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Iraq. L’importanza di tornare a Fallujah secondo Ross Caputi (seconda parte)

Capire la differenza tra aggressione e difesa legittima. Riconoscere di essere stato al tempo stesso vittima e colpevole. Farsi coraggio, chiedere scusa, cambiare vita, battersi per fare giustizia: è la storia di Ross Caputi. 

 

Quella di Ross Caputi non è una storia ordinaria. Ex-marine all’interno dell’esercito americano, prima dell’8 novembre 2004, data di inizio di una delle battaglie più sanguinose dell’occupazione irachena, pensava che una volta terminato il servizio militare avrebbe trovato un lavoro ‘normale’. 

E invece no, da quell’8 novembre la sua vita ha preso una piega che mai avrebbe immaginato potesse prendere.

Durante oltre un mese e mezzo di bombardamenti, caccia agli insorti e utilizzo di armi al fosforo bianco, Ross assisteva alla morte di circa 1500 persone ( di cui almeno 1200 iracheni) e due dei suoi migliori amici, Travis Desiato e Bradley Faircloth. Perdite che hanno unito vicende personali alla tragedia umana di un intero paese, nei confronti del quale Ross continua a sentirsi colpevole.

Colpevole di essere stato una pedina al servizio di un progetto politico troppo grande da capire allora, ma contro il quale oggi si batte con determinazione. Dalla battaglia di Fallujah Ross ha visto e compreso perfettamente chi erano gli aggressori e chi invece gli “insorti”. Ed aver realizzato di far parte degli aggressori è stato probabilmente il passo definitivo per cambiare vita. 

Ci sono voluti anni di riflessioni e di studio. Un processo lungo che alla fine lo ha riportato dove tutto era iniziato: nel 2010 insieme ad altri veterani di guerra, studenti e ricercatori Ross fonda il Justice for Fallujah Project.

L’obiettivo è più che ambizioso, come si legge sul sito: “Faremo qualsiasi cosa nelle nostre possibilità per mettere fine alle politiche imperialiste del nostro governo”. 

Ross e i suoi colleghi concentrano tutti i loro sforzi sull’informazione, cercando di contrastare la versione ufficiale della presenza americana in Iraq, partendo dalle bugie sull’utilizzo del fosforo bianco, che da allora ha contribuito a un aumento impressionante delle malformazioni congenite dei neonati.

Fallujah non è più “soltanto” una tragedia: per i ragazzi del Fallujah Project è un paradigma: “Fallujah rappresenta per l’occupazione irachena ciò che My Lai è stato per la Guerra in Vietnam e Hiroshima e Nagasaki per la Seconda Guerra Mondiale”.

Per fare giustizia occorre dunque partire da lì, dove tutto è iniziato. E questo ritorno (mentale) non può prescindere da una presa di posizione pubblica, che arriva con un articolo scritto per il Guardian nel 2011: “Non posso immaginare altro che la scelta di fare giustizia per mettere fine a queste bugie e fare chiarezza morale su quanto sta avvenendo ed è avvenuto in Iraq. Non si può prescindere dal riconoscimento chiaro e definitivo tra aggressione e auto-difesa, e del sostegno alle battaglie legittime. Non odierò mai, né incolperò o proverò rimorsi contro i suoi abitanti per aver combattuto contro di me”. 

“Chiedo sinceramente scusa per il ruolo avuto durante la battaglia e spero davvero che un giorno gli iracheni vinceranno la loro battaglia per la libertà”.

 

Dopo tre anni di attività, come sta andando il Fallujah Project?

In questo periodo abbiamo cercato di sensibilizzare il pubblico americano rispetto a quanto successo a Fallujah nel 2004, soprattutto riguardo alle responsabilità americane, alle bugie e alla disinformazione propinata dai mass media nazionali. Soprattutto riguardo quest’ultimo punto: occorrono ancora tanti sforzi per combattere la propaganda ufficiale.

Con il progetto stiamo entrando in una nuova fase nella quale iniziamo ad avere le capacità per agire anche in Iraq. Adesso ad esempio stiamo lavorando per mandare i nostri primi aiuti ad alcune famiglie di Fallujah e presso alcuni ospedali, sempre a corto di finanziamenti e di adeguate strutture e personale. Inoltre stiamo cercando di lavorare anche sul piano accademico, scrivendo articoli e tentando di realizzare delle pubblicazioni di un certo peso, e ancora a livello mediale attraverso un documentario. 

 

A che punto è la sua realizzazione?

Devo dire che sta andando abbastanza bene, ormai siamo quasi ai dettagli. Fino a questo momento abbiamo fatto diverse interviste a personaggi molto importanti, tra i quali professori del calibro di Noam Chomsky per esempio. Credo che ci siano le condizioni ideali per mettere in piedi un documentario davvero ben fatto che possa avere un forte impatto sulla società americana. L’obiettivo di questo lavoro è sempre lo stesso: ribaltare la disinformazione della propaganda e rivelare le verità sull’invasione americana in Iraq, focalizzandoci su uno degli episodi più tristi, ovvero la battaglia di Fallujah. 

 

Ostacoli?

Niente di preoccupante o insormontabile, per fortuna. O meglio, niente di più rispetto a quanto ci si possa attendere. A volte riceviamo messaggi o commenti volgari e offensivi, il più delle volte da persone che hanno un background militarista. Tendono ad etichettarci con i soliti epiteti, come “anti-patriottici, anti-americani”, per gettare discredito su di noi a livello personale e sul nostro lavoro. Ma credo che tutto ciò faccia parte, purtroppo, della scelta che abbiamo fatto, cioè quella di stare dalla parte della verità.

 

In generale, dopo tre anni, qual è l’impatto del Fallujah Project sulla società americana?

Credo si possa definire positivo, soprattutto per via di un risultato fondamentale: essere riusciti ad informare sull’Iraq e Fallujah un certo tipo di pubblico che probabilmente da solo non ne avrebbe mai sentito parlare. Si tratta di quelle persone appartenenti a una classe media conservatrice e che si informa quasi esclusivamente attraverso i mass media. Ecco, aver raggiunto un pubblico del genere è stato il risultato più grande che si potesse ottenere. D’altra parte invece devo ammettere che le nostre iniziative non hanno avuto alcun impatto positivo su quelle stesse persone che ci insultano e ci dipingono come nemici dello Stato. Ma credo che di fronte a situazioni del genere si parta sconfitti in partenza: non saremo mai capaci di far vedere la verità a chi non la vuole vedere. 

 

Dalla battaglia di Fallujah ad oggi: quanto è cambiata la sua vita?

Totalmente, nella maniera più assoluta. Da quel momento la mia vita ha preso una strada che con ogni probabilità non avrei mai imboccato. Non avevo mai pensato né tantomeno sognato di diventare un attivista per i diritti umani. Pensavo addirittura che non avrei mai finito il college. Ero un marine, facevo parte dell’esercito e credevo che il mio futuro sarebbe stato quello di avere un normale. Tutto qui.

E invece Fallujah ha stravolto la mia vita. Perché non è stato soltanto un momento in cui è accaduto qualcosa dentro di me: al tempo stesso è cambiata radicalmente la mia collocazione all’interno della società, il modo di relazionarmi allo Stato. E’ stato un processo difficile e al tempo stesso graduale: posso dire che sono stati anni davvero duri. Ma per fortuna, grazie alla vicinanza di persone che continuano ad essere dei modelli di vita, sono diventato la persona che sono oggi. Nonostante il male che ho fatto in passato.

 

E’ mai tornato in Iraq? 

Vorrei tanto tornarci, ma sono convinto che lo farò soltanto se la mia presenza potrà essere di aiuto per la popolazione. Altrimenti è meglio agire qui, negli Stati Uniti, data la mole di lavoro che c’è da fare, e soprattutto perché sono consapevole che al momento, se tornassi, la mia presenza potrebbe causare più danni che benefici.

 

Per la prima parte dell’intervista a Ross Caputi clicca qui

 

July 25, 2013di: Stefano NanniIraq,

Redazione

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