Shady Hamadi ha 25 anni. Quando aveva la sua stessa età, suo padre Mohammed Hamadi fuggiva dalla Siria con il passaporto dello zio. Era un attivista politico e i servizi segreti lo avevano arrestato e torturato diverse volte per punirlo della sua dissidenza.
“Era un ragazzo di 25 anni costretto a lasciare il proprio paese, ad abbandonare la propria famiglia, perseguitato per aver osato pensare altro rispetto a ciò che imponeva il regime”. Un padre visto con gli occhi del figlio, in un libro autobiografico dal titolo “La felicità araba, storia della mia famiglia e della rivoluzione siriana“, uscito per la torinese ADD Editore.
Mohammed, una volta giunto nel nostro paese, sposa la donna (italiana) che diventerà la madre di suo figlio, cresciuto a Milano con la Siria nel cuore. Allo scoppiare delle proteste nel 2011, Shady comincia a seguire attentamente e con passione le vicende che investono il paese paterno.
Poi arriva il libro. Hamadi sceglie quella ‘felicità araba‘ negata del libanese Samir Kassir.
E guarda alle primavere arabe, alba di un processo di consapevolezza politica e sociale che si sta diffondendo nel Mediterraneo. Shady paragona le rivoluzioni del 2011 a quella francese, consapevole che “la cultura democratica dei popoli arabi necessita di un percorso lungo e tormentato, imprescindibile dopo anni di dittatura e di dominazioni coloniali” e che “servirà una lunga fase di transizione nella quale l’Europa potrà, se vorrà, accompagnare la società araba verso la sua fioritura“.
“Gli arabi si sono già salvati da soli – scrive nel suo romanzo – e in assenza di interferenze, continueranno plausibilmente a percorrere la strada della democrazia diventando i registi delle proprie vite“.
“La felicità araba” è un vero e proprio viaggio alla scoperta della storia e dell’attualità della Siria. Un viaggio molto simile a quello che Shady ha compiuto all’età di 19 anni, quando è partipo dall’Italia per andare a conoscere il villaggio d’origine della sua famiglia, decidendo di imparare l’arabo e di apprendere la cultura paterna.
La storia di vita dell’autore s’incrocia inevitabilmente con quella di un’intera nazione, e con quella di Abo Imad, Eva Zidan, Rami Jarrah, giovani che hanno gridato al mondo ciò che stava accadendo in Siria.
Abbiamo incontrato l’autore alla presentazione del suo libro a Recoaro Terme (Vi).
Che effetto fa guardare ogni giorno la Siria da fuori?
E’ una tragedia quotidiana. Immaginiamo che un luogo che ci appartiene, dove abitano i nostri parenti, è costantemente sotto bombardamento. In quel luogo abbiamo ricordi, sentimenti e famiglia, come staremmo? Mio padre, ovviamente, sta male.
Nel tuo libro hai più volte criticato l’atteggiamento occidentale rispetto agli avvenimenti siriani. Come avrebbe dovuto agire l’Occidente?
Avrebbe potuto fare molto, a livello diplomatico, fin dall’inizio, se avesse voluto ascoltare e vedere quello che avveniva in Siria. Oggi si parla tanto della conferenza di Ginevra per cercare una soluzione politica. Non credo sia possibile, non dopo 90.000 morti e milioni di profughi. Io sono certo che se ci fosse stata la volontà, fin dal principio, oggi non saremmo qui a osservare la Siria sgretolarsi.
Quale credi sia il prezzo da pagare per il raggiungimento della felicità araba?
Un prezzo senza dubbio altissimo. Le aspirazioni, la rivoluzione e la libertà dei siriani non hanno mai avuto amici, mentre la guerra sì. Sono convinto che se cambia la Siria, cambia tutto il Medio Oriente.
E il tuo libro può essere uno strumento per raggiungere la felicità?
Credo che sia un buon mezzo per la consapevolezza. Non è fatto per gli arabi ma per gli europei. Qui, in Europa, dobbiamo capire che il Mediterraneo non finisce a Lampedusa ma bagna le coste di altri Stati che ci sembrano così lontani. Il mio invito è quello di costruire una società cosmopolita del Mediterraneo e di riconoscere l’altro, l’arabo.
Hai più volte criticato il giornalismo italiano, incapace di fare informazione e raccontare il dramma siriano.
Gli italiani sanno che c’è un “casino”. Oggi si tende a semplificare dicendo: islamici contro forze del regime e viceversa, ma non è così. E ad accentuare il problema del radicalismo islamico che sì, esiste, ma è un problema minore, insieme a tutti gli altri. E i siriani, quelli che sono rimasti in Siria, sanno solo di essere stati abbandonati.
July 13, 2013di: Nicola ZolinSiria,