“Niqash” ha incontrato un rifugiato iracheno, che ha vissuto a Mosul per oltre 40 anni, fuggito poco prima che gli estremisti conquistassero la città a giugno. Lui e la sua famiglia sono scappati in Norvegia. Ecco il suo racconto, tra speranze e paure che arrivano con il nuovo anno, in un nuovo paese.
Mi sono trasferito in un altro mondo. Mi sono mosso da un paese dove la vita si è fermata, pieno di tristezza e paura, in un altro paese che eccelle nel garantire alle persone una vita dignitosa, dove non c’è distinzione tra bianco e nero, est e ovest, ricco e povero. Di conseguenza, sono caduto nella trappola del confronto tra i due paesi.
Gli iracheni non hanno avuto un singolo giorno di pace. Hanno vissuto le loro vite in decenni di guerra e occupazione.
All’inizio degli anni ’80 si sono trovati impegnati in una guerra che è durata otto anni e ha divorato tutto; una guerra culminata con l’invasione del Kuwait da parte di Saddam Hussein all’inizio degli anni ’90.
Questa guerra ha condotto a quella successiva, peggiore, che ha distrutto l’infrastruttura economica del paese, ucciso centinaia di migliaia di cittadini e causato il blocco economico. E poi ancora un’altra guerra, iniziata nel 2003, che ha rovesciato il regime di Hussein. La guerra del 2003 ha aperto la porta a una battaglia combattuta in ogni strada.
E l’Iraq ancora non ha smesso di sanguinare – non ha smesso, nemmeno per un’ora. Tutto questo è stato seguito da ulteriori distruzioni per il paese, ora che Daesh (il nome arabo dello Stato Islamico, ndt) controlla un terzo del territorio.
Per tutte queste ragioni, il sistema di istruzione iracheno ha iniziato a crollare, come anche i servizi sanitari. La corruzione si è diffusa in tutte le istituzioni dello Stato. I cittadini sono stati privati di elettricità e acqua potabile, e vivono in povertà, con molta disoccupazione e un cronico stato di insicurezza. La risposta populista a tutto questo è stata arretramento completo e ribellione contro lo stato di diritto.
Qui in Norvegia tutti sorridono, giovani e vecchi. Ci sono leggi precise e tutti le rispettano.
La bandiera del paese è ovunque. Sulle borse, sui muri, sui vestiti e vicina al cuore della gente. Nessuno qui pensa al proprio tornaconto se ti aiuta. Nessuno si cura delle tue origini, della tua tribù o dei tuoi abiti.
Si preoccupano solo di te. Nessuno ti prende in giro per il tuo accento o per gli errori che fai cercando di parlare ai norvegesi nella loro lingua.
Ti ascoltano con attenzione e cercano di capire quello che vuoi dirgli. Nessuno ti prende in giro per il tuo lavoro. Tutte le persone qui sono uguali e tutte hanno case dignitose, istruzione, cibo e medicine.
Per centinaia di anni la Norvegia è stata parte della Danimarca, poi è stata governata dalla Svezia per 95 anni; è stata anche occupata dai tedeschi per cinque anni. Ma i suoi cittadini hanno insistito sulla vita, e hanno scritto la loro Costituzione e fondato il più antico parlamento d’Europa.
Sto qui ormai da sette mesi. Qui gli appuntamenti sono sacri. Passi la tua vita sentendoti parte di un orologio che deve sempre essere preciso.
Non mi ricordo di aver sentito mai un clacson di una macchina impaziente o di aver visto un poliziotto in mezzo alla strada. Non penso nemmeno di aver mai visto qualcuno attraversare la strada dove non era consentito farlo, o qualcuno gettare spazzatura per strada o violare in qualche modo i diritti altrui.
Perfino gli uccelli – i gabbiani o i corvi – camminano sui marciapiedi in mezzo alle persone senza paura.
Nella città da dove vengo, i semafori non hanno funzionato per undici anni. L’elettricità, che porta vita alle case e alle attività economiche, è scarsa, e si deve lottare per avere o comprare pochi litri di benzina per riscaldarsi, cucinare o far andare la macchina.
C’è un conflitto aspro tra le persone per strada, nelle istituzioni e perfino nei luoghi di culto e nelle famiglie. Genitori affranti e sognatori hanno a lungo sperato in un domani migliore, ma non arriva mai.
E tutto ciò succedeva perfino prima dell’arrivo di Daesh e la sua occupazione di Mosul. Le persone vivono in condizioni simili a quelle prima della rivoluzione industriale e i rifugiati e gli sfollati stanno ancora peggio, in campi dimenticati, aggrappati alla fragile speranza di poter ottenere asilo da qualche altra parte.
Quelli che sono rimasti a Mosul, intanto, subisco pene severe – morte, frustate, confisca della proprietà e del denaro – se violano le regole di Daesh. Mancano i posti di lavoro, i servizi di base e i mezzi di comunicazione. Per le strade di Mosul, i militanti di Daesh – stranieri da altri paesi – sciamano liberamente. Il mondo gli ha preparato la strada per arrivare a Mosul e un esercito di persone del luogo, amareggiate, ha decorato quella strada con la propria lealtà.
Le antiche tradizioni di Mosul sono state cancellate, come i tribunali locali, le istituzioni governative, le università. Daesh ha deliberatamente portato un asino nel campus dell’università di Mosul per umiliare quelli che lavorano lì.
I miei bambini si sentono felici nella loro nuova patria. Cresceranno qui, in un luogo dove lo stato davvero si preoccupa per loro. Non sentiranno il dolore della nostalgia che noi genitori soffriamo. Sono sicuro che per loro i problemi e gli svantaggi che vivevano nella loro vecchia casa sono spariti nel giro di pochi giorni. Ricorderanno solo le cose positive.
Ma la memoria di quanto ho vissuto lì continuerà a inseguire me, anche se cerco di cambiare pelle, come un serpente.
Guardo foto della mia città sul cellulare e mi fanno sentire triste o mi fanno ridere.
Oh, Al Hadba, simbolo della città*, sentinella sul Tigri, tornerò un giorno da te. Passerò di nuovo su di te. Porteremo fiori e candele e baci da lasciare sulle guance di Mosul. E porteremo un albero d’ulivo da piantare ai piedi delle tue vecchie ferite, per crescere in una patria finalmente in pace.
*Al Hadba, il gobbo, è il soprannome del minareto della grande moschea Al-Nuri (la luminosa) a Mosul, costruita nel XII secolo.
**La versione originale di questo articolo è stata pubblicata su Niqash, ed è disponibile qui.
January 18, 2015di: Nawzat Shamdeen per Niqash*Iraq,
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