lungo termine. Mentre noi pensiamo a cosa fare nell’ora successiva, lui ha già un piano da qui a dieci anni. Questo per noi non è possibile finché non avremo un progetto politico.

Ci abbiamo provato, ma per ora abbiamo evitato la politicizzazione a causa del sentimento di paura che i siriani nutrono nei confronti dei partiti, data l’esperienza fallimentare che hanno avuto. All’inizio tutti insistevamo col lasciare da parte la politica e dedicarsi al movimento. Adesso ci siamo resi conto che ci manca uno strumento molto importante.

 

Che ruolo hanno le donne in tutto questo?

A Manbej, nel concreto, la percentuale di donne è minima, perché Manbej è una città molto conservatrice della zona rurale di Aleppo. Nel nostro gruppo ci sono comunque donne che lottano su più fronti tutti i giorni, e le consideriamo più coraggiose di noi. Vogliamo che la gente le accetti come fattore attivo della società e che lasci nelle loro mani decisioni delicate. […]

Ovviamente io non posso parlare di ciò che sentono loro, ma posso parlare di ciò che vedo, e vedo donne che giocano un ruolo molto più importante di quello degli uomini, che esprimono la loro opinione e il loro sostegno, ad esempio, alla libertà e ai diritti degli omosessuali. Io non sono mai stato contro, però non ho mai avuto la forza di parlarne in Siria. Le donne ci hanno superato, e non mi riferisco a quelle che si vedono nei media e nemmeno quelle attive su Facebook…

Sfortunatamente, il loro ruolo rimane limitato dall’ignoranza che ancora c’è nel paese. Così credo che questa sia una doppia rivoluzione per le donne: una per liberarsi da questa ignoranza, e l’altra per liberare il paese, e la prima è molto più complessa.

 

E per gli uomini c’è una sola rivoluzione?

La nostra rivoluzione non è soltanto contro Bashar, ma contro un sistema internazionale che crea persone come Bashar, un sistema che permette all’ONU di non essere altro che uno strumento in mano ai paesi assassini e distruttori, invece di essere uno strumento per le persone semplici. […]

Ci battiamo contro tutto questo, contro l’ingiustizia, contro l’ingerenza coloniale, contro l’ignoranza, contro l’uso delle persone come semplici strumenti, come schiavi. Viviamo in un mondo che non è soltanto nostro, e tutti dobbiamo rispettarci gli uni con gli altri. Ognuno deve avere la libertà di essere ciò che vuole, di crede in ciò che vuole, di sposarsi con chi vuole. Dobbiamo imparare che non possiamo imporre la nostra opinione sotto nessun aspetto. Questa è la mia rivoluzione e credo che sia quella di tutto il popolo siriano.

 

Però c’è chi dice di appoggiare la rivoluzione e allo stesso tempo vuole imporre la legge islamica…

Si, ma queste persone non rappresentano la rivoluzione. Se ricordi gli inizi, alle prime manifestazioni si diceva, portando in corteo croci e mezze lune: “Uno, uno, uno, il popolo siriano è uno” o “Il popolo siriano vuole abbattere il regime”. È vero che l’islam è elemento fondamentale della società siriana, però tutti questi che vengono da fuori e vogliono imporre la propria legge e le proprie idee, faranno la stessa fine del regime.

Se è uno Stato islamico che vuoi, crea un partito e vedi se il popolo è d’accordo e, se è così, allora avrai il diritto di costruirlo. Però non sarà così. Tutti quei giovani che adesso si spacciano per islamisti torneranno ai loro computer a chattare con le loro fidanzate, torneranno alla loro vita di tutti i giorni.

Quando se ne andrà Bashar al-Asad, la paura e il terrore della venuta del Giorno del giudizio finirà, e tornerà la vera natura della società siriana, da sempre conosciuta per la sua moderazione e il suo equilibrio. Chi dice di appoggiare la rivoluzione e pretende di imporre la legge di Dio in Siria non  sostiene davvero la rivoluzione, ma la sua agenda personale.

Poi, è anche vero che quando le persone ti sentono pronunciare “Dio è grande”, dicono che sei un islamista. Io lo dico ogni volta che sparo e ogni volta che sono ad una manifestazione, però non sono islamista. È un grido popolare che significa che ne io ne te siamo grandi, ma c’è qualcosa più grande di noi (in senso filosofico, non per forza religioso): per me è questo il popolo che si è rivoltato contro Bashar.

 

Quanta strada c’è ancora da fare?

Non lo so… dall’inizio della sollevazione abbiamo fatto passi in avanti e allo stesso tempo abbiamo indietreggiato. Non possiamo sapere cosa succederà, sotto nessun aspetto, nemmeno quello politico.

In certi posti vedo cose che non mi rappresentano: la lotta tra arabi e curdi non mi rappresenta, i roghi di chiese a Raqqa non mi rappresentano. In molti vedono succedere eventi che non condividono, sono elementi importanti per capire chi sono i nostri nemici interni.

Per quanto riguarda le mie speranze, per me è chiaro che la rivoluzione siriana non finirà presto, le mancano ancora anni, nei quali continueranno ad esserci alti e bassi. Però qualsiasi cosa verrà alla fine, sarà migliore della permanenza di Bashar al-Asad al potere, perché chiunque venga dopo di lui, non ci bombarderà con missili SCUD e con aerei, per lo meno non in questo modo.

Ma la domanda non è questa, la domanda è cosa possiamo fare affinché la rivoluzione giunga a conclusione. Nel mio gruppo stiamo provando a creare una rivista per dibattere e tentare di raggiungere una sorta di unità d’intenti sul post-Bashar. Così, se un giorno la grande borghesia dominerà di nuovo in Siria e ci imporrà le condizioni del Fondo Monetario Internazionale, potremo organizzare i lavoratori affinché per esempio smettano di produrre elettricità, blocchino le fabbriche…

 

Che messaggio mandi al mondo dalla rivoluzione?

Io dico sempre che non c’è nessun popolo che possa rimanere neutrale di fronte a quello che ci sta succedendo, e siamo talmente stanchi che in noi sta prendendo forma un mostro che odia il mondo intero, perché ci ha lasciati soli. Il rischio di una deriva c’è e ciò che può nascere in Siria farà sembrare al-Qaeda un gruppo di hippy. […]

Il mio messaggio è: bisogna “cambiare il mondo”. C’è qualcosa che non funziona quando alcune persone hanno tutto e altri non hanno nulla. Può darsi che la rivoluzione siriana si presenti come una rivoluzione islamica o come una rivoluzione contro un regime, però in realtà è una rivoluzione dell’essere umano del XXI secondo che non ha più fiducia nell’umanità alla quale appartiene.

 

* Per la versione originale dell’articolo clicca qui. La traduzione è a cura di Marco Piras.

 

January 16, 2014di: Naomí Ramírez Díaz per Periodismo HumanoSiria,Articoli Correlati: 

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