La sinistra e la rivoluzione siriana

L’ottica interpretativa della sinistra sulla Siria ha perso di vista la centralità del conflitto economico-sociale per privilegiare a torto un’impostazione “anti-imperialista”. L’analisi dell’intellettuale palestinese Salama Kila. 

 

 

Quando l’ondata rivoluzionaria ha travolto la Siria, la sinistra ha fatto fatica a comprendere ciò che stava avvenendo nella regione, a partire dalla rivoluzione tunisina. Si è creduto che i popoli stessero semplicemente insorgendo contro regimi “imperialisti”. 

Forse questa è, in sintesi, la visione della sinistra sugli avvenimenti della rivoluzione siriana. La sinistra ha in effetti continuato a interpretare le vicende siriane come un complotto dell’imperialismo americano contro le politiche di “resistenza” antistatunitense. Alcuni hanno iniziato a dubitare di tutte le rivoluzioni, in particolar modo dopo l’ascesa al potere degli islamisti in Egitto e Tunisia. 

Una tale questione ha posto due problemi. Il primo è relativo al posizionamento del regime siriano nello scacchiere dei conflitti mondiali in seguito allo scoppio delle rivoluzioni; il secondo è relativo “al modo di pensare” di questa sinistra. 

Naturalmente questa interpretazione, errata sin dall’inizio, si è in seguito diffusa con l’evolvere e il complicarsi della rivoluzione, il suo intrecciarsi con i conflitti mondiali e regionali, degenerando, come è sembrato evidente, in una “posizione immorale”, giacché arriva quasi a giustificare i crimini contro l’umanità commessi dal regime.

È sembrato che tutti gli interventi e le problematiche emersi progressivamente continuassero a essere usati per coprire questa posizione, incluso l’annientamento del popolo siriano. È una conclusione severa, probabilmente, ma vera. 

Chi accetta l’uso di aerei e missili a lunga gittata, barili esplosivi e armi chimiche contro città e villaggi, chi accetta l’arresto di centinaia di migliaia di persone, la loro uccisione nelle carceri, la dispersione di milioni di siriani in seguito a morte e distruzione, sta compiendo dei crimini contro l’umanità. E a niente serve qui“l’essere di sinistra”, o il“gergo marxista”, né l’appellarsi alla “resistenza” e all’“ostruzione” che distruggono un paese, in nome del conflitto contro lo Stato sionista. 

Per cercare di sciogliere il nodo delle complessità diventate incomprensibili per la “sinistra” è necessario capire l’attuale stato di cose, e le cause di questi suoi limiti di comprensione.

Questo ci riporta ai due problemi menzionati all’inizio: il regime siriano è anti imperialista? E secondo quale metro di giudizio? 

Non v’è dubbio che i conflitti seguiti all’assassinio di Rafiq al-Hariri nel 2005, avevano spinto il regime ad aderire a una coalizione antiamericana (mentre gli Stati Uniti ridimensionavano il loro imperialismo), nonostante esso avesse più volte indicato la necessità di un’intesa con gli Stati Uniti, fino a richiedere la mediazione di Israele, come riportato dai giornali israeliani. Anche quando Sarkozy, una volto giunto alla presidenza, pose fine all’“embargo occidentale” sul regime, Bashar al-Asad, dall’Eliseo, sottolineò l’importanza del ruolo americano.

Intendo dire che nella prospettiva del regime c’era l’intesa con gli Stati Uniti, dopo aver “scoperto” che essi, in virtù dell’uccisione di al-Hariri, volevano che il regime cambiasse. E bisognava accettare questo fatto. Con il successo di Obama, tutto è diventato più facile, e si sono ristabiliti i rapporti, tranquillamente e senza ostacoli. 

 

Geopolitica e lotta di classe

Il regime siriano sostiene la Resistenza? Sì, nell’ambito dei giochi strategici sullo scacchiere regionale, come faceva Hafez al-Asad. 

Ed è alleato dell’Iran? Sì, ma parallelamente ha stretto un’alleanza simile con Turchia e Qatar.

È questo il “patto dell’ostruzione” (il regime, l’Iran, il Qatar e la Turchia). E non si trattava di un’alleanza ostile agli Usa, dal momento che alcune delle potenze coinvolte – Turchia ed Iran – ambivano a un’indipendenza politica e altre – il regime siriano e il Qatar – al miglioramento della propria posizione nell’ambito del “mondo occidentale”. 

Ciò che voglio sottolineare è che dall’analisi di questa strategia dell’“ostruzione” non si deduce che il regime fosse anti-imperialista. Sono, piuttosto, le lotte internazionali ad averlo spinto ad assumere questa ambigua posizione definita di “ostruzione”, e un’accurata disamina illustrerebbe bene come il regime in realtà si collocasse all’interno di una coalizione di forze egemoni a livello globale, e dunque con gli Stati Uniti. 

Ma il regime mostra una contraddizione su una questione da risolvere, che, come ho sottolineato, è centrale, essendo una potenza vincolata a una struttura di potere voluta dall’America. Tant’è vero che l’economia marciava secondo le condizioni dettate dal Fondo Monetario Internazionale, ossia le condizioni del capitalismo globale americano. 

Si è portato a termine l’affrancamento dell’economia dallo Stato e l’apertura al liberismo (al-infitah) economico nel 2007, al culmine dello scontro con l’imperialismo americano. Se i nuovi uomini d’affari (che sono principalmente la famiglia al potere, il suo entourage e gli alleati della vecchia borghesia, che di sicuro non è anti-imperialista) non avessero investito negli Stati Uniti (senza dimenticare come tutto il denaro accumulato dai massimi responsabili durante il governo di al-Asad sia stato sperperato in America), si sarebbero legati in quel momento ai capitali del Golfo (Qatar, Emirati, Arabia Saudita e Kuwait), e poi, dal 2008, ai capitali turchi. E non credo che questo capitale sia fuori dal controllo americano. 

Questo per dire che la casta che detiene il potere economico in Siria è rimasta per via diretta o indiretta collegata al capitalismo imperialista. Non è, dunque, infondato dire che il regime ha appoggiato questa linea, ma era il conflitto più propriamente politico che imponeva questo tipo di raggiro, senza superare il legame con il capitalismo imperialista. 

Questo tipo di relazione è forse normale nell’ambito del modello capitalistico (molti paesi stavano entrando in questa relazione ingarbugliata, come il Myanmar, la Malesia, e alcuni paesi dell’America latina). Esso fa parte della problematica delle relazioni tra il centro di potere imperialista e le parti periferiche le quali, talvolta, provocano problemi che portano a una “spaccatura temporanea”, ma sempre nel contesto del riassetto del paese interessato. I limiti relativi a questa divergenza sono stati amplificati dalla sinistra mondiale per opporre il regime siriano all’imperialismo americano, per poi assumere una definitiva posizione di sostegno al regime contro l’imperialismo che tramerebbe complotti in virtù della posizione “nazionalista” del regime. 

A cosa è dovuto questo errore teorico? Perché di una teoria si tratta, per quanto possa aver condotto a una presa di posizione decisamente immorale. 

Su questo mi soffermerò in seguito. Ma ciò che deve essere chiaro qui è che una tale alleanza non significa non-allineamento, così come il regime non è un governo di liberazione nazionale, a prescindere dalle sue posizioni antiamericane. 

Tale contrapposizione non si basa su una disputa di classe, o su divergenze di orientamenti economici, piuttosto si tratta di una differenza relativa al controllo del modello capitalistico generale e di subalternità delle parti periferiche, come la Siria in questo caso, la cui economia già da tempo aveva abbracciato il modello liberista. 

In secondo luogo, ciò che ha causato il malinteso è stata l’ottica di partenza assunta per interpretare la mobilitazione popolare, un’ottica basata sulla dicotomia a favore o contro l’imperialismo americano.

Ciò rimanda a una criticità metodologica di fondo, in quanto ha rappresentato una deviazione dal metodo marxista, la cui analisi si fonda prima e soprattutto sulla composizione economica e sulla struttura sociale. 

La riflessione della sinistra è dunque partita da coordinate politiche e da polarizzazioni figlie delle lotte politiche; e di conseguenza – partendo dall’assunto che tutto ciò che accade in un paese è il riflesso, di fatto, della lotta internazionale – ha fornito una lettura “internazionalista”, applicando così la dicotomia pro/contro gli Usa a un conflitto tra un regime e un popolo che si sollevava invece per il cambiamento interno. 

E siccome gli Stati Uniti sono contro il regime, fin quando il popolo si mobiliterà contro di esso questa sinistra penserà che è con gli Usa, oppure “manipolato” dall’America. 

Questa è una visione meccanica e metodologicamente capovolta rispetto al marxismo, il cui punto di partenza è l’economia e la divisione di classe, ben presente nel paese e che ci conduce verso un’analisi molto più complessa di quella superficiale offerta da certa sinistra mondiale. 

Il conflitto interno, nell’accezione della lotta di classe, è determinato dalla struttura economica esistente, non dalle posizioni politiche del regime, influenzate da altri fattori relativi ai rapporti internazionali e vincolate agli interessi dei gruppi egemoni al potere. 

Sono questi ultimi ad aver organizzato le politiche del regime, perlomeno dall’ascesa al potere di Bashar al-Asad (nel 2000), sulla base dell’intesa con gli Stati Uniti, leader di quel mondo capitalistico nel quale aspirano ad entrare. Ma il punto di vista degli interessi americani durante il periodo di Bush figlio presupponeva la creazione di regimi che favorissero la disintegrazione degli Stati nel Mashreq (Oriente) arabo; e ciò significava l’azzeramento di Bashar al-Asad e della piccola casta a lui associata. 

La disputa qui ruotava attorno al punto di vista dell’egemonia, a partire dagli interessi di ogni parte in causa, e non dalla divergenza sul modello economico dominante, come sottolineato poc’anzi. 

Se invece avviamo la nostra analisi dalla configurazione economica della società, come la teoria marxista impone, constatiamo che è la corrente liberista, trionfante nel primo periodo del governo di Bashar al-Asad, ad aver provocato il crollo dell’economia, l’alto incremento della disoccupazione, il forte impoverimento di gran parte della popolazione, il collasso dell’educazione e della sanità, la trasformazione dell’economia in un’economia rentier dominata da uno sparuto gruppo di capitalisti mafiosi. 

E tutto questo rappresenta il terreno ideale per una rivoluzione, come chiaramente avvenuto in Tunisia, Egitto, Yemen e Bahrein, e può riguardare tutti i paesi arabi e altri paesi del mondo. 

Se quindi torniamo a quanto afferma il marxismo, possiamo dire che in ultima analisi è l’economia il fattore determinante di tutte le lotte, e per poter prendere una posizione in merito a una rivoluzione bisogna partire da qui e non dal posizionamento politico di un regime sullo scacchiere mondiale, giacché le forze capitalistiche possono anche collocarsi in contrapposizione agli Stati Uniti. 

E questo è ciò che avviene ora con la Russia, la Cina e altri Stati che aspirano all’indipendenza o a diventare potenze mondiali; oppure sono sospinte dalla politica dell’America a contrapporsi a essa. Ora, non è propriamente questa contrapposizione a determinare le posizioni e le politiche, se non nella cornice interpretativa dei conflitti globali e delle polarizzazioni e spaccature che avvengono all’interno del paese.

La priorità è la lotta di classe e non queste dinamiche politiche. 

Il problema sta nel fatto che questa sinistra non riconosce all’origine l’esistenza di una lotta di classe, proprio perché si muove da una prospettiva unicamente politica, dunque ideologica e non materialistica.

Perciò alcuni hanno iniziato a illudersi dell’esistenza di uno “Stato sviluppista” in Siria, rappresentando la condizione economica in contraddizione con la realtà delle cose; hanno ignorato tali questioni, concentrandosi unicamente su fattori quali “la posizione nazionalista”, il “sostegno alla resistenza” e “il rifiuto delle condizioni dell’America”. 

Ebbene, qui sta il nocciolo della questione: in un metodo d’analisi basato unicamente sulla dimensione politica. 

Molti analisti non conoscevano del resto la realtà economica della Siria; chi prima della rivoluzione ne era a conoscenza, ha poi guardato allo scoppio di quella insurrezione sociale come il risultato di politiche economiche perseguite dal governo (si veda la posizione di Qasioun nel periodo precedente alla rivoluzione e al suo inizio). 

In questa situazione il dibattito diventa un nonsense, dato che il dogma anti-imperialista domina il modo di vedere al punto da credere che chiunque sia anti-imperialista debba essere “rivoluzionario”, “nazionalista”, “liberazionista” e “sviluppista”. 

Per questo non è un caso che molti abbiano sostenuto Bin Laden e al-Qaeda nel periodo successivo all’11 settembre, così come hanno sostenuto l’Islam politico, “espressione di un movimento di liberazione e di opposizione ai regimi e all’imperialismo”.

Tale visione dogmatica denota una visione estremamente naïve perché ignora il conflitto reale, che ha visto l’emergere di diverse forme di antagonismo, di certo non tutte progressiste e rivoluzionarie, anzi a volte reazionarie. 

Qui l’ottica politicista ha oltrepassato il lecito, portando alla comparsa di visioni reazionarie nel senso letterale del termine. È la viva rappresentazione della logica formale che divide il mondo in due entità alternative (o l’uno o l’altro) oppure opposte (bene/male) e che vede tutto secondo la logica pro/contro gli Stati Uniti.

La logica formale da migliaia d’anni è un metodo idealistico, a cui ancora oggi sembrano essere devoti certi marxisti. Questa articolazione metodologica della sinistra internazionale ha fatto sì che tutti gli eventi successivi venissero interpretati come “naturali” implicazioni della posizione originaria. 

Ogni cosa che accade diventa opera del nemico e il discorso del potere sarà sempre assolutamente giusto, ricorrente negli slogan dei partiti e nei loro manifesti. Di conseguenza, ogni forma di lotta contro il potere viene respinta e condannata, e qualsiasi azione viene tacciata di essere manovrata dall’esterno. 

Questo vale per tutte le odiose pratiche di potere che la sinistra condannava, anche quando meno gravi rispetto a quelle del regime siriano, nel contesto della lotta anti-imperialista. Come fece condannando l’occupazione americana in Iraq e tutte le atrocità da essa perpetrate, che in molti casi parevano minori rispetto a quelle compiute dal regime siriano. 

Ma il tutto è diventato poi un complotto saudita-qatarino ordito dagli Usa, per sostenere il terrorismo e inviare armi. Questo dogma basato su una lettura fuorviante ha chiuso ogni possibilità di riflessione e analisi, ha azzerato ogni valore e dinanzi al complotto imperialista è venuta meno persino la dimensione etica. 

Come può allora questa visione dogmatica interpretare le criticità sempre maggiori nel contesto della rivoluzione, in seguito alle ingerenze regionali (Arabia Saudita, Qatar, Iran, Hezbollah e al-Maliki) e internazionali (Russia soprattutto), davanti all’escalation di violenza del conflitto armato e dell’islamizzazione? 

Questo dogma, inevitabilmente, non è in grado di farlo, fermo com’è rimasto al punto di partenza: il regime è anti-imperialista e c’è un complotto in atto contro di esso. Non ci sono più disamine di eventi, dichiarazioni, casi, perché la questione è già risolta: il sostegno al potere diventa un discorso reiterato e senza pudore. 

L’ottica marxista invece ci porta ad analizzare la struttura di potere alla luce della stratificazione di classe a livello locale. Qui si definisce la sua natura, non in rapporto ai conflitti globali. Sono questi conflitti globali a dover essere interpretati, più precisamente, dopo aver compreso tale struttura.

Quale è dunque la struttura della casta al potere? 

 

Da Hafez a Bashar

Hafez al-Asad aveva governato da solo, super partes, “al di sopra delle classi”, malgrado fosse espressione della borghesia rurale che ambiva a cambiare il suo status di classe attraverso il saccheggio delle casse dello Stato. In virtù di questa sua posizione le è stato lasciato campo libero ma sempre sotto il controllo di Hafez al-Asad e all’interno di una struttura da lui governata. 

È stato dunque un capo di Stato con pieni poteri sull’economia (alleato dei commercianti di Damasco) a distribuire privilegi sulla base della “fedeltà al capo”. Ha aperto la porta a gruppi della classe media che hanno accumulato ricchezza attraverso il saccheggio (si legga “corruzione”) e la fuga di capitali all’estero, finiti ad ingrassare le banche imperialiste. 

Una classe media trasformata in una classe più elevata che ha, quindi, potuto condurre una vita agiata all’interno del paese. Per questa ragione lo Stato è andato in bancarotta (oltre che in seguito alla nomina di dirigenti, ministri e responsabili della sicurezza incompetenti).

Dopo la morte di Hafez al-Asad è maturata una piena consapevolezza di tutto ciò, quando è apparso evidente che la nuova struttura di potere si era formata grazie alla presenza di un “governante politico”, un ra’is, e si fondava sull’alleanza tra apparati della sicurezza e della finanza che avevano iniziato a prendere il controllo dell’economia sin dagli esordi del governo di Bashar al-Asad, per poi dominarla completamente lungo tutto il primo settennato (2000-2007). 

È in quegli anni che si è completato il processo di liberalizzazione economica e si è assistito al controllo da parte dei “nuovi businessmen” della maggior parte dell’economia del paese (attraverso un’alleanza stretta con i commercianti di Damasco e Aleppo nell’ambito della Sham Holding Company). 

Da qui lo scenario è radicalmente mutato: se prima c’era un capo di Stato al vertice del potere e di una casta, ora era la casta a detenere il potere. Una casta che si era appropriata direttamente delle risorse dello Stato, amministrando in modo incontrastato i progetti più redditizi e con l’ausilio di una “forza speciale” a essa subordinata, sovrapposta alle organizzazioni criminali internazionali (sostanzialmente quelle che operavano con Jamil al-Asad, fratello di Hafez, che fungeva da agente di quelle bande mafiose conosciute come shabbı¯ha), che hanno continuato a svolgere attività criminali per i maggiori esponenti della nuova economia, come il ricco e potente Rami Makhluf, e per quell’alleanza securitaria finanziaria egemone. 

Ha dunque approfittato di questo sistema di sicurezza creato da Hafez al-Asad e degli apparati di Stato ad esso sottoposti, incluso l’Esercito. Questa nuova formazione è responsabile del crollo dell’industria, dopo aver trascurato il settore pubblico e svenduto le aziende più redditizie. In seguito alla liberalizzazione economica e a stagioni di siccità, si è avuto il tracollo dell’agricoltura. 

Sono sprofondate le condizioni di vita delle classi popolari, operai, contadini e ceto medio urbano. La disoccupazione ha raggiunto il 30-33%, è aumentato il tasso di povertà relativa e assoluta.

E’ stato risparmiato soltanto il segmento più elevato del ceto medio che viveva in condizioni agiate e ha costituito la spina dorsale del modello economico che si è venuto a creare, basato su servizi, beni immobili, turismo, finanza e importazione. 

Sono queste condizioni ad aver reso la rivolta possibile, anzi inevitabile.

Condizioni che hanno determinato la traiettoria di questo percorso, se si considera la struttura di potere forgiata da Hafez al-Asad, dalla marcata impronta securitaria, e che quegli stessi apparati di sicurezza (molteplici e contradditori) hanno continuato a dominare il campo, a partire dall’Esercito passando per altri apparati statali, organizzazioni popolari, scuole, centri di culto, agendo con violenza contro ogni dissidente. 

Un marchio securitario, consolidato da una struttura mafiosa in seguito al controllo capitalistico-mafioso dello Stato, come ho già osservato. 

Questo sistema ha fatto sì che la violenza diventasse l’unico mezzo per difendere gli interessi di classe dinanzi allo spettro del cambiamento e del contagio rivoluzionario partito dalla Tunisia e dall’Egitto, che – tutto lasciava presagire – si sarebbe esteso anche alla Siria.

L’uso della violenza è stato prioritario per scoraggiare il popolo a occupare le piazze (e questo ha riguardato più di una città in Siria, da Dera‘a a Duma, a Banyas e Homs, e soprattutto Hama e Deir Ezzor). 

Se il contesto della rivoluzione non è stato più pacifico, ciò va attribuito alla repressione cruenta praticata contro il popolo. 

Nei primi mesi si è assistito a manifestazioni pacifiche, nonostante la violenza esercitata contro i manifestanti (secondo quanto ammesso da Bashar al-Asad a oltre un anno dallo scoppio della scintilla, e in seguito confermato dal vicepresidente siriano Farouq al-Shara‘ alla fine del 2012, contrariamente a quanto costantemente ripetuto nei discorsi dei media sin dal primo giorno della rivoluzione). 

Naturalmente, non è possibile capire il percorso della rivoluzione tralasciando questo aspetto, che ha gettato le basi per la nascita di due fenomeni, militarizzazione e islamizzazione, e che ha aperto le porte agli interventi internazionali. 

Interventi che forse avrebbero consentito di liberarsi di un regime “ostruzionista” o “antiamericano”, sempre seguendo la visione formale menzionata in precedenza. Ma è necessario scendere in profondità nella nostra analisi, anche perché non sono state prese in considerazione due variabili fondamentali emerse qualche anno prima, che hanno avuto un profondo impatto su tutto ciò che sta accadendo nel mondo e nella regione. 

 

Crisi finanziari e ruolo statunitense

La prima variabile riguarda la crisi finanziaria mondiale, con epicentro negli Stati Uniti, che ha svelato in profondità la crisi del modello capitalistico nel suo insieme e l’enormità della crisi americana.

Si è scoperto come l’economia statunitense versi in una condizione critica e irrisolvibile, perché la speculazione finanziaria ha controllato l’economia reale e le bolle finanziarie sono diventate una situazione reiterata ed inarrestabile. 

Per questo l’amministrazione americana era già arrivata alla conclusione (probabilmente nel 2010) – che comunque non rappresentava una soluzione alla crisi – di doversi occupare della gestione dell’economia, di fare ogni tentativo per evitare il collasso finale. 

Questa conclusione presupponeva la riconfigurazione della sua posizione a livello internazionale, laddove pareva chiaro che non avrebbe potuto più ambire a essere l’unico polo dominante, e che il suo obiettivo sarebbe stato scongiurare la minaccia maggiore rappresentata dalla Cina. 

Di conseguenza, gli Usa hanno stabilito una nuova strategia all’inizio del 2012 (annunciata da Obama il 6 gennaio di quell’anno), basata sullo spostamento dell’asse delle priorità verso l’Asia e l’Oceano Indiano, prefiggendosi poi di fondare su questa nuova base delle alleanze globali. 

Per questo il Medio Oriente (ad eccezione del Golfo) non è più, come prima, in testa alle priorità statunitensi, e pertanto tutti i disegni americani precedenti sono stati riposti. Se esaminiamo più in profondità la politica americana verso la Siria distinguiamo tre fasi. 

Nella prima, che abbraccia il primo anno della rivoluzione, la posizione americana è stata fluida (contrariamente a quella assunta da Ben Ali e Hosni Mubarak), rispecchiata nell’atteggiamento dei media, in cui si è cercato di stemperare la tentazione di un intervento armato, come si evinceva dall’esitazione riscontrabile nei corridoi della Nato. 

La seconda fase, che si è sviluppata dall’inizio del secondo anno della rivoluzione fino probabilmente all’inizio del 2014, è stata caratterizzata dall’aver consegnato un ruolo centrale alla Russia, a cui è stato richiesto di provvedere alla fase di transizione (dichiarazione di Obama all’inizio del 2012), e si è operato per convincere l’opposizione ad accettarlo. 

La terza fase, quella attuale, ha visto il ripiegamento della Russia e l’attivarsi delle potenze dell’area (Iran e Arabia Saudita), mentre l’amministrazione americana è rimasta fedele al rifiuto di un intervento militare, ma anche a quello di armare i ribelli, e pertanto ha agito “in segreto” (seppur solo parziale a giudicare dalla politica volta a manipolare le rivoluzioni dopo aver percepito che non si sarebbero arrestate). 

È ormai chiaro il ripiegamento americano a livello mondiale, così come resta tangibile la sua debolezza. 

Ma il primo scenario sconfessa la questione della “teoria del complotto imperialista”, che è stato messo in atto dai suoi agenti nella regione, Arabia Saudita e Qatar, nonostante la divergenza di interessi di questi ultimi sulla Siria e l’adozione di politiche contrapposte. 

Esso era legato al sostegno finanziario e bellico alle fazioni armate, alla spinta all’islamizzazione e all’invio di jihadisti. 

È stata, piuttosto, la debolezza dell’America ad aprire le porte alla crescita d’influenza delle potenze regionali, e quindi allo scontro tra Arabia Saudita e Qatar. In questo senso gli Stati Uniti non hanno avuto una posizione effettiva contro il regime siriano, ma hanno rappresentato un fattore di neutralizzazione delle aspirazioni di altri Stati come Turchia e Francia, e un elemento di supporto al predominio russo sulla Siria, che la Russia non ha saputo sfruttare. 

Gli Stati Uniti volevano coalizzarsi con la Russia con l’obiettivo di frenare la Cina, ma la Russia non sembra aver saputo approfittare di quel momento, che pare ormai esserle sfuggito dalle mani. 

La seconda variabile riguarda l’ondata rivoluzionaria scoppiata in Tunisia, propagatasi in Egitto, Bahrein, Yemen, Libia e Siria e che ha abbracciato in un modo o nell’altro il Marocco, l’Algeria, la Giordania, l’Iraq, l’Oman e il Sudan. 

Un’onda propagatasi con una rapidità impressionante e in modo inatteso. Alcuni a sinistra hanno considerato quelle rivolte tutte un complotto americano per dare sfogo alla “crisi sociale” e portare gli islamisti al potere (ciò non era stato affermato prima dell’avvento degli islamisti, ma ripetuto costantemente dopo la loro ascesa al potere). 

Chi resta fermo sulle sue posizioni non riuscirà mai a guardare oltre, dunque tutto diventa possibile in una prospettiva piatta. Gli interrogativi che si sono posti le potenze imperialiste e i regimi di tutti i paesi arabi sulle cause delle rivoluzioni e sulla maniera di affrontarle erano molto più seri. 

Le rivoluzioni hanno fatto emergere, alla luce di una crisi economica irreversibile, una situazione globale estremamente pericolosa: i popoli hanno iniziato a risvegliarsi e questo è un risveglio che avviene ogni mezzo secolo, come mostra il corso della storia pregressa. Le rivoluzioni rappresentano una minaccia per il capitalismo e quando erompono in una situazione che può tramutarle in un evento globale divengono il pericolo maggiore, una minaccia che bisogna contrastare. 

Tutte le precedenti strategie vengono meno davanti al nuovo fenomeno, affrontarlo diviene la priorità.

Gli Stati Uniti hanno provato in una prima fase a destituire i governanti per ricostituire quegli stessi regimi, come in Tunisia ed Egitto, attraverso il coinvolgimento degli islamisti, nella speranza di risucchiare la rivoluzione. 

Hanno sostenuto la politica saudita volta a polverizzare la rivoluzione in Bahrein, ad arrivare ad una soluzione formale in Yemen e hanno partecipato timidamente al cambiamento di regime in Libia.

In Siria sono rimasti disorientati come abbiamo già sottolineato, ma lì si sono mobilitate altre potenze, sempre con l’obiettivo prioritario di arrestare il contagio rivoluzionario.

Gli Stati Uniti come l’Arabia Saudita avevano ripreso le relazioni con il regime siriano (l’Arabia Saudita nel vertice del Kuwait del 2010 aveva stabilito un sostegno finanziario al regime, perdurato fino alla fase post-rivoluzionaria). Pertanto, l’obiettivo non era quello di seguire la vecchia linea politica che aveva ridisegnato l’area in due poli, moderati contro estremisti (ovvero sunniti contro sciiti), una divisione che era venuta meno nel 2010.

Piuttosto, la preoccupazione era di trovare il modo di arrestare le rivoluzioni.

Se Qatar e Turchia, alleati della Francia, volevano preservare i loro interessi in Siria (interessi importanti legati alla precedente intesa con l’ex alleato Bashar al-Asad), in base alla loro convinzione che il regime sarebbe caduto, e si sono mobilitate per formare un’opposizione a essi legata (il Consiglio Nazionale), tentando di spingere verso un qualsiasi tipo di intervento militare (su cui gli Usa hanno posto il veto), di sicuro l’Arabia Saudita aveva un altro obiettivo, ovvero il sostegno segreto al regime affinché non cadesse e schiacciasse la rivoluzione.

Nel primo anno della rivoluzione, l’azione internazionale era incardinata attorno all’asse tripartito Turchia-Qatar-Francia, e il ruolo statunitense-saudita appariva sullo sfondo. Ciò era il risultato di una divergenza di politiche ed interessi.

Il terzetto voleva un governo alternativo e la preoccupazione principale dell’Arabia Saudita era quella di arrestare l’espansione della rivoluzione, temendo che la vittoria della stessa in Siria avrebbe portato inevitabilmente ad una medesima situazione in Arabia Saudita, essendoci lì un terreno favorevole a causa della povertà, della disoccupazione, dell’emarginazione sociale e della tirannia del fondamentalismo wahabita.

Se l’asse formato da Turchia-Qatar-Francia non ha potuto compiere nessuna mossa seria senza il sostegno americano, l’opposizione ha continuato a muoversi all’estero senza efficacia, nonostante il riconoscimento ottenuto da numerosi paesi.

Nel frattempo, il corso della rivoluzione ha seguito una sua evoluzione naturale e l’unico effetto negativo è stato rappresentato dai discorsi e dalle politiche dell’opposizione all’estero, che hanno accresciuto l’indecisione di quei gruppi sociali che avrebbero dovuto prendere parte alla rivoluzione in modo rapido per cambiare l’equilibrio delle forze.

Questa prima fase può essere definita come la fase del blocco della rivoluzione e delle aspirazioni della Turchia, del Qatar e anche della Francia.

La fase successiva prende avvio dopo la prosecuzione delle rivoluzioni negli altri paesi arabi e gli sviluppi della rivoluzione siriana, in cui si assiste a un effettivo indebolimento del potere, all’espansione della rivolta su tutto il territorio nazionale, fino alla sua militarizzazione e al successivo intervento di forze quali Hezbollah, l’Iran e le milizie sciite irachene in sostegno alle sfibrate forze governative.

Se gli Stati Uniti si erano affidati alla soluzione russa, l’Arabia Saudita si era adoperata nell’“acquisto” di battaglioni armati e per l’islamizzazione della rivolta.

È la brutalità delle violenze perpetrate dal regime nel sedare le manifestazioni ad aver fatto sì che la protesta si trasformasse in azione armata (opzione che ha provato a sostenere anche la leadership dell’opposizione all’estero, nell’illusione che avrebbe portato a un intervento esterno davanti al rifiuto degli Stati Uniti), così come ad aver prodotto la crescita dell’islamizzazione, per effetto dell’intervento di forze diverse, tra cui i Fratelli Musulmani, le emittenti al-Jazeera e al-‘Arabiya, i media occidentali e l’Arabia Saudita.

Questi fattori, considerati di supporto alla rivoluzione, hanno rappresentato in realtà l’altro tipo di strategia del regime.

Questo voleva spingere la rivoluzione alla militarizzazione e all’islamizzazione perché credeva che trasformandola in azione armata avrebbe potuto sconfiggerla; per raggiungere tale obiettivo, doveva garantirsi la stabilità della struttura di potere a esso fedele, soprattutto la “struttura solida”, o deep state (vale a dire i servizi di sicurezza di base, la IV Divisione, la Guardia repubblicana e alcune delle unità speciali, le forze più lealiste).

Con questo obiettivo voleva quindi presentare il conflitto come settario, ovverossia una reazione sunnita alle rivolte del 1980-1982, il cui bersaglio erano gli alawiti in particolare e le minoranze più in generale.

In un contesto in cui la sudditanza degli alawiti al potere viene garantita con l’intimidazione, essi sono la base sociale di cui si compone la struttura solida. E persino invocare la radicalizzazione salafita della rivoluzione è servito a giustificare la violenza praticata sin dal primo momento.

In una tale situazione, il controllo esercitato dal potere su quelle forze fondamentaliste appartenenti alla rete di al-Qaeda può essere stato funzionale al sabotaggio della rivoluzione, come emergerà successivamente.

Per questo l’azione saudita va a completare il cerchio e non è in contraddizione con quanto osservato. Non solo l’Arabia Saudita non ha armato in modo efficace i ribelli, ma ha fatto giocare alle forze ad essa collegate, come il Jaish al Islam (“Esercito dell’Islam”), un ruolo di scompiglio nella rivoluzione, aiutando il regime a formare il Fronte (Jabhat) islamista al-Nusra e a deformare il volto dell’Esercito Libero Siriano (ELS) e di numerosi gruppi armati.

L’urgenza di arrestare l’espansione della rivoluzione ha continuato a essere la visione dominante di Stati Uniti, Russia, Arabia Saudita e Iran e, malgrado l’apparente contraddizione in termini, queste potenze hanno agito in armonia per trascinare la rivoluzione in un caos permanente, in una situazione irreversibile, con tutte le morti e le devastazioni avvenute.

In sintesi, ogni intervento esterno è stato fatto contro la rivoluzione, per trasformare gli avvenimenti siriani in un massacro che spaventasse i popoli e li allontanasse dall’idea della rivoluzione. La rivoluzione siriana doveva rappresentare una lezione dolorosa che intimorisse quei popoli spinti dalla situazione economica globale a ribellarsi. Perciò, il vero complotto è un complotto contro la rivoluzione e i suoi principi e a questo ha contribuito la sinistra “passatista”, rimasta ferma al passato.

Tale analisi chiarisce inoltre il tipo di traiettoria che ha intrapreso la rivoluzione siriana, e tutte le distorsioni, le problematiche e il caos che la governano. Costringendo il regime a richiedere la protezione di forze esterne, quali l’Iran, Hezbollah, la milizia settaria irachena, la Russia, la rivoluzione ha finito per dover affrontare al-Qaeda nelle sue varie denominazioni, Al-Nusra e Da’ish (il cosiddetto “Stato Islamico”), le bande di criminali scarcerati dal regime, tutte le forme di crudeltà messe in atto dal potere, e un letale embargo economico su tutte quelle aree fuoriuscite dal suo controllo.

Tutto questo impone uno studio della rivoluzione nella sua struttura interna, prima ancora di prendere in esame i fattori d’influenza esterni e le diverse tendenze di questi fattori. Bisognerebbe studiare le motivazioni che hanno spinto il popolo a insorgere. Chiedersi: come mai il potere ha reagito alle manifestazioni pacifiche con feroce violenza? Come mai i giovani che vivono in povertà sono arrivati a imbracciare le armi? Come si è diffusa l’islamizzazione?

Come sono nate Jabhat Al-Nusra e Da‘ish? Come è possibile che ci siano state tutte queste distruzioni e morti? E le armi sono state utilizzate con quell’obiettivo? Come si spiega il controllo da parte dell’Iran del destino della Siria, e il suo ruolo fondamentale nell’affrontare la rivoluzione? Perché la soluzione resta nelle mani di potenze regionali e internazionali?

In sostanza, abbiamo bisogno di una nuova logica, una logica di tipo marxista, per capire tutto questo. Fondamentalmente, il peccato originale della rivoluzione è stato l’assenza di forze marxiste capaci di imporsi attraverso la lotta di classe.  

 

*Salama Kila è uno scrittore e intellettuale palestinese. Per le sue posizioni contro il regime di Damasco è stato più volte arrestato, torturato ed infine espulso dalla Siria. Questo articolo è originariamente apparso sulla rivista Critica Marxista (n. 2-3/2015, Giugno 2015), che ringraziamo per la cortese concessione. La traduzione dall’arabo è a cura di Simone Sibilio. Si ringraziano per la collaborazione Enrico De Angelis e Gennaro Gervasio

 

September 20, 2015di: Salama Kila per Critica Marxista*Arabia SauditaEmirati Arabi UnitiIraq,Qatar,Siria,Tunisia,Turchia,

Redazione

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