A lesbo, in Grecia, dove ad accogliere i migranti non ci sono le istituzioni, ma attivisti e volontari.
Dal 2 al 9 gennaio scorsi una delegazione di 9 volontari dell’organizzazione Un ponte per… è andata a Lesbo, in Grecia, dove da mesi gli attivisti autogestiscono l’emergenza umanitaria. Accogliendo gli sbarchi di chi fugge da Siria, Iraq e Afghanistan. Questa è una pagina del loro diario.
Lesbo: isola greca di fronte alla Turchia, ma soprattutto anticamera di quell’Europa che per chi fugge dalla guerra, dalle persecuzioni e dalla miseria rappresenta spesso l’unica possibilità di salvezza.
La prima tappa forzata di un crocevia per centinaia di migliaia di siriani, iracheni, afghani, ma anche nordafricani, pakistani, bengalesi, iraniani, che una volta superato il controllo appaltato ad Erdogan dall’Unione Europea, decidono che vale la pena tentare.
Vale la pena avere una seconda chance.
Vale la pena fuggire da una guerra che non hanno voluto e che sta devastando milioni di vite. Vale la pena imbarcarsi anche con il mare in tempesta, rischiando la propria vita e quella dei propri cari, perché oltre quella traversata c’è forse l’unica alternativa ad un futuro che non ha più nulla da offrire.
Siamo partiti perché volevamo vedere con i nostri occhi quanto grande fosse il portato di questa crisi umanitaria, e per raccontare una storia diversa da quella che viene offerta nel dibattito politico italiano ed europeo.
Una storia fatta da uomini e donne che, nonostante tutto, decidono di restare umani.
Se da una parte le istituzioni municipali dell’isola, il governo greco e la governance europea cercano di porre un freno a questo flusso umano, mascherandosi dietro problemi di natura securitaria, dall’altra volontari indipendenti e piccole Ong si adoperano quotidianamente per soccorrere, accogliere e in certi casi sostituirsi ai meccanismi istituzionali.
Meccanismi che escludono dal sistema di accoglienza migliaia di migranti sulla base di una selezione etnica, o con la pretesa di valutare se le motivazioni che li hanno spinti a fuggire siano valide o no, di decidere se la presenza di un essere umano in questo o quel territorio sia legale o meno.
Ci sono volontari che lavorano nei campi, nei magazzini, che si coordinano tra di loro portando da una parte all’altra dell’isola ciò di cui si ha maggior bisogno.
C’è tra di loro chi passa giorno e notte aspettando segnalazioni di SOS dai barconi in arrivo per poi correre freneticamente da una parte all’altra della costa con torce, coperte ed acqua per poterli soccorrere.
Ad attendere queste persone in fuga non ci sono istituzioni democratiche pronte a dar loro il benvenuto o a preoccuparsi di come un diritto sancito dalle Convenzioni Onu venga rispettato. Non ci sono presidi medici o ambulanze. Non c’è neanche la polizia.
Ci sono solo i volontari.
Sono loro che si gettano in mare per segnalare il miglior punto di attracco. Loro che si preoccupano di soccorrere uomini e donne stanchi e vulnerabili, bambini terrorizzati, anziani impossibilitati anche a scendere da soli dai gommoni.
Tutto sotto lo sguardo vigile dei radar di Frontex, posti sulle alture adiacenti alle spiagge. Loro controllano, come un grande fratello che non si scomoda, chiude un occhio e non muove un dito. Nemmeno in caso di naufragio.
Padri e madri che ringraziano dio per avercela fatta, che abbracciano i bambini per rassicurarli, che sperano in cuor loro sia tutto finito. Ma non è così.
L’Europa dell’austerity, delle sanzioni economiche, che finanzia guerre ed erge muri in nome di quei valori democratici che dice voler difendere, è più preoccupata ad attivare sistemi di controllo che di accoglienza.
A seconda della provenienza ci sono differenti meccanismi di registrazione, e differenti tempi di permanenza nei campi.
C’è chi aspetta per giorni, chi per mesi, chi non ha trovato riparo nelle strutture istituzionali organizzate e vive in tenda in quelle autogestite. C’è chi è già stato rimpatriato ed è al suo secondo tentativo; chi non ha voglia di raccontare e non si capacita di non poter proseguire il viaggio.
E poi c’è chi ha in mano un foglio di via (scritto in greco) ed è convinto che tra pochi giorni potrà lasciare l’isola e raggiungere la famiglia in Svezia.
Nessuno dei pretesti utilizzati dai nostri governi può giustificare il mantenimento di una simile condizione umanitaria. Non c’è crisi economica, mercato del lavoro o rischio infiltrazione terroristica che tenga.
Come se Daesh, forte dei miliardi di dollari guadagnati a seguito di scambi commerciali con ben più conosciuti partner internazionali, Europa compresa, inviasse tagliagole sui gommoni.
L’unico scontro di civiltà in atto a Lesbo è tra chi ritiene la presenza di esseri umani un problema da declinare in termini economici e di pubblica sicurezza, e tra chi invece considera la solidarietà, l’accoglienza e la cooperazione come valori umani imprescindibili in qualsiasi condizione e in qualsiasi momento storico.
*Giacomo Capriotti, volontario di Un ponte per… a Lesbo.
January 14, 2016di: Giacomo Capriotti – Un ponte perAfghanistan,Iraq,Siria,
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