La Questione d’Oriente e gli accordi di Sykes-Picot: è così che un’area geografica, politica e culturale, per secoli tra i primi attori del palcoscenico mondiale, viene espulsa dalla storia diventando un “non luogo”. L’analisi di Fabio Alberti.
“Oriente, questione di”: Complesso dei problemi politici internazionali aperti dalla progressiva decadenza dell’Impero Ottomano. La Questione d’Oriente interessò le cancellerie europee dalla fine del sec. XVII, dopo la sconfitta dell’esercito turco a Vienna (1683). L’Impero Ottomano divenne oggetto delle ambizioni delle potenze occidentali.”
“L’infelicità araba ha questo di particolare: la provano quelli che altrove parrebbero risparmiati, e ha a che fare, più che con i dati, con le percezioni e con i sentimenti” (Samir Kassir)
Il modo in cui funziona l’occhio umano dà luogo al quel fenomeno per il quale l’illuminazione di un oggetto impedisce la vista di ciò che vi sta intorno. E’ così che la luna nasconde il firmamento e che i fari dell’automobile impediscono di vedere ciò che sta ai lati della strada.
Così vale anche per la cronaca, che nasconde la storia ed impedisce di comprendere i fatti.
Per questo, prima di ricostruire i minuti, i giorni, o gli anni che precedono gli attentati di Parigi (e del Sinai, di Beirut, di Bamako, di Tunisi…) occorrerebbe volgere lo sguardo ai secoli che li precedono.
Verso la fine del XVII secolo quella vasta area geopolitica che va dal Maghreb all’Azerbaijian, dai Balcani allo Yemen, allora controllata dall’Impero Ottomano, comincia ad andare in crisi. Con la perdita di centralità nel commercio mondiale, dovuto all’apertura delle rotte marittime ed il ritardo tecnologico rispetto all’area europea, si avvia un declino economico che favorisce l’emergere di spinte centrifughe dal variegato mosaico di popoli che la componevano.
E’ da allora che tra le cancellerie europee si discute la “Questione d’Oriente” come modalità di spartizione delle sue future spoglie.
Se ne parlerà già al Congresso di Vienna, a latere dei negoziati sul ripristino dell’ordine monarchico seguito all’avventura napoleonica, e terrà impegnate le cancellerie europee per tutto il XIX secolo.
Appoggiandosi alle rivendicazioni dei nascenti nazionalismi, in particolare nei Balcani, e con l’occupazione coloniale diretta nel Maghreb, le potenze europee procedono alla sua disgregazione/annessione nel corso dell’800 e poi, con la Prima Guerra Mondiale, alla definitiva dissoluzione.
Nei territori europei sorgeranno Stati-nazione indipendenti, progressivamente integrati nello spazio europeo, mentre in Medio Oriente si procederà alla pura e semplice spartizione coloniale. Il Maghreb era già stato occupato.
I fatti sono noti. Dall’accordo, nel 1916, tra il francese François Georges-Picot e il britannico Mark Sykes, al patto scellerato tra Abd Al Aziz Saud e Roosvelt a bordo dell’incrociatore Quincy, nel 1945, tutta l’area centrale del fu Impero Ottomano passò sotto controllo diretto o indiretto europeo.
Per le potenze europee, la “Questione d’Oriente” era chiusa.
Un’area geografico/politico/culturale, che per secoli era stata tra i primi attori sul palcoscenico mondiale, viene espulsa dalla storia ed integrata come appendice funzionale alla economia europea.
Diventa un “non luogo”.
L’ordine coloniale, con alterne vicende, con l’inserimento della Russia tra i contendenti e sopravvivendo, nella sostanza, al processo di decolonizzazione, ha dominato tutto il secolo seguente, mentre la lotta per il controllo dei paesi-chiave per l’approvvigionamento energetico ne fa il luogo dei conflitti per eccellenza.
A distanza di un secolo il mondo arabo-islamico è il luogo al mondo con la più bassa crescita sia dell’Indice di Svilupo Umano (HDI) che del PIL, e dove domina la sensazione “di non contare nulla”.
Samir Kassir, giornalista e intellettuale libanese, in un preziosissimo pamphlet scritto nel 2004 poco prima di morire per mano jihadista – “Considerazioni sulla infelicità araba” – descrive questa condizione come il tratto dominante in una popolazione che aveva avuto un ruolo centrale nell’economia mondiale e una fiorente produzione culturale e si trovava ormai a non essere più padrona del proprio destino e con un irrisolto rapporto con la modernità.
E’ da allora che nel mondo arabo-islamico si susseguono e si intrecciano cruenti conflitti per l’egemonia e per il potere, con tentativi di riaprire in forma autonoma la “Questione d’Oriente” e di rispondere alla sfida della modernità.
Già alla fine dell’800, in particolare nel mondo arabo, emerge una corrente politico-culturale che prenderà il nome di Nahda (Rinascita o Risveglio), che persegue la modernizzazione e avvia una riforma religiosa. La Nahda è stata spazzata via dall’instaurazione di regimi monarchici reazionari sotto protezione europea e dall’occupazione coloniale, alla quale si opponeva.
Divenne chiaro che i principi dell’Illuminismo non illuminavano la sponda sud del Mediterraneo perché l’Europa proiettava la sua ombra.
Su un altro versante, nel 1928 un insegnante egiziano, Hasan Al-Banna, fonda una associazione per la tutela dei lavoratori arabi impegnati nello scavo del Canale di Suez: sostiene che solo con un ritorno all’Islam tradizionale, e non con la modernizzazione, sarà possibile ricostruire unità e dignità delle popolazioni arabe.
Nasce la Fratellanza Musulmana, che adotta una via nazionale e pacifica e si dedica a reislamizzare la società dal basso come strategia di lungo periodo. La Fratellanza è oggi la più diffusa e potente corrente dell’Islam politico. Ma anche in questo caso la redenzione promessa non dà frutti.
Dal panarabismo di Nasser, al socialismo arabo del Baath, al libro verde di Gheddafi, il processo cosiddetto di “decolonizzazione” si risolve con l’avvento al potere di dittature laiche, che finiscono presto per tornare sotto il controllo o la tutela di potenze occidentali, per colpo di Stato o assorbimento nell’orbita sovietica, né riescono a promuovere un vero sviluppo economico.
Intanto la monarchia saudita, forte della rendita petrolifera e della protezione statunitense, combatte la propria lotta per l’egemonia sul mondo islamico diffondendo Wahhabismo e kalashnikov, risorse che verranno poi ampiamente utilizzate da tutti i movimenti jihadisti che apertamente si rifanno al Wahhabismo e che, per la loro disponibilità alla guerra, verranno ampiamente utilizzati anche dai paesi occidentali, dall’Afghanistan in poi.
E’ in questo contesto che si è sviluppato il totalitarismo salafita-jihadista come ideologia e come proposta politica, che fonda la propria sfida egemonica nel mondo arabo-islamico su una radicale – ma modernissima – rottura culturale con la metropoli coloniale e su una rottura politica con tutte le correnti che l’hanno preceduta.
Daesh non è che l’ultima manifestazione di una corrente politica che trae linfa proprio dal modo con cui la “Questione d’Oriente” è stata chiusa: nella sua follia totalitaria Daesh dà una risposta alla “infelicità araba”.
Per rendersene conto basta guardare i video di reclutamento diffusi da Daesh o leggere la dichiarazione di proclamazione del Califfato di al-Baghdadi: “O musulmani, voi oggi avete uno Stato che vi restituirà dignità, potere, diritti, e leadership… Presto verrà il tempo per camminare eretti ed in dignità”.
E’ parziale concentrarsi sulle condizioni nelle banlieue. Questo può spiegare la capacità di reclutamento in Europa, che comunque contribuisce per una piccola parte. Ma si tratta di carne da macello. Come in tutte le guerre la carne da macello è reclutata tra la povera gente.
Dietro all’affermazione del jihadismo vi sono potenti lobby economiche e vasti ceti commerciali e professionali e non i disperati delle periferie.
Prima che in Iraq e in Siria il jihadismo salafita è emerso come forza di governo, sia pure con organizzazioni diverse, in Somalia, in Afghanistan, in Algeria; ha una forte presenza in tutti i paesi a maggioranza islamica (dall’Indonesia al Marocco), fino a contagiare numerosi paesi dell’Africa nera. Cresce sia dove è stato appoggiato dagli Stati Uniti che dove vi è stato combattuto.
Daesh non è una quindi una creazione americana, ma un prodotto della storia.
L’appoggio turco-saudita, piuttosto che il cinismo americano, lo hanno favorito, ma non fatto nascere.
Daesh non è, innanzitutto, un’organizzazione terroristica, ma una proposta politica. Ed è l’unica proposta politica con una visione di lungo periodo e che appare oggi vincente alle masse popolari mediorientali.
Essa si nutre dell’accordo Sykes-Picot ben più che delle armi statunitensi, delle conseguenze dei piani di aggiustamento strutturale del Fondo Monetario, più che della vendita di petrolio.
E proprio perché non è una creazione americana, ma un frutto della storia, Daesh non potrà essere sconfitto con la guerra, che invece, come è successo nel ventennio passato, lo alimenterà.
Potrà forse essere privato – ed è tutta da dimostrare – di territorio, o anche smembrato nell’organizzazione, come è già successo in Iraq nel 2006-2008. Ma riemergerà inevitabilmente – magari in nuove forme – se non sarà battuto sul campo ideologico da una proposta politica in grado di dare una risposta efficace alla “Infelicità araba”.
Ciò implica il dare una nuova soluzione alla “Questione d’Oriente” che permetta al mondo arabo-islamico di riprendere un posto autonomo nella storia.
Purtroppo – e lo testimoniano il modo in cui sono condotti i negoziati sulla Libia e sulla Siria, piuttosto che l’acuirsi del confronto tra Arabia Saudita e Iran – la “Questione d’Oriente” si è effettivamente riaperta dopo il crollo dell’ordine mondiale dello scorso secolo, ma nei termini di contesa tra potenze.
Già in Libia l’intervento militare francese è stato più “anti-italiano” che contro Gheddafi. E in Siria la guerra ha attualmente molto più a che vedere con la presenza militare russa nel Mediterraneo, con (ancora) le rotte del petrolio e il controllo strategico del Medio Oriente, che con Daesh o con Assad. Per non parlare dei veri motivi della guerra in Iraq.
Le “primavere arabe”, sviluppatesi dalla Tunisia alla Siria, soprattutto nella loro componente giovanile e libertaria e nell’inedita alleanza tra settori di sinistra e di islamismo liberale, hanno provato a riprendere il discorso interrotto della Nahda, coniugando libertà, giustizia sociale e diritti umani, ma anche autonomia dall’Occidente.
L’ignavia dei governi occidentali, che hanno preferito utilizzarla per regolare gli equilibri tra loro, e la reazione islamo-reazionaria o laico-reazionaria l’hanno, per ora, quasi soffocata. Ma essa rimane una possibilità, forse l’unica, per sconfiggere sul piano storico e politico il totalitarismo jihadista.
Così come la proposta di confederalismo democratico formulata da Ochalan appare una risorsa importante. Essa critica alla radice la concezione di importazione europea dello Stato-nazione, e assumendo il fallimento del nazionalismo in Medio Oriente ne propone il superamento ipotizzando una forma di autogoverno decentrato e confederale che in prospettiva vanifichi anche le frontiere artificiali tracciate dal colonialismo.
Si pone cioè sullo stesso piano della proposta del Califfato. Inoltre valorizzando la soggettività femminile e inserendo la lotta contro il patriarcato all’apice delle priorità politiche, contrasta Daesh sul suo stesso terreno ideologico.
La proposta del confederalismo democratico ha già dato dei risultati ispirando, pur con tutte le imperfezioni che la storia concreta comporta, l’esperienza di autogoverno del Rojava.
La guerra di Daesh è essenzialmente una guerra di potere dentro il mondo a maggioranza islamica, e l’affermarsi di una proposta politica alternativa non può che darsi dall’interno di questo mondo.
Ma il cosiddetto Occidente può favorirne l’emergere, scegliendo con decisione di sostenere la società civile, e soprattutto costruendo le condizioni perché possa avere successo sul piano dello sviluppo economico e della giustizia sociale, ad esempio con la revisione dei trattati commerciali Euro-Mediterranei, che dovrebbe essere messa in cima alle priorità anche per limitare l’emigrazione forzata.
Purtroppo le speranze che ciò avvenga non sono molte.
Non sembra infatti che gli attori del nuovo ordine multipolare siano intenzionati a considerare il mondo arabo-islamico altro che un campo di battaglia, una fonte di materie prime energetiche, un esercito industriale di riserva o, al più, un mercato per l’industria degli armamenti.
January 14, 2016di: Fabio AlbertiIraq,Libia,Siria,Turchia,
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