di Stefano Maria Torelli
Nel suo ultimo libro – L’alternativa islamica – il professor Massimo Campanini ricostruisce l’ultimo secolo dell’Islam politico, nei suoi aspetti più o meno radicali.
Dalla nascita della Fratellanza Musulmana alla Rivoluzione iraniana del 1979, che ha in parte ridisegnato l’ideologia politica dello sciismo, fino alla comparsa di al-Qaeda e agli attentati dell’11 settembre, le espressioni politiche dell’islamismo hanno avuto connotazioni diverse.
Proprio a causa della deriva terroristica di una parte – sicuramente minoritaria – dell’Islam, lo stesso islamismo sembra aver subito una caduta di immagine, che ha comportato un certo grado di diffidenza sia da parte di attori esterni, come l’Occidente, che di quei regimi arabi che si sono sentiti direttamente minacciati dalle diverse forme di Islam politico.
La “Primavera araba” ha creato quel vacuum che ha inaugurato una nuova stagione dell’Islam politico, smentendo quanti avevano prematuramente descritto le rivolte arabe del 2011 come la fase del post-islamismo.
E, nel nuovo panorama, nascono anche divisioni interne allo stesso ambiente dell’Islam politico.
Professor Campanini, si può affermare, dunque, che la chiave di lettura delle rivolte del 2011 quale momento post-islamista del mondo arabo, fosse fuorviante? Era prevedibile che le varie forme di Islam politico presenti nel mondo arabo potessero emergere come i nuovi protagonisti della fase successiva alla caduta di alcuni regimi della regione?
La tesi secondo la quale il mondo arabo vivrebbe in una fase di post-islamismo è stata formulata principalmente dallo studioso francese Olivier Roy (anche se è stata accolta da osservatori italiani come Michele e Yvonne Brondino).
Essa si basa sul presupposto che il fallimento dell’Islam politico (fallimento che si sarebbe manifestato già tra la fine degli anni Ottanta e i primi anni Novanta) ha convinto soprattutto i giovani musulmani a un ripiegamento religioso intimistico, spezzando quel legame tra impegno religioso e rivendicazione politica che aveva caratterizzato i primi passi del movimento islamista.
L’utopia dello stato islamico avrebbe perso il suo appeal e anche le metodologie per perseguire il cambiamento della realtà sociale sarebbero maggiormente sensibili a categorie esogene.
Roy sostiene coerentemente questa tesi fin dalla pubblicazione del suo celebre saggio “L’échec de l’Islam politique”. E evidentemente ha inteso applicarla anche ai protagonisti delle rivolte arabe, forse trascurando che le circostanze storiche erano mutate.
Non v’è dubbio che la tesi del post-islamismo contenga una parte di verità: di fatto, le rivendicazioni dei movimenti tunisini ed egiziani, della “rivoluzione dei gelsomini” e di “piazza Tahrir”, agli inizi non avevano nulla di specificatamente islamico.
Pane, giustizia e libertà erano gli slogan del tutto laici della piazza, intesi a trasformare il sistema politico dei paesi coinvolti e ad aprire spazi di partecipazione democratica.
Tuttavia, quando il movimento si è istituzionalizzato e si è incanalato nei binari, appunto, della rappresentanza istituzionale, l’Islam è tornato prepotentemente sul proscenio e i partiti islamisti moderati, in Tunisia come in Egitto (come in Marocco), hanno vinto chiaramente le elezioni, le prime libere e partecipate in quei paesi.
Le motivazioni del cristallizzarsi del voto popolare in senso islamista sono numerose e complesse, ma rivelano in maniera del tutto perspicua come il richiamo religioso abbia solide radici nell’opinione pubblica araba e che il wishful thinking di una secolarizzazione occidentalizzante in itinere delle società arabe debba probabilmente essere sottoposto a un processo di revisione o almeno di ripensamento.
Oltre a questioni meramente politiche e sociali (che hanno indubbiamente a che vedere anche con la più solida e strutturata organizzazione dei partiti islamisti nel tessuto sociale dei paesi coinvolti) hanno giocato elementi antropologici e di identità (l’Islam concorre potentemente a definire l’identità popolare dei tunisini, degli egiziani o dei libici) per cui, anche se le proporzioni della vittoria elettorale dei partiti islamisti è stata imprevista, sarebbe superficiale suggerire che questa vittoria elettorale sia stata del tutto inattesa.
A meno che, come spesso accade, si intenda proiettare sui paesi arabo-islamici le strutture mentali e concettuali dell’Occidente: visto che in Occidente, l’unico sistema politico sopravvissuto alla storia è quello democratico liberal-liberista, il liberal-liberismo non può che essere entusiasticamente abbracciato anche sull’altra sponda del Mediterraneo.
A questo proposito, è necessario sottolineare come i processi di cambiamento innescati dalle primavere arabe, consentendo ai partiti islamisti di giocare un ruolo decisivo nell’arena politica, aprano spazi interessanti di rielaborazione, specificazione e aggiornamento del pensiero politico islamico classico, che dovrà trovare risposte adeguate, sia pur attingendo ai suoi mezzi concettuali, alle sfide – del tutto attuali – della gestione dello stato moderno.
Tunisia, Egitto, Marocco: tutte realtà che, seppur con le proprie specificità, se non altro essendo paesi strutturalmente diversi, hanno visto l’ascesa dell’Islam politico nell’ultimo anno.
La diversità delle espressioni politiche dell’Islam in questi tre paesi deve essere fatta risalire al diverso percorso storico che le organizzazioni islamiste hanno avuto in ognuno di essi.
Sebbene sia forse possibile raccogliere sotto l’unico ombrello della Fratellanza Musulmana e delle sue ramificazioni regionali e locali le origini delle associazioni e dei raggruppamenti di islamismo politico che hanno visto la luce in Egitto, Tunisia e Marocco; tali associazioni e raggruppamenti hanno poi avuto destini diversi e diversa fenomenicità di rapporto col potere dominante.
In Egitto, la Fratellanza Musulmana ha vissuto un periodo di legittimazione e di coinvolgimento diretto nell’arena politica negli anni centrali della presidenza di Sadat (1970-1981) e nel periodo iniziale della presidenza di Mubarak (gli anni Ottanta), per poi essere nuovamente oggetto di persecuzioni e di esclusione.
Nonostante sia stata messa fuorilegge, non la si è sciolta anche perché la sua opposizione al regime di Mubarak è stata nel complesso morbida, riluttante o incapace a condurre una lotta sociale veramente incisiva.
La pregiudiziale dell’islamizzazione dal basso e la non volontà di giungere a uno scontro decisivo col potere hanno indotto la Fratellenza a tatticismi e a privilegiare la propaganda rispetto al jihad.
Ciò spiega sia il perché i Fratelli abbiano esitato a scendere in piazza immediatamente contro il ra’is nei primi giorni della protesta di piazza Tahrir, sia le motivazioni e le modalità del loro impegno politico quando hanno capito di poter cavalcare le proteste e i successivi sviluppi istituzionali (l’elaborazione della nuova costituzione così come l’elezione del nuovo presidente della repubblica) con l’obiettivo di accedere al potere.
In Tunisia, il Movimento di tendenza islamica, poi al-Nahda, sembrava avviato ad avere un ruolo politico nel primo biennio della presidenza di Ben ‘Ali, anche se in seguito è stato oggetto di una repressione durissima e spietata che lo ha costretto alla clandestinità.
Ecco perché il rapporto del movimento islamista tunisino col potere è sempre stato di opposizione e di scontro frontale, e al-Nahda si è manifestato fin dall’inizio come alternativo al regime (capitalizzando questa alternatività con la vittoria alle elezioni).
In Marocco, il movimento islamista è stato caratterizzato da due anime divergenti, quella moderata e che conversa col potere di Giustizia e sviluppo, e quella maggiormente radicale e dialettica di Giustizia e carità (il partito di ‘Abd al-Salam Yasin).
Giustizia e sviluppo è stato molto presto cooptato nel gioco politico, anche perché la legittimazione religiosa della monarchia di Hasan II e Muhammad VI può addirittura aver bisogno dell’appoggio di un partito islamista compiacente.
L’alternatività radicale di Giustizia e carità, invece, ha fatto assumere a questa formazione politica delle posizioni repubblicane, che dunque la pongono in opposizione frontale al re. È stato Giustizia e sviluppo a vincere le elezioni del 2011 e dunque a proporsi come fattore organico al sistema, mentre Giustizia e carità appare come irriducibile al gioco democratico come attualmente declinato in Marocco: le due organizzazioni hanno dunque obiettivi diversi che inevitabilmente condizionano le rispettive strategie.
L’Egitto sembra essere il banco di prova di quella che lei definisce l’alternativa islamica. Come si spiega l’apparente spaccatura interna tra l’elemento della Fratellanza Musulmana e quello cosiddetto salafita? In particolare, come si inquadra quest’ultimo attore all’interno del panorama politico del paese?
Ritengo che la spaccatura (probabilmente non insanabile) tra Fratelli Musulmani e salafiti in Egitto sia provocata dalla volontà che entrambe le associazioni hanno di egemonizzare l’opinione pubblica e il voto islamici.
Si tratterebbe insomma di un contrasto tattico più che strategico, visto che, almeno sulla carta, entrambi, Fratelli Musulmani e salafiti, mirano a realizzare lo stato islamico sulla base dell’applicazione, più o meno ideologica e radicale, della shari’a.
Per il momento, entrambi non enfatizzano in maniera insistita la questione dello stato islamico, ed anche questo ha il sapore di una scelta tattica determinata dalla volontà di non tagliare completamente i ponti con le forze che controllano la situazione interna, per esempio i militari, e di comprendere dove effettivamente si sta dirigendo la rivoluzione.
Ma non è escluso che i due possano trovare una intesa nel dettare i fondamenti della nuova costituzione. Molto dipenderà dall’esito delle elezioni presidenziali, cui, a quanto pare, non potranno partecipare i candidati rispettivi, Khayrat al-Shater per i Fratelli e Abu Isma’il per i salafiti. Le organizzazioni islamiche saranno perciò costrette e convergere su un candidato di compromesso.
Non vi è dubbio che l’emergere dei salafiti quale seconda forza politica dell’Egitto sia stata una sorpresa per tutti, ma evidentemente il processo di islamizzazione della società egiziana che va avanti dagli anni Settanta del secolo scorso è più pervasivo di quanto si sospettasse (e del resto, l’anima egiziana è essenzialmente conservatrice).
La stessa domanda potrebbe essere fatta per la Tunisia. In questo contesto, addirittura, l’elemento che potremmo definire più “radicale” sembrava del tutto assente, a vantaggio del movimento al-Nahda. Oggi assistiamo invece a manifestazioni di piazza che inneggiano alla shari‘a e a episodi di tensione interna di cui si sono resi protagonisti i cosiddetti salafiti. Si tratta di movimenti spontanei che nascono dal basso, come sembrerebbe a prima vista, o si può riscontrare ‘un’organizzazione’ dietro tali fenomeni?
L’aggressività dei movimenti salafiti recentemente apparsi in Tunisia contrasta con la strategia istituzionale di al-Nahda, e potrebbe potenzialmente portare a conflitti tra le due formazioni dell’islamismo.
Non saprei dire se i salafiti tunisini abbiano un’organizzazione talmente strutturata da poter costituire un’alternativa all’islamismo moderato di al-Nahda, ma certamente quest’ultimo ha le chances di poter interpretare il cambiamento e, ad un tempo, la stabilizzazione del quadro politico tunisino.
L’ultima domanda riguarda il rapporto tra l’islamismo di matrice sunnita e quello sciita. In molti affermano che il contesto attuale abbia favorito il primo sul secondo e che l’Iran e altre espressione dell’Islam politico sciita come Hezbollah in Libano siano in difficoltà di fronte all’emergere dei nuovi attori sunniti. Cosa ne pensa?
Sunniti e sciiti sono stati entrambi protagonisti del risveglio dell’Islam politico nel XX secolo. I loro percorsi, seppure fino a un certo punto ispirati da obiettivi simili, sono stati divergenti.
Gli sciiti hanno saputo costituire uno Stato (presuntivamente) islamico nell’Iran Khomeinista,e l’Iran khomeinista e post-khomeinista rappresenta tuttavia un punto di riferimento per organizzazioni potenzialmente rivoluzionarie come il libanese Hizballah.
Le circostanze storiche nel mondo sunnita sono state differenti e il messaggio sovversivo di Qutb è stato tradito dalle inclinazioni terroristiche di gruppi come Takfir w Hijra, al-Jihad e al-Qa’ida. Altre organizzazioni islamiche sunnite, come i Fratelli musulmani in Egitto e Giustizia e sviluppo in Marocco hanno poi scelto vie di partecipazione politica relativamente quietiste.
Perciò i destini dei due tipi di islamismo si sono diversificati. Non credo, pertanto, che si possa parlare di effetto reciproco dell’un movimento sull’altro o di esclusione dell’un movimento rispetto all’altro. Le caratteristiche dello stato islamico perseguito dai sunniti e dagli sciiti non coincidono né coincidono le strategie per arrivarvi.
Solo il futuro saprà dirci se l’Iran manterrà l’assetto teocratico che gli è stato imposto da Khomeini, o se i partiti islamisti nei paesi arabi sunniti sapranno interpretare islamicamente, dal punto di vista della dottrina e della prassi politica, le trasformazioni istituzionali incombenti.
April 23, 2012
Egitto,Iran,Libano,Marocco,Tunisia,Articoli Correlati:
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