Nei giorni in cui ricorre il 5° anniversario della rivoluzione, torniamo in Tunisia. Dove le storie comuni ci raccontano di soprusi quotidiani, negazione della dignità, perdita di speranze. E di un concetto di cittadinanza rivendicato nelle piazze ancora tutto da costruire.
Proprio in questi giorni ricorre il quinto anniversario dall’avvio delle rivoluzione della dignità in Tunisia, quell’ondata di disordini sociali e politici che si è accesa nel dicembre del 2010 e che, come un detonatore, ha fatto scoppiare una potente reazione a catena che ha incendiato le società civili di tutto il mondo arabo in modo trasversale.
Abbiamo assistito ad un processo di risveglio popolare realizzatosi attraverso l’insorgenza contro i pluriennali regimi repressivi che, prima in Tunisia, poi in Egitto, seguiti da Libia e Yemen,hanno portato alle dimissioni, alla fuga e in alcuni casi persino alla morte dei longevi dittatori.
Senza dimenticare la Siria, tutti i paesi coinvolti dalle proteste del 2010-2011 hanno poi avuto una loro peculiare evoluzione, sviluppandosi con esiti e risultati diversi, seppure sia possibile ritrovare un bacino comune in cui reinserire tutti i protagonisti di questo movimento rivoluzionario epocale.
Purtroppo, questo punto in comune è rintracciabile, per la maggior parte dei casi in primis nel processo di recupero politico da parte della controrivoluzione, nella degenerazione dei conflitti interni, nel contraccolpo dovuto al rinvigorirsi dei movimenti islamisti e ad un sentimento generalizzato di delusione e aspettative disattese, spesso accompagnato da un clima sociale e politico repressivo e intollerante.
Ma adesso noi, qui, vogliamo parlare della Tunisia e raccontare del grande paradosso che rappresenta, cercando di ricollegare, almeno su carta, i due aspetti incompatibili, le due realtà del paese.
Utilizzando un’immagine di Mejri e Hagi, da un lato lo spazio da vedere, la costruzione della cartolina turistica della Tunisia rappresentata dal processo di transizione democratica riuscita e unica eccezione nella regione, recentemente vincitrice del Premio Nobel per la Pace.
Dall’altro lo spazio da vivere, il paese reale, alle prese con un anniversario amaro, all’insegna della più grande ondata repressiva post rivoluzionaria che rischia di far dimenticare le conquiste democratiche realizzate in questi anni e di cui la società civile tunisina rivendica ancora oggi l’applicazione reale in un ultimo disperato tentativo di salvare la rivoluzione.
Ancora una volta la repressione e il degrado crescente vissuto dai giovani vogliosi di cambiamento in Tunisia è rimasto lontano dai riflettori internazionali a vantaggio delle informazioni che celebravano l’immagine di un paese che, nonostante tutte le sue difficoltà (lo spauracchio del governo islamista prima, il terrorismo in espansione dopo), stava portando avanti il suo processo di transizione democratica.
Un processo in cui soprattutto l’Unione Europea ha investito politicamente ed economicamente per la democratizzazione – ed oggi per la sicurezza – e che non poteva risultare fallimentare.
Alcune storie comuni ci raccontano invece di soprusi quotidiani, di negazione della dignità, di perdita di speranze e di un concetto di cittadinanza rivendicato nelle piazze ma ancora tutto da costruire.
L’oppressione in cui la generazione della rivoluzione viene costretta a sopravvivere è emblematica di questa fase di grave involuzione sul fronte delle libertà. Che puzza di vera e propria vendetta verso coloro che hanno partecipato alla rivoluzione, dopo l’ondata di arresti e incriminazioni di giovani nel 2014 accusati di aver aver danneggiato beni materiali e stazioni della polizia durante le manifestazioni dei primi mesi del 2011.
Nella Tunisia dello stato di emergenza e del coprifuoco, misure eccezionali adottate in seguito al terzo, ultimo attentato che ha colpito il paese lo scorso 24 novembre, dopo gli attentati al museo del Bardo a marzo e al complesso turistico di Sousse a giugno, si è prodotta una deriva liberticida legittimata in nome della sicurezza e della lotta al terrorismo, identificato come pericolo principale, interno ed internazionale.
Ne consegue la strumentalizzazione della minaccia terroristica per giustificare leggi anti-democratiche e un’escalation di arresti e operazioni di polizia che sembrano più che altro finalizzate a mettere a tacere voci scomode.
Secondo un comunicato pubblicato il 5 dicembre dal ministero degli Interni, dall’inizio dello stato di emergenza, il 24 novembre, ci sono state 3000 perquisizioni che hanno dato luogo a 306 fra arresti e detenzioni (conteggio fino al 7 dicembre).
Ossia una media di 200 perquisizioni e 20 arresti al giorno.
Dal gennaio 2015 e fino alla fine del mese di novembre si contano 2934 arresti legati a fatti di terrorismo. E secondo una dichiarazione di Raoudha Grafi, presidente dell’Associazione magistrati, sono state avviate 1697 istruttorie legate al terrorismo nel 2015. Cifre da capogiro che, da una parte, instillano dubbi sulla loro fondatezza e veridicità, ma dall’altra spaventano, per la totale discrezionalità con la quale stanno agendo le forze di polizia.
Queste ultime, infatti, hanno praticamente carta bianca, godendo di poteri eccezionali e straordinari a causa dello stato d’emergenza (rafforzato fino alla fine dell’anno e prolungato per altri due mesi fino al 21 febbraio, da un annuncio del Presidente a qualche giorno dalla data che avrebbe dovuto sancirne la fine, il 23 dicembre).
Lo stato di emergenza, emesso per decreto nel 1978 a seguito di un sollevamento sindacale sotto Bourghiba, permette alle autorità di applicare la sospensione di manifestazioni, pubblicazioni e riunioni e l’avvio di perquisizioni, la requisizione di veicoli e arresti di tutte le persone sospettate di minacce all’ordine pubblico.
Questi poteri sono ulteriormente amplificati e tutelati nelle loro azioni indiscriminate dalla legge antiterrorismo, approvata a luglio di quest’anno. Con una definizione di “crimini terroristici” che lascia fin troppo spazio all’immaginazione, il Parlamento tunisino ha reintrodotto la pena di morte per i colpevoli di tali crimini e l’arresto per qualsiasi espressione di supporto al fenomeno terrorista, ivi incluso il potere assicurato alle autorità di trattenere i sospetti per 15 giorni, negando il diritto di accesso alla protezione legale e senza giusto processo.
In questo contesto si inseriscono le vicende di Adnen Meddeb e Amine Mabrouk, due giovani volontari dello staff per l’organizzazione del festival delle Journées Cinématographiques de Carthage, che il 28 novembre sono stati arrestati per aver violato il coprifuoco, non il primo ma sicuramente uno dei più rigidi mai vissuti in Tunisia.
Erano da poco passate le 21, inizio della fascia oraria coperta dal divieto di circolazione nel territorio del Grand Tunis, ma né il tesserino dello staff dell’organizzazione, né le appena concluse celebrazioni della giornata di chiusura del festival, né tantomeno un minimo di margine di tolleranza per la violazione del coprifuoco sono serviti a salvare i due ragazzi.
In seguito alla perquisizione del loro veicolo, infatti, la polizia ha accusato Adnen e Amine per la detenzione e il consumo di stupefacenti, per aver trovato un pacchetto di cartine corte, quelle solitamente usate per il tabacco da rullare e nessuna traccia di droga.
Il 1° dicembre, il Tribunale di prima istanza di Tunisi, ha condannato i due giovani artisti ad un anno di prigione e ad un’ammenda di 1000 dinari (circa 500 euro) sulla base dell’intenzionalità del consumo di stupefacenti e in assenza di analisi che provassero la loro “colpevolezza”.
Neanche una settimana dopo, l’8 dicembre, il Tribunale di prima istanza di Nabeul, emette la stessa sentenza di condanna per altri tre giovani e promettenti artisti tunisini: Ala Eddine Slim, cineasta e produttore indipendente, Fakhri El Ghezal, fotografo e Atef Maatallah, pittore.
Il 19 novembre, al momento dell’arresto, i tre si trovavano tra le quattro mura di una casa privata a Nabeul, quando un commando di 15 poliziotti massicciamente armati ha fatto irruzione nell’appartamento, arrestando i ragazzi con l’accusa di detenzione di stupefacenti.
L’azione di polizia, era stata inizialmente giustificata sotto il solito ombrello della minaccia terrorista, accusando Ala, Fakhri e Atef di essere membri sospetti di una pericolosa cellula jihadista, ma non avendo trovato prove per incriminarli, la polizia ha poi spostato l’accusa sulla detenzione di stupefacenti, senza comunque detenere alcuna prova materiale.
E’ così che tre artisti tunisini, conosciuti e rispettati a livello internazionale per i loro meriti artistici, nel loro paese natale vengono accusati ingiustamente e sbattuti in carcere.
Coerentemente con quanto avviene regolarmente, la presunzione di innocenza non viene rispettata. I tre giovani restano nelle mani della polizia per 6 giorni, senza diritto di visita né la possibilità di consultare un avvocato, quest’ultimo inconsapevole anche delle accuse a loro carico e impossibilitato ad accedere ai loro dossier. Dopo un mese di oscure pratiche poliziesche nel tentativo di trovare prove, i tre verranno finalmente liberati per vizio procedurale.
Come Adnane e Amine, anche Alaa, Fakhri e Atef rifiutano di effettuare il test delle urine, in nome della loro integrità fisica e negando le procedure umilianti e arbitrarie di questa legge “medievale”, come è stata definita da vari avvocati e organizzazioni dei diritti umani.
Questi, come tanti altri che purtroppo non godono dello stesso clamore mediatico, sono casi che parlano di vittime, di giovani tunisini accusati, spesso senza alcuna prova, del crimine di zatla (spinello, in tunisino) dalla Legge 52.
Legge repressiva risalente al 1992 e utilizzata dal regime di Ben Ali per liberarsi dagli oppositori politici, ha fatto esplodere il numero della popolazione carceraria senza dissuadere il consumo e aumentando i profitti del mercato nero (la Tunisia non è un paese produttore ma importa dal Marocco e dall’Algeria) e della corruzione legata alla vendita e come scappatoia alla sanzione penale.
Ma soprattutto questa legge intransigente che penalizza il consumo, la detenzione e la vendita di stupefacenti ha permesso abusi polizieschi, arresti arbitrari e torture. Si aggiunge che la legge non prevede nessuna attenuante di pena, né possibilità di condizionale, ma soprattutto è soggetta a interpretazioni diverse e che spesso giustificano accanimenti polizieschi anche nelle procedure di arresto, su cui la legge non specifica.
Ad oggi sono circa 8000 le persone detenute nel paese e condannate in base alla Legge 52.
Alaa Fakhri e Atef sono stati liberati grazie alla pressione mediatica forte nella capitale e negli ambienti artistici da loro frequentati. Ma lo stesso ragionamento non vale per i numerosissimi giovani che finiscono nelle galere decentrate del regime, nelle regioni interne, rimanendo vittime nell’invisibilità completa e dell’autocensura legata al tabù sociale.
Da tempo la Legge 52 è oggetto di feroci critiche da parte di organizzazioni dei diritti umani e movimenti cittadini spontanei che la denunciano come mezzo privilegiato per attuare il controllo sociale e reprimere ogni forma di libera espressione. E che ne chiedono l’abrogazione o una riforma integrale che ne rimetta in discussione il sistema.
Dopo le vacue promesse di riforma della legge che avevano animato la campagna elettorale delle legislative del 2014, sono oggi le forti mobilitazioni virtuali e reali prodotte negli ultimi mesi che forzano le autorità ad inserire nell’ordine del giorno del Consiglio dei Ministri del 30 dicembre prossimo una discussione sulla sua riforma. Ma la coalizione al potere ha partorito dopo un anno una modifica senza consultazioni e che viene giudicata debole e contraddittoria dall’avvocato Ghazi Mrabet, proprio perché, per fare un esempio, aggiunge la criminalizzazione del rifiuto di accettare le analisi delle urine, punita con un anno di carcere (Nawaat ne ha pubblicato la versione originale, qui).
Azyz Ammami, lui stesso incarcerato nel 2014 prima di essere stato liberato dopo il rifiuto delle analisi, definisce il progetto di legge “una formalizzazione della repressione”.
Per dare una panoramica quanto più completa su quanto sta succedendo in Tunisia, occorre denunciare anche la drammatica condizione della comunità LGBT. Negli ultimi mesi, si stanno moltiplicando i casi di arresti nei confronti degli omosessuali, perseguibili e perseguiti in nome della Legge 230 del Codice Penale, che punisce il reato di sodomia con tre anni di carcere e continua ad essere applicato arbitrariamente nonostante la sua dichiarata incostituzionalità.
A settembre 2015, la società civile tunisina ed internazionale si è indignata per l’arresto di Marwan, un giovane accusato di coinvolgimento in atti omosessuali e condotto con l’inganno in caserma per poi essere costretto a sottoporsi ad un test anale per provare la sua colpevolezza e poi condannato ad un anno di prigione.
L’accaduto è stato prontamente denunciato da Human Rights Watch, che ha dichiarato come la pratica dei test anali non autorizzati sia configurabile come un trattamento disumano e degradante che viola l’etica medica ed è stato riconosciuto come pratica di tortura dalla Commissione delle Nazioni Unite contro la Tortura e da altre Convenzioni sui diritti umani che la Tunisia ha ratificato.
A seguito di pressioni della società civile, il giovane è stato poi rilasciato con una riduzione della pena a due mesi di carcere che ha già scontato, quindi è tornato libero, seppure dovrà continuare a fare i conti con i danni psicologici di quello che ha vissuto e con la stigmatizzazione sociale.
Ma non c’è tempo di gioire per un successo che arriva puntuale un’altra condanna, un’altra violazione, un altro abuso.
Qualche settimana fa a Kairouan, nel centro del paese, sei studenti universitari tra i 18 e i 19 anni, sono stati arrestati per “atti omosessuali” all’interno della residenza universitaria. Il 10 dicembre sono stati tutti condannati in primo grado a tre anni di carcere e uno di loro con una pena addizionale di sei mesi per oltraggio al pudore, in seguito al rinvenimento di video di carattere omosessuale sul suo computer.
L’associazione DAMJ per il sostegno delle minoranze e Shams per la difesa dei diritti della comunità LGBT in Tunisia denunciano la durezza della pena inflitta ai sei ragazzi, condannati, dopo l’espiazione della loro pena, a cinque anni di allontanamento dal paese. L’associazione Mwjoudin per i diritti LGBT ha annunciato di intensificare la campagna di sensibilizzazione “On existe, on est criminalisé” (“Esistiamo, siamo criminalizzati”) contro l’articolo 230 del Codice Penale, la cui riforma sembra essere l’ultima delle priorità del governo in epoca di stato di emergenza.
Uno Stato paternalista e moralizzatore autorizza la violazione delle libertà individuali, dei diritti umani e della vita privata in nome dell’articolo 230 del Codice Penale, che criminalizza l’omosessualità, l’articolo 236, che criminalizza l’adulterio, della legge 57-3 che criminalizza la convivenza fuori dal matrimonio.
La polizia tunisina, che avrebbe dovuto divenire una polizia repubblicana dopo la rivoluzione, sembra ad oggi essersi trasformata invece in polizia morale. Con la complicità di un ministero degli Interni ancora in attesa di riforma strutturale dopo numerose promesse, ma anche di quello della Giustizia, responsabile di applicare e interpretare talvolta in maniera restrittiva e conservatrice le lacunose leggi esistenti, e di quello della Salute, responsabile dei test della vergogna (anali e di verginità).
Anche la libertà di circolazione viene presa in ostaggio in nome della lotta al terrorismo e ricorda la descrizione della Tunisia come un carcere a cielo aperto.
La restrizione sulla concessione dei passaporti era pratica usata estensivamente per limitare la mobilità dei cittadini e cittadine e per il controllo sociale durante il regime di Ben Ali e che ritorna oggi con forza.
Dopo l’attacco del Bardo numerose segnalazioni di limitazioni arbitrarie alla libera circolazione erano state denunciate dalla sezione locale di Human Rights Watch.
Ancora una volta vengono colpiti i giovani, ai minori di 35 anni viene richiesta un’autorizzazione parentale per lasciare il paese e viene ristretto il già limitato diritto di mobilità verso i paesi sensibili per il terrorismo.
E’ successo a Houssem Hamdi, ingegnere informatico appassionato di viaggi e natura, ennesima vittima dell’abuso delle autorità. Dopo aver subito pressioni ripetute e croniche da parte della polizia per presunti legami col terrorismo, mai verificati, gli viene impedito di viaggiare all’estero con il pretesto che i suoi spostamenti continui destano sospetto alle autorità e senza nessun appoggio giuridico. Dopo giorni di mediatizzazione e pressioni sul ministero degli Interni, quest’ultimo ha reagito scusandosi per l’errore amministrativo.
Un’ultima storia è emblematica per il suo sviluppo. E’ quella della giovanissima Afraa, la 17enne arrestata il 16 dicembre durante una manifestazione pacifica organizzata contro la distruzione del café “Boumakhlouf”, monumento appartenente al patrimonio storico e simbolo della città di El Kef, città nel Nord Ovest della Tunisia.
Viene poi liberata il 17 dopo aver comunque passato una notte in commissariato, da minorenne, e subito maltrattamenti e interrogatori, in attesa del processo il 31 dicembre, in cui è accusata di oltraggio a pubblico ufficiale.
Dopo il rilascio provvisorio e la pubblicazione da parte di Nawaat di un video con una sua intervista, una campagna di denigrazione a suo carico prende avvio, in particolare sui media e sui social network, che accusa la giovanissima attivista di aver rilasciato una testimonianza falsa e di aver accusato ingiustamente la polizia.
In fin dei conti Afraa ha avuto il coraggio di esporsi, ha osato parlare di violenze delle polizia, un coraggio di denunciare sempre più raro e prezioso. Poco dopo, un poliziotto diffonde un video di risposta in cui appaiono alcuni minuti dell’interrogatorio della giovane, per dimostrare che non avrebbe subito maltrattamenti. Quello che viene esposto pubblicamente con arroganza come giustificazione di un abuso non compiuto è invece una grave violazione delle forze dell’ordine e che dimostra in qualche modo il loro senso di sbandamento.
Alcuni giornalisti arrivano a definire la giovane Afraa come “pericolosa minaccia”, perché a loro avviso in epoca di terrorismo non si può costruire uno stato con l’insulto e l’attacco delle istituzioni, sorvolando su un arresto illegale e in piena contraddizione con il codice dell’infanzia.
Come a seguito dell’attacco di Soussa, questo approccio ricorda che la pericolosa deriva e servitù dei media tunisini al sistema è uno dei segnali nascosti di questa fase di recupero controrivoluzionario e di attacco verso gli attivisti della società civile, dei movimenti sociali e dei diritti umani.
In uno stato generalizzato di paura e autocensura, il terrore di denunciare gli abusi riconosce una certa amnistia alla polizia e alle pratiche inumane riprodotte che oggi sono legittimate con la scusa del terrorismo e dello spauracchio islamista.
Questo tipo di giornalismo è responsabile di contribuire indirettamente alla preservazione del regime poliziesco, consolidando e giustificando le pratiche illegali, arbitrarie e repressive verso una gioventù in cerca di cambiamenti reali.
Non è banale ricordare che l’umiliazione della gioventù riprodotta da decenni è una delle cause dell’emergenza del terrorismo. L’estrema barbarie del terrorismo in Tunisia è una concentrazione della violenza che risponde ad una violenza strutturale e diffusa nel tempo e meno visibile.
E quando una giovane come Afraa tende a rendere visibile questa violenza, ecco che scatta la ridicolizzazione e strumentalizzazione della sua persona, accentuata dal maschilismo imperante e virulento degli attacchi personali.
L’arroganza del sistema e l’apogeo delle forze controrivoluzionarie sono a ricordarci come i cinque anni di lotta per le libertà e i diritti non abbiano ancora prodotto i risultati sperati.
Come a voler spegnere gli ideali e le motivazioni, come a voler negare la lotta e infangare la memoria dei martiri, primo fra tutti Mohammed Bouazizi, l’ambulante tunisino che proprio il 17 dicembre del 2010 si diede fuoco a Sidi Bouzid, nel Sud della Tunisia, in segno di protesta contro i maltrattamenti e gli abusi subiti da parte della polizia.
Questi appena citati sono solo alcuni casi, eclatanti e recenti, di quello stesso paese che ad inizio ottobre è stato insignito del Premio Nobel per la Pace al Quartetto Nazionale delle organizzazioni della società civile (UGTT, sindacato generale dei lavoratori, Utica, il sindacato patronale, l’Ordine degli Avvocati e la Lega Tunisina per i Diritti Umani), per il loro contributo al processo di costruzione della democrazia dopo la rivoluzione del 2011.
Ma quale democrazia può esserci in un regime di polizia che reprime libertà e diritti? Quale aspirazione allo sviluppo economico e al miglioramento delle condizioni di vita può essere soddisfatto se lo Stato continua a fare investimenti irrazionali sul settore della difesa e della sicurezza?
Detto così potrebbe sembrare un’accusa imprudente, ma le condizioni di sicurezza in Tunisia, nonostante lo stato d’emergenza, il coprifuoco e tutte le misure eccezionali adottate ripetutamente nel corso di questo drammatico anno, purtroppo fanno acqua da tutte le parti.
Di fronte alle importanti lacune nella sicurezza del paese e ai continui attacchi terroristici, la deriva autoritaria non è la risposta. Il ritorno alle misure repressive del regime rappresentano solo una sconfitta agli ideali della rivoluzione, oltre che a una minaccia per lo sviluppo e la transizione democratica del paese.
Il ripristino dei vecchi metodi di repressione, prima usati in maniera sistematica ed estensiva ma con una visione politica che oggi sfugge e utilizzando quel sentimento di paura nel sistema poliziesco sono i segnali più allarmanti.
Le campagne mirate contro i giovani si riassumono nel sospetto generalizzato. Il blogger Azyz Ammami incita provocatoriamente “andiamo direttamente in prigione di nostra spontanea volontà, almeno smettiamo di preoccuparci se ci faremo arrestare ingiustamente o meno”.
La campagna sistematica che rende tutti sospetti asfissia la gioventù e richiama l’emergenza di vigilare il processo democratico, ingabbiato in dinamiche di (op)pressione sociale e generazionale che ricordano la situazione del 2010.
Per questo è ancora così importante continuare a denunciare e a stare col fiato sul collo alle autorità perché si adottino le riforme democratiche promesse, perché la Costituzione tanto celebrata di per sé non vale niente finché non si creano i meccanismi di peso e contrappeso necessari per uno Stato di diritto compiuto.
Le citate esperienze dei giovani incarcerati ingiustamente ci raccontano anche quanto la risposta e la costruzione dell’alternativa si stia giocando oggi su movimenti cittadini spontanei slegati dalle associazioni della società civile classiche e celebrate dal Premio Nobel per la Pace, pericolosamente scollate dalle istanze dei giovani e ingabbiate nel sistema dei finanziamenti internazionali, talvolta accusati di voler normalizzare il processo rivoluzionario.
La forte frammentazione sociale, regionale e generazionale che la rivoluzione non è riuscita a ricucire, ma che al contrario si è accentuata negli ultimi anni, resta una priorità da affrontare profondamente, per abbattere le frontiere fisiche e reali, le diseguaglianze nell’accesso ai servizi, al lavoro, alla sicurezza e soprattutto ai diritti.
*La foto pubblicata è di Malek Khadhraoui – Inkyfada
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