“Sarebbero 6.500 i militanti tunisini arruolati in Libia con lo Stato Islamico. Alla luce di questi dati possiamo ancora parlare di eccezione tunisina e celebrare l’unione contro Daesh, quando chi è in prima linea in questa guerra sono i figli della Tunisia?”. L’analisi di Héla Yousfi.
Il 9 marzo 2016 tutti i tunisini si sono trovati uniti durante la cerimonia di sepoltura dei martiri della Nazione caduti nell’attacco dello Stato Islamico (Daesh), avvenuto 2 giorni prima a Ben Guerdane.
Il sentimento di comunione è stato autentico e ha attraversato tutte le regioni, tutte le generazioni e classi sociali. I tunisini sono apparsi sollevati nel vedere gli abitanti di Ben Guerdane ribellarsi contro i “terroristi” di Daesh e dare prova della loro appartenenza alla “Nazione tunisina”, a dispetto della loro marginalizzazione da parte dello Stato centrale.
Improvvisamente coloro i quali erano considerati dei “delinquenti” dalle classi dominanti perché non avevano votato Nidaa Tounes (il partito attualmente al potere) alle ultime elezioni, sono diventati “gli eroi della Nazione”.
L’unità nazionale incarnata nello slogan “Siamo tutti uniti contro il terrorismo” e la vittoria dell’esercito, celebrata in pompa magna, sembra prevalere su dubbi e differenze. Si tratterebbe allora di una ulteriore prova dell’eccezione tunisina.
Ciònonostante, molte domande rimangono in sospeso: siamo veramente di fronte a un momento fondatore che permetta di costruire una vera unità nazionale?
Il fossato che è stato scavato fra l’élite politica e una buona parte del popolo tunisino all’indomani della partenza di Ben Ali, i discorsi politici che regolarmente hanno stigmatizzato il sud, accusandolo di tutti i mali della Tunisia; il fallimento delle élite nel dare una risposta realizzabile alle rivendicazioni della rivoluzione, l’aumento delle ineguaglianze sociali, la corruzione generalizzata: tutti questi parametri ci possono farci credere che la guerra contro Daesh basti a garantire la coesione nazionale e la stabilità del “modello tunisino”?
Recentemente il presidente della Repubblica Béji Caïd Essebsi spiegava ai tunisini, in occasione di una sua dichiarazione alla televisione nazionale, che “si tratta di un attacco senza precedenti, coordinato. Forse gli assalitori avevano come scopo il controllo della regione e la proclamazione di una nuova provincia “in nome dei gruppi estremisti”.
Poi proseguiva: “I tunisini sono in guerra contro tale barbarie e contro questi topi di fogna che stermineremo”, fingendo allo stesso tempo che questi “topi di fogna” non fossero figli della Tunisia (1).
Un selfie di giovani soldati a fianco dei corpi sanguinanti dei “terroristi”, nel disprezzo totale della dignità umana, è stato largamente condiviso sui social network per celebrare la vittoria dell’esercito. Ma allora come si può portare avanti una guerra contro un nemico talmente intimo e rallegrarsi nell’abbatterlo? E come siamo arrivati a questo punto?
Ben Guerdane è una città del sud-est della Tunisia, vicina alla frontiera libica nella quale si specchiano tutti i mali di un regime politico e economico che ha governato il paese per 60 anni. Marginalizzata sin dall’Indipendenza, Ben Guerdane vive di contrabbando, di commercio informale e più recentemente di traffico d’armi.
Nella zona si sono formate potenti reti nelle quali denaro, solidarietà tribali e clientelismo fra i funzionari statali giocano un ruolo importante nel funzionamento dell’economia locale. In assenza di una valida alternativa in grado di garantire lo sviluppo economico della regione, i poteri succedutisi hanno privilegiato il laissez-faire con lo scopo di mantenere un minimo di pace sociale.
Ma la guerra in Libia, la caduta di Gheddafi e l’indebolimento dello Stato tunisino hanno introdotto i jihadisti nell’equazione ed è a Ben Guerdane, e più in generale nel sud-est, che si organizzano le reti di reclutamento di jihadisti destinati all’Iraq e alla Siria.
Il 7 marzo 2016 gli assalti di Daesh diretti contro le sedi della Guardia Nazionale, della polizia e contro una caserma dell’esercito hanno provocato, secondo un bilancio definitivo, la morte di 36 jihadisti, 12 membri delle forze dell’ordine e 7 civili, fra cui una bambina di 12 anni. Sono avvenuti appena dieci giorni dopo la breve conquista della villa libica di Sabratha da parte dei combattenti di Daesh, a circa 100 chilometri dalla frontiera tunisina.
Questi assalti non sono i primi. Dalla rivoluzione del 2011 decine di agenti della Guardia Nazionale, della polizia e militari sono stati uccisi da assalitori armati, principalmente nelle zone frontaliere.
Al Museo del Bardo a Tunisi nel marzo 2015, 22 persone sono state uccise da un commando terrorista. A Sousse, nel giugno 2015, sono state abbattute 38 persone. I jihadisti tunisini in territorio libico sarebbero ad oggi fra i 5000 e i 6500.
Se gli analisti sono unanimi nello spiegare che il fenomeno del salafismo jihadista si è sviluppato negli anni ’90 sotto il regime di Ben Ali, tuttavia non si può negare come la caduta delle dittature tunisina e libica, il rapporto ambiguo di Ennahdha (il partito islamista al potere, in coalizione con il partito secolare Nidaa Tounes) con il movimento salafita, il caos provocato dall’intervento Nato in Libia nel 2011, l’indebolimento degli Stati e, per finire, la liberazione nel marzo del 2011, sotto il governo provvisorio di Beji Caid Essebsi, di 1200 salafiti, fra i quali 300 che avevano combattuto in Afghanistan, siano altrettanti fattori che hanno ampiamente permesso la proliferazione del fenomeno (2).
E’ utile ricordare come a 5 anni dalla Rivoluzione, se il dialogo nazionale ha assicurato un consenso permettendo la condivisione del potere fra la vecchia élite politica rappresentata da Nidaa Tounes e quella nuova islamista uscita dalle urne, le rivendicazioni della Rivoluzione sono rimaste quasi del tutto lettera morta.
La competizione politica ha fortemente indebolito le istituzioni dello Stato, con le ingiunzioni da parte dei finanziatori che, imponendo una nuova ondata di riforme economiche messe in opera dall’élite locale, hanno perpetuato, se non aggravato, le disfunzioni strutturali dell’economia tunisina e hanno ampiamente generalizzato la corruzione.
I tunisini si trovano quindi di fronte a uno Stato a due facce: autoritario, quando si tratta di reprimere i movimenti sociali e le libertà individuali e assente quando si tratta di dare una risposta alla crisi economica e sociale che attanaglia il paese.
Alla violenza della corruzione dell’élite governativa si aggiunge la violenza simbolica che si materializza nella normalizzazione di tutte le figure del passato regime e nel loro ritorno nello spazio pubblico, una normalizzazione che ha portato recentemente il portavoce del governo Khaled Chouket a reclamare il ritorno di Ben Alì.
In assenza di un progetto politico ed economico, le zone marginalizzate, le prime a essere interessate dal fenomeno jihadista, esprimono da tempo una sorda collera che avrebbe dovuto mettere in allerta l’insieme della società tunisina sulle attuali sfide.
I giovani disoccupati che si sono battuti contro le forze dell’ordine durante il sollevamento del dicembre 2010-gennaio 2011, che hanno scritto sui muri e gridato ovunque: “Per favore ascoltateci”, hanno cambiato radicalmente discorso. Che siano ora candidati all’emigrazione clandestina, che decidano di darsi fuoco, di arruolarsi in Daesh o di fare uno sciopero della fame per rivendicare il loro diritto a una vita dignitosa , tutti loro ripetono in coro “Siamo già morti”.
Il corpo diviene in questo modo l’ultimo campo di battaglia per resistere alla violenza fisica e simbolica che subiscono senza aver alcuna speranza.
Allo stesso modo Nassim Soltani, il cugino di Mabrouk Soltani, (il giovane pastore decapitato dai terroristi sul monte Mghila nel governatorato di Sidi Bouzid, nel centro del paese, zona diseredata e lasciata a se stessa, da un punto di vista economico ma anche securitario) gridava già la sua rabbia e la rabbia di molti giovani che vivono la sua stessa situazione, il 14 novembre 2015, in una trasmissione televisiva: “Sostanzialmente noi siamo tutti morti! Non abbiamo niente..io ho vent’anni, non ho mai visto un responsabile in visita nella regione. Non ho mai incontrato un responsabile!”.
Più avanti, aggiunge.”Nazione! Nazione! Io non conosco la Nazione se non nella carta d’identità nazionale”.
Due letture si contrappongono per cercare di cogliere la complessità di questa realtà terribile: la prima giunge a delle affermazioni essenzialiste che postulano che l’Islam è all’origine di tutti i problemi, venendo così a trovarsi in consonanza con le rivendicazioni islamiste le quali, per molto tempo, hanno reclamato che l’Islam era la soluzione di tutti i problemi economici e politici.
I partigiani di questa lettura, generalmente provenienti dall’élite autoproclamatasi “modernista”, si scrollano di dosso ogni responsabilità riguardo al fallimento collettivo che ha condotto a queste tragedie, imputando l’origine del male alla cultura popolare e affermando che l’unica e sola soluzione sia quella di “riformare l’Islam”.
La questione diviene allora quella di moltiplicare le azioni educative contro quella che chiamano “la cultura del terrorismo”, facendo astrazione dal contesto politico e sociale, così come da quello locale e regionale che hanno condotto a questo caos.
Al contrario, per i detrattori di una visione essenzialista dell’Islam, sono principalmente i fattori economici, sociali e politici che spiegano il fenomeno salafita-jihadista che la Tunisia sta conoscendo.
Essi mettono in evidenza come i candidati al jihadismo siano solitamente giovani fra i 15 e i 35 anni, per lo più disoccupati, che vivono nei quartieri poveri e nelle zone declassate dell’interno del paese. Questi giovani, per i quali ciò che offre la politica è ben inferiore alle loro aspettative, avrebbero scelto il salafismo jihadista per fabbricarsi una nuova identità che permetta loro di trascendere la terribile realtà in cui vivono.
In questa prospettiva la questione dell’influenza della religione non viene evocata, talmente sembra loro evidente come essa non sia pertinente.
Eppure, sebbene il jihadismo salafita sia un fenomeno planetario, il modo in cui i giovani candidati al jihadismo danno, in ciascun paese, un significato sia alla crisi sociale e politica che alle guerre coloniali che subisce il mondo arabo da decenni, rappresenta effettivamente un elemento radicato nell’immaginario collettivo storico e culturale locale.
Astenendosi da ogni opposizione che tenda a ridursi a una visione meccanicista degli effetti della religione sui comportamenti dei giovani salafiti da un lato, e dall’altro a una visione puramente “materialista” delle cause del fenomeno salafita-jihadista, le analisi di questo fenomeno acquisterebbero più spessore se si riuscisse a esplorare il modo in cui una realtà politica e sociale oggettiva si mescoli con alcuni riferimenti religiosi per formare l’universo di senso in seno al quale i comportamenti di questi giovani si producono e acquistano significato.
Per concludere, al di là della sfida intellettuale che pone il fenomeno salafita, la tragedia di Ben Guerdane ci invita a dare delle chiare risposte politiche a diverse domande: possiamo ancora correttamente parlare dell’eccezione tunisina ricompensata dal premio Nobel e vantarci della nostra condizione di bravi allievi democratici, in assenza di una qualunque alternativa economica e sociale?
Possiamo correttamente celebrare l’unione sacra contro Daesh, nel momento in cui quelli che sono in prima linea in questa guerra sono figli della Tunisia?
Possiamo seriamente continuare a bendarci gli occhi e credere che sia possibile instaurare una democrazia sostenibile mentre la Libia e tutta la regione subiscono una delle guerre più terribili fra diverse potenze regionali e occidentali?
Mentre l’élite di governo continua ad adottare la politica dello struzzo e prevede esclusivamente soluzioni securitarie, i recenti movimenti sociali del gennaio 2016 a Kasserine e in altre 15 regioni, rivendicanti lavoro e sviluppo regionale, continuano a radunare migliaia di cittadini.
Lasciano intravedere come sia permesso sperare, malgrado l’attrattiva esercitata da Daesh e/o dall’altra sponda del Mediterraneo. Mostrano come si continui a sfidare i governanti e permettono di constatare che la lotta per un mondo più giusto continua.
Una speranza assolutamente necessaria per far fronte all’offensiva economica e politica che subisce la Tunisia e più generalmente tutta la regione araba.
[1] Taher Gharabli, presidente del consiglio militare di Sabratha, aveva dichiarato che la maggioranza dei combattenti di Daesh che avevano attaccato la città erano tunisini.
[2] Tunisie: Violences et defies salafistes, Rapport Moyen-Orient/Afrique du Nord N°137 | 13 février 2013, International Crisis Group.
*Questo articolo è stato originariamente pubblicato su Nawaat. E’ stato tradotto in italiano da Patrizia Mancini e pubblicato da Tunisia in Red, che ringraziamo per la gentile concessione.
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