Intervista al regista libanese Wael Noureddine. Artista controverso, “osteggiato” in patria, premiato all’estero. Attraverso i suoi film, ci racconta del suo rapporto con il paese, la politica, la religione e le droghe.
testo e foto di Giacomo Galeno da Beirut
Qual è stato il percorso che ti ha portato a incontrare l’arte cinematografica?
È dal 2000 che giro dei film. Ho frequentato alla Sorbonne, facoltà di Storia dell’arte. Più o meno regolarmente, ho vissuto a Parigi tra il 2002 ed il 2010.
Ho studiato in Francia perché in Libano la maggior parte delle università sono gestite da istituzioni religiose (ad esempio i gesuiti) e sono molto costose e nonostante mio padre sia professore universitario, la mia famiglia non poteva permettersi di pagare la retta in una università libanese.
Andare a studiare a Parigi è stata una soluzione paradossalmente più economica. Inoltre stare all’estero è stata un’ottima opportunità per evitare di intraprendere lo stesso percorso riservato ai diplomati libanesi che escono dagli studi di cinema e finiscono per fare i tecnici in televisione.
Inoltre gli elevati costi delle rette selezionano automaticamente una certa classe sociale che ha accesso agli studi, ricchissima, snob e vuota. Uno scenario deprimente!
Cosa pensi del cinema libanese e dei tuoi colleghi?
Non voglio nominarli per non fargli della pubblicità, ma sono tutti benestanti, ricchissimi di famiglia e allineati con l’establishment.
Gli artisti in Libano sono spesso figli di qualcuno: l’investimento artistico delle fortune capitalistiche della famiglia. Con questo non voglio dire che non ci siano buoni talenti, ma la maggioranza appartiene alla categoria che ho appena descritto.
Perché hai scelto il cinema? Per passione?
Ho scelto di studiare cinema perché penso sia un mezzo espressivo completo. Ho iniziato a lavorare come giornalista a 18 anni per an-Nahar (quotidiano libanese, ndr).
Questo mi ha dato la possibilità di sperimentare due forme di espressione: la scrittura e la fotografia. È così che sono arrivato alla conclusione che l’audiovisivo era un mezzo di espressione molto più efficace e completo.
Non ho mai utilizzato l’audiovisivo come giornalista, all’epoca prediligevo la fotografia. Nel 1996, durante l’operazione israeliana nel sud del Libano “Grapes of Wrath” sono stato il primo a fare le foto. Ero giovane ed incosciente, ho preso la mia macchina, una Zenith, e sono partito verso il sud.
Mi avevano soprannominato Wael Katyusha (dal nome dei missili di fabbricazione sovietica) perché ero stato il primo, in quel conflitto, ad averli immortalati. In quell’occasione ho anche conosciuto Gebran Tueni (direttore di an-Nahar), l’ho incrociato nell’ascensore e gli ho dato gli scatti.
L’indomani erano in prima pagina. Se ripenso a quel periodo mi vengono i brividi, dovevo essere pazzo. Mi ricordo che ero con un’altra giornalista libanese, abbiamo preso la sua macchina e mentre eravamo in viaggio ci siamo trovati davanti ad una bomba inesplosa che ci sbarrava la strada.
Siamo scesi dalla macchina, la bomba era priva di detonatore. L’abbiamo spostata in due ed abbiamo proseguito con la macchina. Siamo stati fortunati.
Fino a quando hai lavorato come giornalista?
Dal 1996 al 2000 più o meno. Poi ho fatto un anno di servizio militare. Lì ho veramente capito che volevo lasciare il paese. Non lo sopportavo più. Volevo andare in esilio volontario e girare dei film. Quindi nel 2001 sono andato a Parigi per studiare cinema.
Volevo fare un cinema politico e poetico. Ho fatto il mio primo cortometraggio nel 2001, intitolato “Chez nous à Beyrouth” (Da noi a Beirut), nel quale parlo della condizione in cui ci trovavamo io ed i miei amici.
Volevamo lasciare il paese, ma non potevamo per mancanza di mezzi e di visti per altri paesi. Il corto ha avuto un buon successo internazionale, ha partecipato a diversi festival in giro per il mondo ed è stato acquistato dalle mediateche di Parigi e di Bruxelles, ma a Beirut la casa di produzione che lo ha prodotto non voleva proiettarlo per una scena di nudo!
Questo è il livello, la gente non vuole fare cinema, vuole solo diventare famosa, andare ai festival e bere champagne, ma il risultato artistico è della “tappezzeria colorata”.
Non vogliono fare un cinema che disturbi. Le persone che controllano il cinema a Beirut sono mediocri. Con questo non voglio dire che io sia un genio, ma questa è la situazione a Beirut.
Mai avuto problemi di censura?
Ho avuto problemi di auto-censura. Ogni volta che ho fatto un film, anche se questo era proiettato in kermesse in tutto il mondo, qui in Libano ho sempre avuto problemi da parte di coloro che decidevano le programmazioni dei festival, e spesso sono stato messo fuori dal cartellone all’ultimo momento.
Ho all’attivo sei film (tra corti e medio metraggi) che sono stati proiettati a Locarno, Cannes, New York, ma mai a Beirut.
Ci puoi parlare dei tuoi film?
Come dicevo, ne ho fatti sei: “Chez nous à Beyrouth” (Beirut, 2001), “From Beirut with love” (Beirut, 2005), “July trip” (Sud del Libano, 2006), “A film far beyond the God” (Yemen, 2007), “Éloge de la raison” e “L’histoire de la drogue” (tra il 2007 ed il 2008).
“From Beirut with love” è il seguito naturale di “Chez nous à Beyrouth”, è la storia dello stesso gruppo di giovani intrappolati in Libano per mancanza di soldi e di visti d’ingresso per altri paesi e che sono costretti a scegliere tra la religione e il suicidio.
Scelgono l’eroina, dunque il suicidio. Il film l’ho girato nel 2005 l’anno dell’attentato a Rafiq Hariri.
La prima sequenza l’ho girata sul luogo dell’esplosione pochi minuti dopo. Nel 2006 stavo preparando un film sulla divinità pre-islamica della Mecca (che realizzerà più tardi in “A film far beyond God”, ndr), quando è scoppiata la guerra con Israele.
Sono tornato da Parigi e sono andato a Damasco, perché l’aeroporto di Beirut era stato bombardato nei primi giorni del conflitto, e mi sono diretto ancora una volta nel sud dove si stavano verificando la maggior parte delle operazioni militari. È così che è nato “July trip”.
Dovevo tornare a filmare la guerra perché sapevo benissimo che gli altri artisti libanesi dell’audiovisivo non lo avrebbero fatto.
“July trip” è stato l’unico film girato durante la guerra del 2006. Ero sotto le bombe. Non ho fatto un film sulla guerra, ma un film con la guerra. Come diceva Erich Maria Remarque “non si può fare un film sull’amore, ma un film con l’amore”.
Come ti sei rapportato al tema della guerra?
L’ho approcciato come ho potuto perché la mia testa aveva assorbito tutti i prodotti chimici a cui avevo accesso (ride).
Quello che mi disturbava della guerra erano i giornalisti. Anch’io ero stato giornalista e sapevo come avrebbero trattato il tema.
Per i giornalisti si tratta di business, arrivano quando c’è il cadavere, ma il pubblico non vede mai il fuoricampo. Quello che volevo proporre nel mio film era proprio questo, il fuoricampo della guerra.
Non solo quello dei giornalisti, ma certamente anche il loro: come si gettano sui corpi per fotografarli, come raccontano gli avvenimenti senza nessuna morale, insomma come fanno il loro lavoro.
Li pagano e loro eseguono: sono dei mercenari. Mi ricordo che i giornalisti erano tranquilli seduti a fumare il narghileh lontani dal pericolo e quando andavano in onda mettevano il loro giubbotto anti-proiettile.
Per un cineasta è diverso, la differenza d’approccio fra un giornalista e un cineasta è anche un aspetto tecnico: il primo è meno libero perché più condizionato dal datore di lavoro, dalla linea politica della redazione, dal formato del prodotto.Un cineasta non deve rispondere a nessuno se non alla propria onestà intellettuale.
Per questo ho deciso di non fare più il giornalista. Mi sentivo una prostituta.
Per tornare al fuoricampo, mi sono filmato, ogni tanto ho girato la camera verso di me per mostrare alla gente le droghe che ho dovuto assumere per poter resistere alla puzza di cadavere, al tuonare dei bombardamenti. Posso assicurare che la puzza di cadavere è una cosa davvero insopportabile!
Quanto sei rimasto ‘in guerra’?
Sono rimasto più o meno un mese, per tutta la durata delle operazioni militari. Ero solo, con le mie macchine da presa.
Ho dormito un po’ dappertutto, all’inizio avevo dei soldi quindi ho dormito in un alberghetto, poi in macchina.
Ho lavorato come traduttore per alcuni giornalisti lì sul campo, per avere qualche soldo. Era molto difficile trovare della benzina, si comprava al mercato nero.
La popolazione era infastidita dalle camere da presa, pensava che fossi una spia. Sono stato aggredito più volte, ma sono riuscito a salvare il materiale (camere, pellicola, ecc.). Non capivano che in un certo senso volevo preservare la loro dignità. Fare questo film era un dovere morale.
Nel 2007 quindi sei partito per lo Yemen per girare “Far beyond God”.
Nel mondo arabo il periodo pre-islamico è definito come “al-jahiliya” (ignoranza). Mi ha sempre dato fastidio questa definizione.
Volevo fare un film su questo periodo del mondo arabo per riabilitarlo e smentire questa definizione di “ignoranza”.
Volevo raccontare della divinità araba pre-islamica, Hubal, Dio del sole e della luna, Dio dei poeti. I suoi seguaci, da tutta la penisola arabica, raggiungevano l Mecca, per rendere omaggio alla Kabaa, proprio come i musulmani fanno ora. È un rituale più antico dell’Islam.
Perché lo Yemen?
Perché era impossibile fare una cosa del genere in Arabia Saudita con il regime wahhabita che costringe i suoi abitanti ai dettami dal testo coranico.
Sono i wahhabiti tra l’altro che hanno distrutto i resti di questo periodo (pre-islamico). Anzi hanno fatto di peggio: hanno pagato degli archeologi per fare delle ricerche e poi distruggere ciò che trovavano. Lo scopo era quello di distruggere tutto ciò che non rientrava nella dottrina che volevano imporre.
Qual è l’obiettivo dei tuoi film, se ce n’è uno?
L’obiettivo è quello di svegliare lo spettatore, di spingerlo a riflettere e di non trattarlo come uno stupido. Credo ai film che parlano all’intelligenza dello spettatore piuttosto che a quelli che lo rimbambiscono. Questo tipo di arte è la droga più pericolosa, che ti fa smettere di pensare.
Stai lavorando a un altro film?
Si, ho girato un film che devo montare non appena riesco ad andarmene dal Libano, si chiama “Orgasm in the world’s face”, ma non è un film erotico.
È una storia d’amore tragica, un riadattamento de “I Demoni” di Dostoevskij. In realtà non c’è narrazione, nel senso tradizionale del termine, non amo i film narrativi.
È la storia di una coppia di amanti che si uccidono l’un l’altro mentre organizzano un colpo di stato.
December 11, 2012
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