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Iraq. Mosul, “l’inferno delle donne”

“Molti in Occidente credono che la popolazione di Mosul abbia accolto Isis a braccia aperte. Non è affatto vero. Piuttosto, viviamo sotto assedio”. Le parole di Suha Oda e Jimmy Botto, giornalista irachena di Mosul e attivista siriano di Raqqa in visita in Italia, raccolte da Andrea Miluzzi per Huffington Post Italia. 

 

 

“A Mosul non c’è più elettricità, né connessione internet. Non sento mia madre da sei settimane”.

Suha è una giovane giornalista irachena, scappata da Mosul pochi giorni dopo la sua conquista da parte delle milizie dell’autoproclamato Califfo Abu Bakr al-Baghdadi. Era giugno 2014. A distanza di un anno Suha è in Italia per portare la sua testimonianza all’interno dell’iniziativa di tre giorni “Vivere sotto Daesh (IS)” promossa da Un Ponte Per.., la Ong italiana da sempre impegnata in territorio iracheno con progetti di solidarietà e aiuto allo sviluppo.

Occhi grandi e mani costantemente in movimento, Suha aggredisce il microfono per raccontare la sua verità: “Molti in Occidente credono che la popolazione di Mosul abbia accolto Isis a braccia aperte. Non è affatto vero. Piuttosto, viviamo sotto assedio”.

Nel cosiddetto Stato Islamico le persone sono costrette a una non-vita: “La povertà è tale che alcune famiglie devono vivere con 10 dollari al mese – dice Suha – Non ci sono ospedali. O meglio, i pochi funzionanti sono riservati ai combattenti feriti dell’Isis.”

“Ogni mese muoiono dieci neonati per banali infezioni che non possono essere curate, perché non ci sono disinfettanti. Non c’è acqua, né benzina”.

A dispetto del nome, lo Stato Islamico non ha alcuna concezione di stato, se non quella di preservare il potere terrorizzando e saccheggiando: “Avrei centinaia di storie da raccontare, ma non ne abbiamo il tempo. Ma come giornalista mi preme raccontare quello su cui stavo lavorando prima di dover fuggire – continua Suha – cioè le fosse comuni. Ne sono state ritrovate almeno 8, di cui una profonda 50 metri, dove l’Isis getta le sue vittime.”

Nel giorno stesso che è entrato in città, l’Isis ha fatto irruzione in una prigione e di 900 persone che vi erano rinchiuse non sappiamo più nulla.

“Ogni settimana ci sono 4 o 5 esecuzioni pubbliche, a volte con decapitazioni e crocefissioni. Isis colpisce soprattutto militari e giornalisti: ne ha uccisi 16 solo qualche giorno fa – e per un attimo Suha si blocca – ma prende di mira tutte le persone che abbiano una qualifica: dottori, avvocati. Tutti siamo potenzialmente sacrificabili”.

Suha ha dovuto lasciare Mosul perché aveva bisogno di cure.

Scappata con la famiglia verso Sulaymaniyah, nella regione autonoma curda nel Nord dell’Iraq, Suha non ha potuto rientrare con la famiglia a Mosul, proprio perché giornalista: “Prima dell’avvento di Isis noi donne e giornaliste eravamo già impegnate a conquistare rispetto e diritti”, spiega. “Poco prima di quel maledetto giugno eravamo riuscite a bloccare la proposta di legge Jafaari, durante il governo di al-Maliki, che permetteva il matrimonio con bambine di 9 anni. Certo, poi tutto è peggiorato”.

I territori dello Stato Islamico sono off-limits per i giornalisti occidentali, veri e propri bottini di guerra grazie ai rapimenti. Così, insieme alle poche testimonianze offerte da chi riesce a far filtrare qualcosa dall’interno, arrivano resoconti difficilmente verificabili.

Uno di questi riguarda la jihad del sesso, ossia la pratica per cui donne sarebbero rapite e portate sotto Isis come premio per i suoi guerriglieri:

“Non esiste nessuna jihad del sesso” – puntualizza Suha, che si occupa, fra le altre cose, proprio della condizione della donna sotto Isis.

“Ma questo non significa che le cose vadano bene per noi. Le donne sono costrette a coprirsi interamente e non possono uscire di casa se non accompagnate da un familiare, maschio, di primo grado, come il papà o un fratello. Devono stare attente alla Hisba, la polizia dei costumi che pattuglia le strade. Non possono lavorare se non nelle scuole, quelle riaperte con i dettami di Isis, o come ginecologhe. A causa di tutto questo, e delle pesanti condizioni economiche, molte donne si suicidano”.

Mosul è la capitale irachena dell’Isis, il più ricco e importante trofeo finora conquistato. Ma la sua avanzata è cominciata a qualche centinaia di chilometri di distanza a Raqqa, in territorio siriano.

La città in mezzo al deserto cadde sotto la bandiera nera nel gennaio 2013, esattamente un anno prima di Mosul. Ma prima di al-Baghdadi e i suoi, Raqqa è stata anche la città liberata, la prima dove la rivoluzione riuscì a sconfiggere il regime di Bachar al-Assad e il suo esercito: “Ci fu un’esplosione della società civile. Quei due-tre mesi sono stati i più belli dall’inizio della rivoluzione. Poi tutti ci hanno lasciati soli”.

Jimmy Botto, o Jimmy Shahinian, come è meglio conosciuto, è un 27enne attivista di Raqqa. Anche lui a Roma con Un Ponte Per…, anche lui vive lontano da casa: “Negli anni della rivoluzione il regime mi ha arrestato tre volte. Una volta ne sono uscito con entrambe le spalle rotte”, ricorda Jimmy.

“Sono scappato in Libano e in Turchia, poi sono rientrato a Raqqa per lavorare con una Ong americana. Ma la situazione era già diversa, Isis non tollerava nessuna forma di attivismo. Abbiamo cominciato ad aver paura, a muoverci sempre in gruppo. Sono cominciati i rapimenti e le minacce. Poi a gennaio 2014 l’Isis ha effettuato le prime uccisioni pubbliche di attivisti. Chi di noi si è salvato è scappato all’estero”.

Jimmy adesso vive a Gaziantep, in Turchia, da dove cerca di coordinare l’assistenza e gli aiuti per i concittadini in Siria. Fra questi c’è sua mamma, scappata con lui in Libano nel 2013, poi tornata a Raqqa: “Eravamo a Beirut, lavoravamo. Poi arrivò la notizia che l’aviazione di Assad aveva lanciato tre razzi su Raqqa”, racconta Jimmy. “Mia mamma ha detto che quella era la sua città e che avrebbe dovuto morire là. È tornata a casa”.

 

*Articolo originariamente pubblicato su Huffington Post, che ringraziamo per la gentile concessione. 

June 13, 2015di: Andrea Miluzzi*Iraq,Siria,Articoli Correlati: 

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