“Polvere di diamante” di Ahmed Mourad, alla sua seconda prova letteraria dopo il successo di “Vertigo”, esplora il rancore e la rabbia che si sono accumulati nell’Egitto contemporaneo.
di Chiara Comito
Nelle notti della città che non dorme mai, Il Cairo, c’è chi invece di dormire cova sogni di vendetta, chi nasconde le proprie debolezze all’interno di camere buie, chi delinque protetto dal favore delle tenebre. Sono le notti di una città agitata, cullata solo dallo sciabordio delle acque del Nilo, in cui è ambientato il secondo romanzo di Ahmed Mourad, Polvere di diamante. Una città che, come l’Egitto, secondo Mourad perse l’innocenza nel 1954, quando il presidente Neguib venne deposto da Gamal Abd al-Nasser: il “peccato originale” da cui prendono avvio tanto la storia contemporanea dell’Egitto quanto la storia narrata in Polvere di diamante.
Come il precedente e fortunato Vertigo (Marsilio, 2012), anche Polvere di diamante è un thriller – giallo dall’animo pop ambientato al Cairo. Al contrario del primo però, in cui i buoni alla fine trionfavano, la trama di Polvere di diamante è molto più scura, decadente e sanguinosa ed è infarcita di lugubri becchini, corvi neri, cimiteri, poliziotti corrotti e politici avidi.
Il plot segue la vita di Taha Hussein al-Zahhar, giovane farmacista che proviene da una modesta famiglia di quella media borghesia strangolata dal regime di Mubarak. Taha vive in un umile appartamento nel quartiere di Doqqi insieme a suo padre Hussein, un ex insegnante di storia, la cui esistenza era stata stroncata a fine anni ’90 dall’ “affare Al-Rayan” che si era portato via tutti i suoi risparmi (e quelli di buona parte della media borghesia egiziana).
Per il dolore, Hussein era rimasto paralizzato ed era stato abbandonato dalla moglie: costretto a vivere su una sedia a rotelle e a guardare il mondo dalla finestra della sua camera, Hussein sopravvive covando rancore e propositi di vendetta verso un Paese che lo ha deluso e contro coloro i quali, secondo lui, hanno trascinato l’Egitto in una sorta di inferno dantesco fatto di corrotti, pervertiti e ladri.
L’unica convinzione che lo fa andare avanti è la massima secondo la quale “a volte siamo costretti a commettere piccoli errori per correggere errori più grandi” e una piccola boccetta di vetro contenente una polvere bianca impalpabile, la misteriosa e micidiale “polvere di diamante” del titolo.
Taha sarà coinvolto, suo malgrado, nella spirale di assassinii e vendette in cui è immerso il padre, diventando il simbolo della perdita dell’innocenza dell’Egitto, i cui peccati possono essere espiati solo a danno di tutta la comunità, dove nessuno è salvo perchè mai del tutto innocente.
Polvere di diamante si legge a rilento fino a quando, verso la metà del libro, il lettore apprende, stupefatto e sconvolto, l’inversione di rotta che Mourad fa compiere a Taha. Da allora, il romanzo segue le incredibili vicende di Taha in un crescendo di colpi di scena fatto di morti, veleni e ricatti che conduce il lettore ad un finale degno di un vero giallista. Un finale che, tuttavia, lascia un po’ l’amaro in bocca.
Alla sua seconda prova da scrittore, Ahmad Mourad, classe 1978, ex fotografo ufficiale di Mubarak di giorno e scrittore di gialli di notte, esponente della nuova generazione di letterati egiziani, convince il pubblico italiano, grazie anche all’ottima e scorrevole traduzione di Barbara Teresi, già traduttrice di Vertigo (anche se convince meno nella caratterizzazione di alcuni personaggi, stereotipati e sopra le righe, come Sara, la vicina di casa di Taha con cui il giovane intreccia una relazione sentimentale).
Il romanzo tuttavia è accattivante e incalzante: Mourad è un ottimo narratore, abile nei dialoghi, spesso molto coloriti e ironici, e nelle parti descrittive, che si diverte a piazzare qui e là nomi e riferimenti ad eventi presenti e passati: a partire dallo stesso nome del protagonista, in quello che sembra un omaggio al grande intellettuale egiziano Taha Hussein, fino al riferimento al personaggio del suo romanzo precedente, il giornalista “scomodo” Ala’, e a Palazzo Yacoubian di Alaa al-Aswani.
Fa capolino anche l’Italia, definita come “un paese pulito” [il sorriso è d’obbligo, ndr] verso cui fuggire rispetto ad un Egitto infestato dal cancro della corruzione. Infine, quasi per caso, spunta l’episodio che vede coinvolto un giovane venditore ambulante la cui bancarella di oggetti viene buttata all’aria da un poliziotto aggressivo, in cui si può riconoscere il riferimento al giovane tunisino Mohamed Bouazizi, diventato il simbolo dello scoppio delle rivolte nei paesi arabi.
Rispetto a Vertigo, il Mourad di Polvere di diamante sembra più disilluso sul futuro del proprio paese: “E’ questo paese, mio caro, che ce l’ha con noi, non noi che ce l’abbiamo con il paese!”.
Lo stesso Taha (o il suo autore?), stretto tra le angherie del piccolo boss di quartiere e il poliziotto corrotto di turno, ha poca fiducia nel cambiamento dal basso e preferisce farsi giustizia da sé per poi eclissarsi da tutto e da tutti.
“Il nostro non è uno di quei paesi in cui una manifestazione può cambiare le cose”, fa dire Mourad ad uno dei protagonisti.
Suona quasi come un nefasto presagio sui terribili eventi che l‘Egitto sta vivendo in questi giorni, ancora una volta vittima di quel peccato originale che si porta dietro dal 1954.
Polvere di diamante, di Ahmed Mourad (titolo originale: Tourab al-mass, pubblicato da Dar El-Shorouk, Il Cairo 2009).
Traduzione dall’arabo di Barbara Teresi
Marsilio, Venezia 2013; pp. 384; 18,50 euro
December 08, 2013di: Chiara ComitoEgitto,Articoli Correlati:
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