L’Egitto e il prestito FMI: due scenari a confronto

Dall’accordo con il Fondo monetario a una crisi economica che si fa sempre più grave. Se il negoziato non andrà a buon fine, l’Egitto rischia la bancarotta.

di Enrico Papitto

Nel gennaio scorso, a conclusione di una visita al Cairo di un funzionario del Fondo monetario internazionale, il governo egiziano si era impegnato a formulare un programma economico per raggiungere l’equilibrio del proprio bilancio statale.

Lo scorso 14 febbraio, il primo ministro Hisham Qandil ha annunciato che il suo esecutivo ha finalmente concluso l’elaborazione di un piano di riforme economiche da presentare all’FMI.

Lo stesso giorno, nel corso di una conferenza stampa, Gerry Rice, direttore del dipartimento delle relazioni esterne dell’organismo internazionale, ribadiva che un’eventuale missione al Cairo sarebbe stata subordinata alla presentazione del nuovo documento messo a punto dell’esecutivo egiziano. In quell’occasione, Rice precisava inoltre che il Fondo “fornirà assistenza finanziaria a un programma economico (…) che sia socialmente equilibrato e largamente condiviso in modo che possa essere attuato efficacemente”.

Tuttavia resta ancora da chiarire come questi auspici siano conciliabili con le misure di austerità necessarie affinché il prestito sia approvato.

L’economia egiziana sta infatti affrontando gravi difficoltà. Stando ai dati dell’agenzia statistica nazionale, solo nell’ultimo mese l’inflazione sarebbe salita al 6,3 %, e secondo il quotidiano The National i prezzi al consumo avrebbero raggiunto la quota più alta degli ultimi due anni.

La moneta è in continua svalutazione, e il livello delle riserve di valuta estera, secondo la Banca centrale, è calato fino a 13,6 miliardi di dollari.

Un ammontare appena sufficiente a coprire poco meno di tre mesi di importazioni.

A questo si aggiunge poi l’ulteriore impennata dei prezzi al consumo provocate dai tagli ai sussidi alimentari e all’energia, misure anch’esse necessarie ad ottenere la ‘fiducia’ dell’FMI.

David Goldman di Macrostrategy, sostiene che tali riforme si tradurranno in risparmi di bilancio solo a costo di imporre gravose difficoltà economiche a una popolazione che già vive al limite della sopravvivenza.

In un paese come l’Egitto, dove l’aumento dell’inflazione ha spesso provocato disordini e proteste sociali, le dure condizioni imposte dal Fondo rischiano di esasperare ulteriormente gli animi di una piazza che è ormai in continuo fermento.

Gli scioperi nelle fabbriche potrebbero sommarsi alle manifestazioni di strada, sconvolgendo così l’intero apparato produttivo del paese.

Dopo il 25 gennaio 2011, i lavoratori egiziani hanno già incrociato le braccia più volte: 1.400 gli scioperi nel 2011 e 3.400 nel 2012, oltre 2/3 dei quali indetti dopo l’insediamento di Morsi alla presidenza.

Il movimento di protesta dei lavoratori, scrive Joel Beinin su Middle East Report, potrebbe bloccare l’implementazione del piano economico concordato con l’FMI. Morsi “non ha un mandato per portare avanti un programma di austerità, che sarà impopolare e molto probabilmente provocherà un aumento degli scioperi e delle proteste dei lavoratori”.

Per arginare la crisi il governo egiziano sta esplorando tutte le possibilità ‘utili’ ad ampliare le finanze pubbliche.

La settimana scorsa il ministro della Giustizia ha annunciato misure tese a facilitare il rientro di quegli imprenditori che hanno lasciato il paese per sfuggire ad accuse di corruzione, garantendo loro l’immunità.

Allo stesso tempo si sta percorrendo la strada degli “accordi di riconciliazione” con personaggi compromessi con il regime di Mubarak, per consentire il ritorno di ingenti capitali. Presso la Banca centrale egiziana sono stati già aperti due conti bancari per “fondi da recuperare”.

Il ministero degli Investimenti ha poi adottato una serie di misure per incentivare l’emersione dell’economia sommersa. Il ministro Osama Saleh ha dichiarato che “in Egitto il lavoro nero è stimato in circa il 50% della forza lavoro”, aggiungendo che il suo dicastero è già riuscito a far emergere circa settanta compagnie attraverso incentivi per investimenti e progetti.

Sforzi che, tuttavia, non sembrano sufficienti a sanare un deficit di bilancio in continua crescita, stimato in 13,65 miliardi di dollari, pari al 5,1% del Pil, e tale da rendere il prestito del FMI un’impellenza sempre più urgente.

Qualora il negoziato con il Fondo fallisse, il primo ministro Qandil ha annunciato che il governo ha già preparato un programma economico alternativo, i cui dettagli non sono stati resi noti. Un’opzione che, però, farebbe perdere al paese numerose opportunità di finanziamento dall’estero.

Se approvato infatti, il prestito rappresenterebbe una garanzia da parte dell’FMI sullo stato dell’economia egiziana, e questo dovrebbe incoraggiare il ritorno degli investimenti internazionali e sbloccare numerosi finanziamenti attesi da parte di altri paesi e istituzioni.

Secondo le stime recentemente riportate in un articolo dell’Egypt Independent, il Cairo attende il via libera per ricevere 14,5 miliardi di dollari: 6,3 dall’Unione europea, un miliardo dagli Stati Uniti e 500 milioni dalla Banca africana dello sviluppo.

A fare le spese di questa situazione di incertezza è anche la comunità imprenditoriale: la compagnia pubblica EGPC, che si occupa di raffinazione e distribuzione del petrolio, è in attesa di un prestito di 2 miliardi di dollari da parte di Morgan Stanley e JP Morgan. Soldi che non saranno erogati finché non sarà concluso il negoziato con l’FMI.

Nel frattempo il Qatar è giunto in soccorso del governo egiziano, stanziando 5 miliardi di dollari che hanno evitato (momentaneamente) il collasso delle disastrate casse statali.

Tuttavia secondo gli economisti, anche qualora l’emiro al Thany fosse disposto a soccorrere nuovamente l’Egitto, i soli aiuti della monarchia del Golfo non sarebbero comunque in grado di ristabilire la fiducia internazionale nell’economia egiziana.

Un’arma a doppio taglio, quella del prestito del Fondo: senza il quale l’Egitto rischia seriamente la bancarotta, ma che prevede politiche di austerità tali da peggiorare le condizioni economiche della popolazione.

John Dizard, dalle pagine del Financial Times, avverte: “Entro la prossima estate, l’Egitto non avrà più riserve estere per coprire un livello già inadeguato di importazioni alimentari e di energia”. La conseguenza, prosegue Dizard, sarà una crisi di rifugiati di dimensioni enormi, con la quale anche l’Europa dovrà fare i conti.

19 febbraio 2013

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