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Libano. L’omosessualità non è più una malattia (ma resta reato)

L’Association Libanaise de Psychologie (ALP) assume una posizione nei confronti dell’omosessualità: non è una malattia, né un disturbo psichico. Un passo importante per un paese in cui le persone omosessuali rischiano ancora molto.

 

L’Association Libanaise de Psychologie (ALP) nei giorni scorsi ha preso una posizione chiara sull’omosessualità: “Non è una malattia mentale e dunque non necessita di un trattamento medico”. L’annuncio arriva a una settimana di distanza da una dichiarazione. sullo stesso tono, fatta da un’altra associazione medica, la Société Libanaise de Psychiatrie (SLP).

Prese di pozione importanti che vanno iscritte nel contesto di un paese per il quale l’omosessualità, oltre ad essere socialmente considerata come una deviazione, viene classificata anche come reato penale.

Nella medesima direzione si era mossa due mesi fa la LebMASH – Lebanese Medical Association for Sexual Health – che per la prima volta aveva negato la natura di ‘disturbo psichico’ dell’omosessualità esprimendosi contro il cosiddetto metodo SOCE, Sexual Orientation Change Efforts. 

Nella dichiarazione si leggeva: “Nella società libanese gli omosessuali continuano a doversi confrontare con discriminazioni e pregiudizi. Questi atti discriminatori si estendono al di là del grande pubblico includendo anche alcuni lavoratori del settore della Sanità che ancora oggi continuano a prescrivere ‘terapie di conversione’ o ‘riparatrici’ il cui obiettivo è quello di far cambiare l’orientamento sessuale di determinate persone”.

Le teorie di “conversione” o “riparatrici” sostengono che l’omosessualità sia una malattia e che il “paziente” omosessuale, in quanto tale, possa essere curato. In passato la cura prevedeva interventi distruttivi come lobotomia o elettroshock mentre in tempi più recenti si raccomandava un percorso di psicanalisi e terapie di gruppo.

Anche l’universo medico internazionale ha avuto delle difficoltà ad accettare l’idea dell’omosessualità come condizione naturale dell’essere umano. Come ricorda la LebMASH nel suo comunicato, solo nel 1973 l’American Psychiatric Association ha affermato che l’omosessualità non è una malattia, e solo a distanza di trent’anni, nel 1990, anche l’Organizzazione mondiale della sanità si è adeguata a questa posizione.

 

La discriminazione prosegue…

I trattamenti discriminatori riservati alle persone omosessuali sono ad oggi ancora molto diffusi in Libano. Dal punto di vista legislativo il loro status non è chiaro né tutelato e il sentimento popolare che prevale nei loro confronti è ancora quello della condanna e del rifiuto.

Per quanto il Libano venga considerato come uno dei paesi più liberali del Medio Oriente e la comunità omosessuale qui inizi a diventare visibile, con locali e bar gay-friendly che nascono nella capitale, l’omosessualità è ancora considerata fuori legge.

L’articolo 534 del Codice penale libanese dichiara  illegali tutti gli atti sessuali classificati “contro-natura”, non specificando tuttavia che cosa si intenda con questa definizione.

In base a questo quadro legale, sono numerosi gli episodi in cui la polizia libanese effettua retate. L’ultima, fra le più eclatanti, si è verificata la scorsa estate nella periferia povera della capitale quando furono arrestati 30 uomini all’interno di un cinema considerato ritrovo per persone gay. Dopo l’arresto  tutti furono sottoposto ai “test dell’omosessualità”, consistenti in invasive ispezioni anali. 

All’indomani di quell’episodio erano stati di nuovo i medici ad insorgere sostenendo che queste pratiche rappresentassero “eresie scientifiche” perché non sorrette da alcuna ipotesi plausibile. Nell’agosto scorso dunque il sindacato dei medici libanesi aveva dichiarato illegali i test, ufficializzando questa presa di posizione nell’art. 3 nel proprio Codice deontologico.

A distanza di un anno quanto è cambiato? A guardare la situazione attuale si può ragionevolmente affermare: poco o nulla.

Per quanto riguarda i test, la presa di posizione dei medici non ha avuto seguito sul versante legale. Il ministro della Giustizia Shakib Qortbawi l’agosto scorso, aveva dichiarato di aver già lanciato una moratoria in tema.

La direttiva diffusa in seguito stabilì che le ispezioni anali possano essere compiute solo con il consenso dell’imputato e in accordo con le procedure mediche, in modo da non provocare danni fisici. A questo si aggiunge che l’imputato deve essere informato che il fatto di rifiutarsi di sottoporsi a questo esame sarà considerato “prova del crimine commesso”.

Quello che invece avviene all’interno delle caserme una volta che una persona viene fermata per il reato di omosessualità è raccontato da Human Rights Watch. È del mese scorso infatti un rapporto dell’Ong che denuncia i maltrattamenti perpetrati dall’ISF – Internal Security Forces – nelle caserme libanesi a danno di alcuni gruppi particolarmente vulnerabili: i tossicodipendenti, i lavoratori del sesso e i LGBT.

 

La denuncia di HRW

Il rapporto intitolato “It’s Part of the Job: Ill-treatment and Torture of Vulnerable Groups in Lebanese Police Stations” raccoglie le interviste condotte dagli esperti dell’Ong su un campione di cinquanta persone che sono state sottoposte al fermo della polizia libanese.

Le testimonianze, tutte particolarmente forti, provengono da persone appartenenti a determinati gruppi sociali: tossicodipendenti, prostitute e omosessuali.

Secondo le parole di Nadim Houry, direttore di HRW per il Medio Oriente, gli abusi sarebbero all’ordine del giorno nelle caserme libanesi.

Le forze di polizia, al pari di gran parte della società libanese, non sono estranee al pregiudizio e alla stigmatizzazione dell’omosessualità, in questo caso però il problema assume contorni più gravi perché la discriminazione viene attuata da rappresentanti dello Stato. 

Secondo quanto afferma il rapporto, è molto diffuso tra le forze di polizia libanesi l’arresto compiuto su basi arbitrarie: avviene infatti che le persone vengano arrestate in assenza di prove solo per comportamenti considerati “sospetti”. 

Inoltre, secondo uno studio condotto dall’avvocato per i diritti umani Nizar Saghieh per conto dell’associazione Helem, (fra le più importanti organizzazioni LGBT in Medio Oriente), le procedure detentive attuate dalla polizia nei confronti di “sospetti omosessuali” violano lo stesso Codice procedurale libanese. Il trattamento loro riservato infatti si traduce spesso in lunghi periodi di custodia cautelare preventiva, anche nei casi in cui le prove siano estremamente inconsistenti, che eccedono  le 48 ore previste dalla legge del paese

A volte, poi,  a mandare i figli in carcere sono le madri. 

Walid, 24 anni, ha raccontato di essere stato arrestato dalla polizia e detenuto per una notte su indicazione di sua madre, che in questo modo credeva di poter spaventare il figlio e riportarlo sulla retta via. 

Un caso simile era stato registrato già dalla ricerca di Saghieh nel 2009. In quel caso una madre aveva denunciato suo figlio per “sospetta omosessualità” dal momento che “si comportava come una donna”. Tanto era bastato al pubblico ministero per arrestare e interrogare il ragazzo e sottoporlo all’ispezione anale.

Due casi che mostrano quanto profonda sia ancora nella società libanese la stigmatizzazione dell’omosessualità.

 

 

July 23, 2013di: Maria Letizia PeruginiLibano,

Redazione

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