Israele. La lotta anti-razzista degli ebrei etiopi (e le sue contraddizioni)

Si sa, non è facile essere palestinesi in uno “Stato ebraico”. Ma la rivolta degli ebrei etiopi ricorda che non basta appartenere a questa religione per non essere discriminati. E che, anche se ebrei, è meglio essere bianchi che neri in una società in cui il razzismo è istituzionalizzato”. L’analisi di Michel Warschawsky.

Chi si interessa anche solo un po’ ad Israele conosce perfettamente il conflitto israelo-palestinese. Spesso, sa anche che la minoranza palestinese d’Israele – coloro che per molto tempo abbiamo chiamato “arabi-israeliani” – è sottomessa ad una discriminazione di tipo strutturale.

Di contro, si conoscono molto meno le divisioni e le discriminazioni in seno alla stessa società ebrea israeliana.

Naturalmente, essendo Israele per costituzione uno “Stato ebraico”, essere ebrei conferisce uno status privilegiato rispetto a tutti gli altri cittadini, indipendentemente dal loro strato sociale o origine etnica. Questo è scritto nero su bianco in un certo numero di leggi, ma è soprattutto strettamente legato alla pratica delle istituzioni governative, il cui obiettivo prioritario resta, quasi 70 anni dopo la sua creazione, rinforzarlo come “Stato ebraico e democratico”.

Ciò detto, i privilegi accordati agli ebrei dallo “Stato ebraico” sono comunque distribuiti in modo iniquo: secondo un recente rapporto dell’Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico Israele è il secondo paese industrializzato in cui il divario tra ricchi e poveri è più ampio.

L’immagine originaria di Israele modello di stato sociale (si legga ‘socialista’) ed egualitario è ben lontano da noi, oggi. L’offensiva neo-liberista guidata da Benjamin Netanyahu negli anni Ottanta è stata di una selvaggia senza precedenti tra le Nazioni industrializzate. Davanti a lui – all’epoca ministro delle Finanze – Margaret Thatcher sembra Madre Teresa.

Le divisioni che attraversano la società (ebraica) israeliana sono tanto sociali che etniche, entrambe spesso sovrapposte: i più ricchi sono infatti di origine europea, mentre i più poveri sono “afro-asiatici”, secondo il termine utilizzato dal Centro di Statistiche israeliano. In fondo alla scala sociale si trovano gli ebrei di origine etiope.

Ordinarie discriminazioni

Se all’inizio degli anni ’70 Golda Meir poteva ancora dire che un “vero ebreo” doveva parlare yiddish, la rivolta delle Pantere Nere (1) e il rafforzamento degli ebrei orientali originari del mondo arabo e del bacino mediterraneo misero fine a questo tipo di retorica, anche se la discriminazione era ben lontana dallo sparire. Ma come era possibile…ebrei neri?

All’epoca di Golda Meir era sufficiente avere la pelle appena più scura per essere trattato come un nero, dunque è facile immaginare quale fosse la situazione per etiopi ed eritrei. Ancora oggi significa essere regolarmente picchiati dalla polizia nei quartieri a sud di Tel Aviv, e i particolare dalle guardie di frontiera e dalle unità speciali incaricate di dare la caccia agli “infiltrati” (2).

Perché come mai potrebbe un poliziotto razzista fare delle differenze tra un cittadino etiope (ebreo) e un migrante che è fuggito dall’Etiopia o dal Sud Sudan? Sono tutti “negri”! (3)

Non è quindi un caso che la prima ragione di manifestazioni e proteste della comunità etiope negli ultimi mesi abbia riguardato la denuncia delle violenze da parte della polizia.

Nel suo rapporto del maggio 2013 il Revisore generale dello Stato, Yossef Shapira, ha fatto un bilancio delle discriminazioni sociali: il 18% degli etiopi è disoccupato (il tasso di disoccupazione in Israele è del 5,6%); il 65% dei giovani etiopi vive sotto la soglia di povertà (51,7% delle famiglie); la maggioranza dei liceali non riesce a diplomarsi, e oltre il 20% non arriva al termine della leva militare a causa di quelli che l’Esercito definisce “comportamenti particolarmente cattivi”.

Se lo Stato, come sostiene, ha messo in atto tutta una serie di meccanismi per migliorare la situazione, in particolare nei licei, questo bilancio non lascia spazio ad equivoci: ha del tutto fallito.

Uno dei paradossi della società israeliana – ma è anche il caso di un gran numero di altri paesi – è che possiamo trovare numerosi cittadini etiopi arruolati nella polizia di frontiera così come nei servizi penitenziari, mestieri che non necessitano di alcun livello di istruzione. Ma anche con addosso un’uniforme che attesti la loro autorità, le aggressioni sono frequenti, tanto ai check point quanto all’interno delle prigioni, tanto più che la maggior parte di loro hanno una struttura fisica piuttosto fragile.

Io stesso ricordo alcuni detenuti nel carcere di Ma’assiyahu che chiamavano i secondini con “vieni qui, negro, e muoviti!”.

La lotta per l’uguaglianza

Da qualche anno a questa parte stiamo assistendo ad una svolta: una nuova generazione è nata e cresciuta in Israele, ha svolto il suo servizio militare lì e soprattutto ha acquisito un senso della rivendicazione e della lotta profondo. Accettare di essere trattati come meno di niente non è più sopportabile come all’epoca dei loro genitori.

Se questi giovani etiopi restano profondamente legati alle loro tradizioni, si sentono comunque israeliani e vogliono essere percepiti e trattati come tali.

Non è un caso se uno degli slogan più ripetuti nel corso della grande manifestazione del 3 maggio scorso a Tel Aviv fosse “Siamo ebrei!”. Alcuni, per altro, non esistano ad aggiungere “e non arabi”.

Spesso nei dibattiti questi giovani israeliani di origine etiope – perché è questo il modo in cui vogliono essere definiti – mettono davanti l’aver svolto il servizio militare e aver “partecipato alla guerra” nei Territori palestinesi occupati.

Eppure, se avessero un minimo di conoscenza di Israele, avrebbero imparato la lezione dai drusi e dai beduini: aver prestato servizio militare, qui, non è in alcun modo la garanzia di sfuggire dalle discriminazioni.

L’uguaglianza è una lotta, in Israele come altrove. Anche quando si è ebrei in uno “Stato di ebrei”.

Le manifestazioni degli etiopi sono state represse dalla polizia con una violenza rara, trattandosi evidentemente di manifestazioni di “ebrei”. “Veniamo trattati come arabi”, hanno ripetuto i manifestanti a chi li ha voluti ascoltare.

Se la polizia ha reagito ai loro assalti annunciando l’incriminazione dei manifestanti arrestati mentre esercitavano violenze contro le Forze dell’ordine, il governo ha deciso di creare una Commissione il cui mandato è di fare proposte per migliorare le condizioni di vita degli etiopi. In questa Commissione sono stati cooptati notabili della comunità, in particolare i qais, i rabbini etiopi. Gli stessi che il Gran Rabbinato di Israele, d’altronde, non riconosce come tali.

E’ verosimile che questa nuova generazione di etiopi si riconosca in questi notabili, e tutto lascia pensare che la loro rivolta proseguirà.

Ma estirpare il razzismo della società israeliana, e prima di tutto della sua polizia, è una battaglia di lungo periodo che non si può separare dalla lotta dei Palestinesi con cittadinanza israeliana per l’uguaglianza.

La convergenza delle lotte per la parità è necessaria. E, in Israele, sarebbe rivoluzionaria.

1) Quello delle Pantere Nere israeliane è stato un movimento di protesta contro le discriminazioni subite dagli ebrei Mizrahi (orientali) creato nel 1971 a Gerusalemme sul modello del Movimento afro-americano delle Black Panthers.

2) Secondo la legge israeliana migranti e stranieri che arrivano nel paese sono considerati “infiltrati”. Per approfondire si veda qui.

3) Il termine “falasha” – che identifica esiliati o migranti di origine africana – è spesso utilizzato per indicare gli israeliani di origine etiope. Non da loro stessi, che lo considerano dispregiativo e preferiscono l’appellativo di “Beta Israel” (La casa di Israele). Quest’ultimo termine tende ad essere sostituito da Israele con “ebrei etiopi” o più semplicemente “etiopim” (etiopi in ebraico).

*La versione originale di questo articolo è stata pubblicata su OrientXXI ed è disponibile qui. La traduzione dal francese è a cura di Cecilia Dalla Negra.

June 07, 2015di: Michel Warschawsky per Orient XXI*Israele,

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