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La complessa transizione libica e la prova del voto costituzionale

La Libia continua ad attirare l’attenzione internazionale specialmente per la mancanza di sicurezza e l’instabilità politica diffuse nel paese. Secondo molti osservatori, la Libia sarebbe al momento un paese senza Stato nelle mani di milizie armate intente a spartirsi il territorio e le sue risorse.

 

Corollario di questa tesi, la Libia – per l’assenza dello Stato – sarebbe sul punto di non essere più in grado di assicurarsi una rendita petrolifera sufficiente a coprire nel medio periodo i costi dei salari dei dipendenti pubblici, che in un rentier State rappresentano la stragrande maggioranza della forza lavoro salariata.

Questo è in effetti uno dei tanti scenari possibili, ma non è certo la rappresentazione fedele della situazione che oggi si può osservare nel paese.

La Libia sta attraversando una fase di svolta, nel più lungo corso della transizione innescata dalla guerra civile del 2011, e non vi è dubbio che la statualità sia oggi particolarmente fragile. Tuttavia lo Stato è il protagonista – più che il grande assente di questo difficile momento – tra forze che sostengono un suo rafforzamento e altre che vorrebbero mantenere lo status quo se non addirittura indebolirlo ulteriormente.

La conflittualità politica, militare e sociale che è andata acuendosi nelle scorse settimane si può riassumere in una lotta per il controllo dello Stato che ha visto opporsi da un lato il Consiglio nazionale generale e il governo di Ali Zeidan e dall’altro attori diversi (esercito, gruppi armati autonomi e attivisti politici) che hanno contestato la legittimità delle istituzioni attualmente in carica.

Dato incontrovertibile è che il Consiglio ha terminato il suo mandato il 7 febbraio scorso, dunque sono pienamente legittime le proteste di piazza che ne chiedono da giorni le dimissioni, anche se il seguito che hanno ottenuto è stato scarso.

Forse proprio la debolezza della piazza ha convito altri attori a scendere in campo. È stato il caso, in primis, del pronunciamento del generale Khalifa Hafter, che venerdì 14 febbraio aveva annunciato di voler sospendere il Consiglio “per correggere il corso della rivoluzione”. Ma il tentato colpo di Stato, che avrebbe portato a uno scenario simile a quello egiziano, è fallito.

Prima di tutto perché l’esercito libico non ha al momento la forza per prendere il controllo del territorio e poi perché i possibili referenti di Hafter, legati ad altri gruppi militari, si sono all’ultimo minuto defilati o forse non hanno mai neppure pensato di appoggiarlo, ottenendo così di screditare e far uscire dai giochi un personaggio scomodo.

Il 18 febbraio, all’indomani dei festeggiamenti per il terzo anniversario della rivoluzione che si erano tenuti in un clima di relativa tranquillità, è stata la volta di due milizie di al-Zintan – al-Sawaiq e al-Qaqa – che hanno circondato il palazzo del Consiglio chiedendone lo scioglimento.

Le armi sono servite solo come strumento di pressione e oggi non vi sono più uomini armati interno al congresso: la mediazione potrebbe essere stata un impegno da parte del Consiglio a fissare una data entro la quale auto-sciogliersi, ma se un accordo è stato trovato non è stato ancora annunciato.

In tutto questo il governo di Ali Zeidan, il cui mandato a differenza di quello del Consiglio finirà il 24 febbraio prossimo, si è trovato stretto da più parti, con una credibilità internazionale in rapida discesa e un consenso interno minato da un’incapacità di conseguire una serie di riforme tanto reali quanto sempre più improrogabili per il futuro del paese.

Lo scenario è dunque ben più articolato e complesso della semplificazione di un paese senza Stato, in mano a bande armate che agirebbero solo in funzione di interessi economici localizzati. Non si tratta di negare che molti punti chiave della capitale, come ampie zone del paese, siano di fatto in mano a gruppi armati localizzati con una propria agenda politico-militare, ma di sottolineare che queste dinamiche anti-statuali sono solo una parte del quadro: la contrattazione tra politici e attori militari – per quanto serrata e a tratti assolutamente sovrapponibile – non ha per il momento portato all’annullamento dello spazio, seppur limitato, della politica e delle istituzioni politiche.

La stretta via del fare politica, possibilmente buona politica, passa oggi per le elezioni dell’assemblea composta da 58 membri (per i 2 seggi del Jebel Nefusa, nelle circoscrizioni amazigh della regione, non si è volutamente candidato nessuno) che dovrà nelle prossime settimane scrivere la nuova Carta costituzionale libica.

Come ho già avuto modo di argomentare, questa è probabilmente la sola via per manovrare in uno spazio ridottissimo da parte di chi nel paese, tra mille difficoltà, dimostra di voler perseguire una via pacifica e costituzionale alla transizione.

Può sembrare paradossale usare l’aggettivo pacifico in un contesto dove tutti, letteralmente tutti, sono armati e in una città dove la notte si sentono spesso spari e a tratti anche colpi di armi pesanti. Eppure proprio per queste premesse la conflittualità sul terreno è potenzialmente enorme, ma nei fatti assolutamente limitata. La Libia potrebbe essere la Siria, altri direbbero la Somalia, ma così non è, e oggi in Libia – a dispetto di tutto – si vota.

Ultimo punto da considerare è che la complessità della situazione non si può ridurre esclusivamente a quel che sta succedendo nella capitale, ma va inscritta nella più ambia dimensione dell’intero paese. La tensione che è palpabile nella capitale e in gran parte della Tripolitania e del Fezzan, rispettivamente l’Ovest e il Sud del paese, sotto molti aspetti è legata alla contrapposizione tra le diverse forze uscite vincitrici dalla guerra civile e gli sconfitti del vecchio regime di Gheddafi, che secondo molti sarebbero almeno in parte i sostenitori occulti di chi antepone le armi al dialogo politico.

Molto diversa invece la situazione nell’Est del paese, nella Cirenaica, dove per il portato della storia non vi sono residui sostenitori di un ex regime che aveva sistematicamente penalizzato e marginalizzato l’intera regione: qui la conflittualità esistente, specie nelle città di Derna e Benghasi, è legata specialmente al radicalismo militante e islamista di una composita serie di gruppi armati.

Non che nell’Ovest del paese manchino gli islamisti di differente orientamento, anzi negli ultimi mesi si è registrato un loro aumento e di fatto i fratelli musulmani – tramite gli esponenti politici delle forze militari di Misurata – hanno una forte ascendenza sul governo. Tuttavia l’islamismo in Tripolitania è una delle tante variabili in una situazione meno polarizzata rispetto alla Cirenaica.

Se nella nuova Libia sembra fuori discussione la messa da parte del passato centralismo amministrativo in favore di un qualche grado di decentramento – che per alcuni potrebbe spingersi fino a una soluzione propriamente federale, mentre per altri limitarsi a un più ristretto riconoscimento di una serie di competenze a livello regionale e locale – i gruppi islamisti sono al lavoro per affermare la loro visione all’interno di questo riassetto statuale, che se non dovesse raggiungere l’obiettivo a livello centrale, non dovrebbe però mancarlo a livello regionale.

Anche per superare questo altro tipo di conflittualità nell’Est del paese – in parte diversa da quella dell’Ovest e del Sud, che somma una visione islamica dello Stato al punto chiave della ripartizione della rendita petrolifera tra i suoi differenti livelli istituzionali – la nuova Costituente può rappresentare un importante momento di confronto e mediazione politica.

Sull’esito delle elezioni costituzionali le incognite sono ovviamente tantissime, molti i dubbi che da più parti si nutrono sulla capacità degli eletti di lavorare e, anche una volta che il testo fosse redatto, sulla capacità di applicarlo e farlo rispettare a tutte le parti.

Un percorso sicuramente in salita, ma rimane l’unico in grado di responsabilizzare i libici prima di tutto verso loro stessi e possibilmente sottrarre terreno all’uso della forza in favore della politica. Il fallimento o il successo di questa fase costituente potrà dire quanto davvero conti lo Stato in Libia.

 

* Antonio M. Morone è ricercatore in Storia dell’Africa presso il Dipartimento di Scienze Politiche e Sociali dell’Università di Pavia.

 

February 20, 2014di: Antonio M. Morone*Libia,Articoli Correlati: 

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