Costruire muri e sigillare i confini, per Israele, sembra non bastare. Con un nemico sempre in agguato – che può assumere le sembianze del palestinese, del terrorista egiziano o del rifugiato del Darfour, a seconda delle circostanze -, è necessario correre ai ripari.
Non sono bastati gli oltre 270 milioni di dollari investiti da Israele nel 2010 per chiudere il confine con l’Egitto e impedire l’ingresso nel paese di “terroristi e stranieri”, per “fermare la piaga di Stato” dell’immigrazione clandestina. Una “marea” proveniente dall’Africa che, secondo le dichiarazioni del primo ministro Benjamin Netanyahu, “rischia di spazzarci via”; e contro la quale è necessario pensare nuove strategie di contenimento.
La minaccia questa volta arriva dai migranti africani che, in fuga da Eritrea, Darfour o Sudan, affrontano viaggi della speranza attraverso il Ciad e fino in Egitto, per tentare poi di entrare in Israele e ottenere asilo politico e permessi di lavoro. E contro la quale il governo ha annunciato domenica scorsa lo stanziamento di altri 160 milioni di dollari per costruire più velocemente il suo muro numero 3.
Negli ultimi sei anni, secondo i dati del governo, sono stati oltre 50 mila i migranti africani entrati nel paese, provenienti per la maggior parte da Sudan ed Eritrea, e che “rischiano di raddoppiare” se non si farà niente per fermarli. Secondo il governo non si tratterebbe di rifugiati, che “rappresentano solo una minima parte di questa marea umana”, ma di “intere popolazioni che si stanno muovendo” per migliorare le proprie condizioni economiche in contrapposizione con gli strati più indigenti della società israeliana. “Se non li fermeremo – ha detto Netanyahu – verremo inondati”.
Soldi, quelli stanziati, che serviranno anche ad aumentare la sorveglianza delle imprese che assumono lavoratori irregolari, e per costruire centri di detenzione forzata nel deserto del Negev.
Quella che però oggi il governo israeliano definisce una “piaga” fa parte di un piano di accoglienza strumentale avviato già alla fine degli anni Ottanta, con lo scoppio della prima Intifada. Quando assumere manovalanza palestinese a basso costo, stante il conflitto, non sembrava più consono, ma quella forza-lavoro andava pur sostituita.
Con altri, disposti a scendere a condizioni economiche non dignitose, a coprire quegli impieghi che gli israeliani non avevano intenzione di svolgere. Thailandia, Filippine, Africa: nuovi lavoratori per i cantieri delle colonie illegali, per le infrastrutture israeliane necessarie a modernizzare il paese, spesso sulla pelle (e sulla terra) dei vicini palestinesi.
Con lo scoppio della seconda Intifada il confine con la West Bank viene sigillato, la circolazione di manovalanza araba del tutto interrotta. Nel 2005, dopo alcuni episodi di violenza in Egitto ad opera della polizia contro i rifugiati africani, si apre il canale di accesso con Israele.
Le contromisure non tardano ad arrivare: al muro di superficie che attraversa la Cisgiordania sottraendo terra ai palestinesi, e a quello sotterraneo che a nord dell’Egitto divide la Striscia di Gaza da Rafah, si aggiunge quello a sud del confine egiziano: 50 chilometri di “barriera difensiva” che corrono dal Golfo di Aqaba alla città di Eilat, per impedire l’accesso nel paese di “terroristi e stranieri”.
Non è bastato: come non è bastata l’Unità speciale della polizia israeliana, la “Oz”, incaricata di dare letteralmente la caccia ai migranti irregolari con l’obiettivo di espellerli dal paese, tutti, entro il 2013.
E non ha funzionato neanche la controversa legge “Gedera-Hadera”, voluta dal precedente governo di Ehud Olmert, che concedeva sì il permesso di lavorare ai migranti africani, ma soltanto al nord e al sud del paese, lasciando “libera” l’area centrale, più ricca e densa di popolazione. Legge cancellata, nel 2009, sull’onda delle proteste delle Ong israeliane che si occupano di rifugiati.
Fra le misure discusse dal governo domenica scorsa, con cui spera di ottenere risultati entro i prossimi 12 mesi, anche la messa a punto di “programmi per il rientro consenziente” dei migranti nei loro paesi di origine e un viaggio del premier Netanyahu in Africa: per toccare con mano la situazione e non comprenderla: escogitare, piuttosto, ogni altro sistema utile a preservare il carattere ebraico dello stato di Israele.
December 14, 2011
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