Di fronte all’assenza dello Stato e allo smantellamento delle istituzioni in seguito all’invasione statunitense del 2003, sono le tribù il vero ago della bilancia rispetto all’avanzata di Daesh. Tornare a considerarsi iracheni prima di considerare appartenenze tribali e religiose potrebbe essere la vera battaglia da combattere. L’analisi di OrientXXI.
Con l’avanzata dell’organizzazione dello Stato islamico (Daesh), il gioco geopolitico dell’Arabia Saudita, l’ingerenza sempre più evidente dell’Iran e i bombardamenti quotidiani della Coalizione internazionale, la percezione del pericolo in Iraq non è mai stata tanto grande.
Di fronte all’assenza dello Stato e allo smantellamento delle istituzioni irachene in seguito all’invasione statunitense del 2003, le tribù giocano un ruolo essenziale là dove la sicurezza, la giustizia e la politica sono sparite.
Lo Stato iracheno è un guscio vuoto, che è stato costretto a decentralizzare i suoi poteri, volente o nolente, a vantaggio delle milizie sciite da una parte e delle tribù locali dall’altra.
Nel 2007 la politica della Sahwa (“il risveglio”) è stata accompagnata da un’abbondante distribuzione di soldi e di armi alle tribù sunnite, che ha favorito l’emergere di una nuova generazione di capi tribali, più giovani e dinamici rispetto al passato, sostenuti temporaneamente dal governo sciita di Nouri al-Maliki. I gruppi armati non sono scomparsi, ma si sono fatti più discreti, sotto la pressione delle milizie tribali.
Nel 2014, anno della conquista di un terzo del territorio iracheno da parte di Daesh, la situazione è radicalmente cambiata. Ovunque nel paese la legittimità del governo è stata messa in discussione, anche da parte della stessa popolazione sciita.
Il governo aveva ormai da tempo perso la fiducia delle tribù: le promesse non mantenute di integrarle all’interno degli apparati di sicurezza hanno accentuato i rancori. La guerra civile in Siria si è infiltrata in Iraq, offrendo un’opportunità a Abu Bakr al-Baghdadi (leader di Daesh in Iraq, ndt). E l’ha colta.
Fedeltà o morte
Il 26 ottobre 2014 il primo ministro iracheno Haidar al-Abadi ha fatto visita ai rappresentanti delle tribù sunnite irachene in esilio in Giordania per convincerli a rientrare in Iraq. Questi avevano lasciato il paese in seguito all’istituzione di una politica fortemente confessionale, basata sulle divisioni settarie lanciata dal primo ministro uscente al-Maliki, e alla dura repressione delle manifestazioni che si erano svolte nel 2013 a Ramadi, Falluja e Kirkuk.
L’obiettivo di questo incontro – discreto – ad Amman, era di coinvolgere il maggior numero possibile di tribù sunnite nella guerra contro Daesh.
Come nel 2007, le tribù diventano l’amico da cercare all’occorrenza in circostanze di crisi, come quando si tratta di proteggere l’integrità dello Stato da un nemico e da una minaccia comune. Sia il governo iracheno che Daesh l’hanno compreso molto bene.
Se il primo cerca di riconquistare le tribù, il secondo cerca di distruggerne la struttura.
Dopo la presa di Mosul nel giugno del 2014, al-Baghdadi ha posto un ultimatum ai capi tribali: alleanza o morte. Era dunque un errore credere che il Califfo sarebbe sceso a patti con loro. Se alleanza deve essere, infatti, si tratta per la maggior parte dei casi di opportunità a suo favore e realizzate con scopi e obiettivi molto precisi.
Bisogna ricordare che in Iraq la tribù trascende dalla confessione di appartenenza dei suoi membri, e che spesso è composta da sunniti come da sciiti.
La tribù Shammar, una delle più importanti dell’Iraq e della regione, è radicata da nord a sud del paese, passando per gli Stati vicini. Costituisce un chiaro esempio di questa trascendenza (da appartenenze e confini, ndt) e Fahad al-Shammari, il suo capo, lo afferma chiaramente. Per lui, il nome della sua tribù è molto più caratterizzante della cittadinanza irachena.
“Sono uno Shammari. Questo significa che non ho frontiere ne’ paesi di appartenenza. Ad esempio, ho un passaporto giordano perché quella degli Shammar è una tribù molto ben radicata. Ho anche legami tribali in Arabia Saudita. In Iraq sono visto e mi vedo come uno Shammari prima di essere iracheno. Sono un cittadino senza patria”, sostiene.
In Iraq tutti sono ufficialmente cittadini, ma il senso stesso di questa parola è completamente assente dal linguaggio quotidiano. Dopo il 2003 infatti ci si riferisce alla propria confessione, tribù, città di origine per definirsi.
A Tikrit i membri della tribù Shammar non hanno stretto alleanza ne’ con Daesh ne’ con il governo iracheno. Secondo Fahad al-Shammari la città non sarebbe infatti mai caduta nelle mani di Daesh.
“E’ uscita dal controllo dello Stato a causa del contesto politico e sociale. Le principali tribù della provincia sono composte da vecchi militari oggi ricercati dal governo di Baghdad, e Tikrit era la roccaforte di Saddam Hussein. L’occasione di separarsi ufficialmente dal governo era prevedibile”, spiega.
Prima degli anni Settanta, la maggior parte dei membri delle tribù intorno a Tikrit erano di estrazione agricola. Ma lo stato dell’agricoltura in Iraq non gli permetteva di sopravvivere, e generazione dopo generazione hanno iniziato ad arruolarsi nelle forze di sicurezza.
Dopo il 2003, con la politica di “de-baatificazione” del paese (1) che ha interessato in modo particolare gli ufficiali e i funzionari originari di Tikrit, gli Shammari hanno sviluppato una vita politica e sociale propria, a margine del lavoro del governo centrale, accettando talvolta di giocare un ruolo di intermediari.
“Non ci sono trattative possibili con Daesh. Se ci devono essere, è con le tribù. Questo è il caso di Tikrit, magari altrove le cose vanno diversamente”, aggiunge Fahad al-Shammari.
Occorre inoltre precisare che le tribù non rappresentano un blocco uniforme, ma una varietà di correnti spesso in contraddizione, e con relazioni più o meno forti con il potere centrale.
Nelle località di Jarba e Rabia, vicino Mosul – dove i membri della tribù Shammar sono ben radicati – hanno combattuto contro Daesh in aperta alleanza con i peshmerga, per ragioni storiche. Gli Shammari infatti hanno sempre avuto ottime relazioni con i curdi, e in modo particolare con il clan Barzani, cui appartiene l’attuale presidente del Kurdistan iracheno.
Infine, la complessità della situazione è aggravata da una questione di gap generazionale: da una parte ci sono i vecchi ufficiali – una generazione che è cresciuta e si è sviluppata sotto il regime di Saddam Hussein ma che non necessariamente ha aderito al partito Baath – e dall’altra i più giovani, membri delle milizie della Sahwa.
Ne è un esempio perfetto la piccola città di Tuz Khorma, a metà strada tra Tikrit e Kirkuk, che dopo la presa di Mosul da parte di Daesh è attualmente sotto il controllo della tribù Shammar.
Il gioco dei Joumaili e Falluja
La tribù al-Joumaili si estende allo stesso modo da nord a sud dell’Iraq. E’ a maggioranza sunnita ma comprende numerosi sciiti tra i suoi membri, e rivendica più di due milioni di appartenenti oltre le frontiere del paese.
All’inizio del dicembre 2013 il villaggio di Garma, alla periferia di Falluja, era ancora tranquillo. I soldati dell’esercito, installati all’ingresso della cittadina per proteggerla, giocherellavano tranquillamente con i cellulari: si sentivano sicuri e fuori pericolo. Poco più avanti infatti era stato sistemato un check point controllato dai giovani della tribù al-Joumaili: i veri controllori e capi di Garma.
Lo sheikh Rafeh al-Joumaili ancora non lo sapeva, ma l’Iraq si apprestava a vivere una svolta. Le contestazioni sunnite contro il primo ministro di allora, al-Maliki, sarebbero scoppiate pochi giorni più tardi.
Da poco nominato portavoce dai rappresentanti della sua tribù, si era offerto come intermediario con il governo. Costantemente attaccato al suo telefono cellulare, si aggirava come un capo per le strade di Garma, ostentando la tranquillità della sua roccaforte con parole decise. “A Garma non ci sono stranieri. Conosco ognuno dei suoi abitanti, siamo una grande famiglia. I problemi sono cominciati quando gli stranieri si sono installati da noi”. Per “stranieri” Rafeh al-Joumaili sottintendeva al-Qaeda. Tentando un’apertura verso Baghdad e il governo auspicava una sola cosa: che Falluja e le comunità sunnite fossero coinvolte nel processo di costruzione del ‘nuovo Iraq’.
“Non siamo per le divisioni confessionali, chiedevamo a Nouri al-Maliki solo di rispettare le nostre richieste e di accettarci come iracheni”, spiega. Queste richieste vertevano sostanzialmente su tre punti: lavoro, sicurezza, liberazione dei prigionieri sunniti.
Dopo circa un anno dall’inizio delle rivolte sunnite (contro il governo, ndt), lo sheikh ha tolto il suo abito tradizionale per indossare quello nero, e imbracciare un kalashnikov.
Il suo discorso politico ormai si rivolge duramente al governo, che indica apertamente come “safavida” (termine dispregiativo per indicare gli sciiti filo-iraniani) e accostarlo dunque alle politiche dell’Iran. Combatte a fianco di Daesh senza tuttavia aver giurato fedeltà. E’ insorto contro l’esercito iracheno che ha bombardato quotidianamente Garma e Falluja.
Rafeh al-Joumaili spiega così la perdita del sostegno tribale di cui aveva beneficiato in passato il governo. “Noi combatteremo tutti i nemici dell’Islam, a cominciare dal governo e i suoi alleati. Difenderemo i nostri fino alla morte”, taglia corto al telefono.
Il suo discorso politico si è radicalizzato, ed è oggi pieno di riferimenti religiosi. La sua apertura verso Baghdad è svanita, così come la sua kefiah e i suoi vestiti da capo tribù.
Lo sheikh ha stretto un patto con quelle stesse persone che prima definiva “gli stranieri”, e che oggi sono stati rimpiazzati dai membri di Daesh.
La speranza dei Joubour a Mosul
Da parte sua, la tribù dei Joubour rivendica tre milioni di membri in Iraq, dal sud al nord, sunniti e sciiti. I Joubour hanno sempre partecipato al processo politico iracheno sin dal 2003. Molto attivi anche nelle forze della sahwa, hanno contribuito a mettere in fuga i membri di al-Qaeda.
Oggi pagano un prezzo molto alto: coinvolti in una battaglia feroce contro Daesh a sud di Mosul, tantissimi membri sono stati rapiti o uccisi.
Pronto a difendere il loro territorio, ma anche il resto dell’Iraq, Khamis al-Joubouri prende le distanze dal governo.
Se si batte, dice, è prima di tutto “per necessità. Combattiamo per il nostro futuro. Non possiamo lasciare l’Iraq a Daesh, che vuole distruggere il nostro paese. Abbiamo già sofferto in passato per la presenza di al-Qaeda, non avremo alcuna tolleranza per questi terroristi. E’ una chance offerta al governo iracheno per ripagare del sangue che è stato versato. Se ci aiuterà dopo la fuga di Daesh faremo tutto il possibile per convincere le altre tribù a ricostruire l’Iraq. In caso contrario, tutto sarà perduto”, assicura.
Al-Joubouri sostiene di aver inviato 200 dei suoi membri a combattere contro Daesh a Tikrit a fianco dell’esercito iracheno e delle milizie popolari sciite. “Voglio dare l’esempio di un Iraq unito. Di un Iraq che vogliamo veder rinascere. Di un Iraq che vince”.
A Mosul la questione è più complicata. La popolazione, più cittadina che tribale, è meno ricettiva; Khamis al-Joubouri lo riconosce. Gli abitanti volevano vedere il ritorno dello Stato. Ciò che si applica ad alcune regioni o villaggi non funziona in grandi città come Mosul.
Se il governo volesse davvero riprendere il controllo lì “dovrebbe mettere un punto alle politiche del passato, smetterla di dare la caccia ai vecchi ufficiali e imporre una legge giusta”, afferma. La soluzione, dunque, dovrebbe essere politica.
Se alcuni membri delle tribù hanno giurato fedeltà a Daesh, secondo lui è perché esiste una gerarchia tribale: quelli che hanno stretto alleanza con al-Baghdadi sarebbero poco istruiti e abbastanza lontani dalle grandi città. Il desiderio era quello di vendicarsi su quello che hanno sempre considerato un atteggiamento elitario e discriminante.
Negli anni Sessanta il sociologo iracheno Ali Al-Wardi ha attualizzato il lavoro di Ibn Khaldoun sul sistema tribale e l’ha applicato all’Iraq moderno.
Al-Wardi ha trovato due contraddizioni in seno alla stessa mentalità irachena: a suo parere, l’Iraq moderno è nato in parte dalla lotta tra il concetto di tribù e quello di cittadino/individuo.
Quando lo Stato è debole, il tribalismo tende a riemergere. Quando lo Stato è forte, la questione della cittadinanza riacquista spazio e forza.
Cinquant’anni più tardi, se il fattore tribale è ancora importante, riassumere in questo modo le dinamiche interne all’Iraq è una semplificazione della realtà. L’Iraq moderno è molto più che un agglomerato di tribù che si spartiscono il territorio.
Se la società è, ovviamente, disaggregata, esiste nondimeno un vasto insieme di composizioni sociali. Tutte influenti, e che hanno avuto un peso nella definizione degli assetti del paese. Cittadini, contadini, intellettuali, notabili, tecnocrati, sindacalisti del settore petrolifero: tutti hanno contribuito alla costruzione della società.
Trascendere dalla dualità tribù/cittadini, dare la priorità alla propria cittadinanza prima che alla propria appartenenza tribale, confessionale, religiosa, potrebbe essere la vera battaglia da combattere in Iraq.
1) Per “politiche di de-baatificazione” si intende quel processo di accentramento dei poteri messo in atto dal governo di Nouri al-Maliki, con il sostegno dell’amministrazione Usa, e già avviato in precedenza dall’autorità provvisoria statunitense guidata da Paul Bremer III, instaurata in seguito all’invasione del paese nel 2003. L’obiettivo del processo era di portare al potere la componente sciita irachena dopo il rovesciamento del regime (sunnita) di Saddam Hussein. Un processo che ha portato alla completa epurazione di quella sunnita dagli apparati di Stato, di governo, di polizia e di amministrazione, radicalizzando il dissenso verso il governo centrale, e imponendo importanti conseguenze sull’avanzata ed il rafforzamento di Daesh, anch’esso sunnita. Per approfondire si veda “La crisi irachena. Cause ed effetti di una storia che non insegna”, edizioni dell’Asino, 2014, a cura di Osservatorio Iraq e cpn la collaborazione di Un ponte per… . Ndt.
*La versione originale di questo articolo, pubblicato su OrientXXI, è disponibile qui. La traduzione dal francese è a cura di Cecilia Dalla Negra. La foto pubblicata è di Salam Saloo (Un Ponte Per…).
May 17, 2015di: Feurat Alani per OrientXXI*Iraq,Articoli Correlati:
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