La Libia è ancora nel caos, e la destituzione del primo ministro mostra prima di tutto l’instabilità del potere centrale. Gli scontri che si moltiplicano testimoniano più divisioni territoriali e tribali che divergenze politiche tra islamisti e laici, tra democratici e sostenitori dell’ancien régime.
La destituzione del primo ministro Ali Zeidan con un voto di sfiducia del Congresso Generale Nazionale – Cgn (il Parlamento libico temporaneo, ndt) l’11 marzo scorso, con 128 voti su 200, ha riacceso l’interesse dei media internazionali verso la Libia.
Una destituzione in linea con il largo discredito di cui già soffriva il governo di Zeidan, sottoposto a voto di fiducia a più riprese nelle settimane scorse dal Cgn senza il raggiungimento della maggioranza qualificata richiesta di 120 voti.
E’ stato quindi l’episodio – catastrofico per l’immagine del governo – della petroliera Morning Glory (nave battente bandiera nordcoreana a caccia di greggio libico gestito dalle milizie ribelli, fermata grazie all’intervento della Marina statunitense, ndt) da parte dei separatisti dell’Est e la sua uscita dalle acque territoriali libiche, intercettata dalla Marina americana che ha segnato la sua sorte (…).
Molti osservatori hanno definito la situazione libica come “caotica”, incapaci di ricondurla all’interno delle loro griglie di lettura classiche e manichee. Potremmo in effetti dire che la situazione in Libia ha qualcosa in comune con le teorie scientifiche dette “del caos”, presentando un importante ventaglio di parametri legati tra loro.
Eppure i tanti attori e gruppi coinvolti seguono logiche che, rispetto ai loro obiettivi ed interessi, sembrano razionali.
Le linee di frattura messe in evidenza più di frequente (islamisti contro “laici”, milizie contro società civile, fedeli del vecchio regime contro anti-gheddafiani, autonomisti contro sostenitori di uno Stato centrale..) forniscono chiavi di lettura insufficienti per comprendere la complessità della situazione attuale.
La predominanza della componente locale su quella regionale, e quella del regionale sul nazionale, proprie della storia libica – per quanto sia d’uso affermare che sia frutto della sola volontà del tiranno decaduto – che ha tanto sconcertato gli strateghi della NATO durante la guerra del 2011, è in realtà una chiave di lettura essenziale per comprendere il processo di ricostruzione nazionale.
In questo contesto estremamente frammentato e in assenza di un potere centrale e di un apparato statale, la domanda ricorrente “Chi governa la Libia?” non sembra realmente avere senso.
Se le categorie gerarchiche classiche di uno Stato, di un governo centrale al servizio di istanze locali, avevano ben poco significato durante il regime di Gheddafi, questo è ancor più vero nella Libia di oggi. E la gestione militare delle “autorità” di Tripoli della crisi dei siti petroliferi occupati dai separatisti nell’Est del paese è in questo caso rivelatrice.
L’8 marzo, tre giorni prima della cacciata del primo ministro, il presidente del Cng aveva firmato il decreto numero 42, con cui si ordinava l’invio di forze militari per riprendere il controllo dei siti petroliferi nel golfo di Sirte nelle mani degli autonomisti della Cirenaica dall’agosto scorso.
Il presidente ha affidato questa missione alle unità della divisione Bouclier de Libye, costituita in gran parte da ex-ribelli della città di Misurata (1).
Qualche ora più tardi il Capo di Stato maggiore dell’esercito, il generale Abdessalam Al-Oubeidi (originario della Cirenaica), ufficialmente sottoposto al presidente del Parlamento, ha annunciato di non essere stato informato di quest’ordine, dicendosi a favore di una soluzione negoziata e che, in qualsiasi caso, sarebbe comunque dovuto intervenire l’esercito nazionale.
Il giorno dopo il Consiglio militare della città di Zintan, che controlla la seconda milizia più potente della Tripolitania (dopo quella di Misurata), ha annunciato di essere a sua volta contrario all’opzione militare e che avrebbe sconfessato l’invio di truppe di Misurata.
Zintan e Misurata, che hanno talvolta stretto alleanze in passato per opporsi a quello che consideravano un tentativo di controllo della capitale da parte delle forze islamiste, in questo frangente hanno assunto posizioni divergenti: gli interessi di Zintan, diretti in primo luogo verso l’ovest e il sud-ovest, sono in effetti molto diversi da quelli di Misurata, che ha l’ambizione di controllare la vasta regione centrale della Libia, zona-cerniera tra la Tripolitania e la Cirenaica ricca di giacimenti petroliferi.
La frattura si è dunque sviluppata tra responsabili politici e capi delle milizie? No, perché il premier si è spesso appoggiato a milizie potenti per far pesare le sue posizioni sulle decisioni del Cgn, e i secondi dispongono di una legittimità data dalla partecipazione alla rivoluzione e dall’esperienza di potere guadagnata in questi tre anni che li ha resi attori politici ed economici locali a tutti gli effetti.
Questo tipo di comportamento è comune a tutti i partiti, che siano di fede islamista o meno, e anche delle tre principali coalizioni rivali in seno al Cng.
La più importante, il “Blocco di fedeltà al sangue dei martiri” (Koutla al-wafa li dima al-chouhada, 2) può contare sui circa 20mila uomini delle milizie di Misurata.
Il “Partito per la Giustizia e la Ricostituzione” (Hizb al ‘adl wal-bina) dei Fratelli Musulmani controlla invece la milizia Ghourfa ‘amaliyaat thouwar libya, che ha rivendicato l’operazione di “sollevazione” di Ali Zeidan nel novembre 2013 e del Consiglio militare di Tripoli.
L’”Alleanza delle Forze Nazionali” infine (Tahalouf al qouwa al-wataniya, 3) è considerata “liberale” poiché, dal momento che non si richiama all’Islam politico, può contare sul sostegno delle milizie di al-Qa’da’ e al-Sawa’iq (entrambe originarie di Zintan), che hanno fatto parlare di sé nel febbraio scorso per il tentativo di impadronirsi del Cng con la forza.
Questa lotta per il potere, che si traduce regolarmente in scontri armati anche nel cuore della capitale, mostra bene l’incapacità del Cng – per quanto la sola istituzione dotata di legittimità popolare in Libia, dal momento che è stato eletto con suffragio universale – di ottenere il consenso necessario per far fronte alle immense sfide della ricostruzione nazionale.
Ogni regione, sotto-regione, città e persino villaggio della Libia è allo stesso modo costretta a misurarsi con situazioni e fratture specifiche.
Nel sud, la rivalità per il controllo delle frontiere e per i profitti generati da traffici di ogni genere sono un tema essenziale.
La guerra del 2011 ha stravolto le gerarchie predominanti sotto il vecchio regime, riaccendendo le rivalità tra gruppi etnici e tribali.
La tribù dei Tubus, fedele a Gheddafi, si è unita molto presto al campo dell’insurrezione. In seguito ha stabilito il proprio dominio sul territorio che si estende dal sud della capitale regionale Sebha alle immense zone frontaliere al confine con Chad e Niger.
Nella città di Sebah è in aperta rivalità con la tribù araba Ouled Slimane, che non ha partecipato alla rivolta se non nel giugno del 2011. Nel mese di gennaio 2014 gli scontri tra i due gruppi hanno provocato oltre 100 morti.
Le antiche tribù fedeli a Gheddafi – Qadadfa e Magariha – oggi del tutto marginalizzate, hanno colto questa occasione per regolare i propri conti con Ouled Slimane, loro clienti nell’era Gheddafi.
Ogni milizia in Libia dispone di una sua zona di influenza esclusiva. Questa territorializzazione si è materializzata nelle regioni rurali e semi-rurali in check point stabili che assicurano un filtro al transito di persone e merci.
In Cirenaica, le forti rivendicazioni autonomiste per l’instaurazione di un regime separato hanno causato episodi di preoccupante violenza politica.
Attentati ed omicidi sono ormai quotidiani a Bengasi e nella città di Derna, rivolti contro tutti i simboli della presenza statale: esercito, polizia, servizi sanitari, ospedali, banche, così come contro la presenza di gruppi stranieri, principalmente occidentali ed egiziani copti (4).
Alle azioni della fine del 2011, rivolte contro tombe marabutte e cimiteri stranieri, hanno fatto seguito rivolte, omicidi, auto date alle fiamme: azioni che non sono mai state rivendicate.
Se all’inizio potevano essere considerate regolamenti di conti tra miliziani, politici o funzionari che avevano prestato servizio sotto il vecchio regime, la loro frequenza, gli obiettivi e il loro modus operandi sembrano dimostrare che si tratta di azioni di gruppi salafiti takfiristi.
Questa strategia di attacco contro tutte le forme di ricostruzione statale potrebbero anche essere l’inizio del tentativo di costituire mini-emirati salafiti locali. La popolazione sarebbe presa in ostaggio, come nel caso della città di Derna.
Infine, per aggiungere ulteriore complessità al quadro, è necessario menzionare anche il ruolo giocato dagli attori stranieri.
Le potenze occidentali hanno preso parte in modo diretto o indiretto per una delle forze in campo, creando delle nuove linee di frattura.
Dichiarazioni come quella del Capo di Stato maggiore dell’esercito francese, l’ammiraglio Edouard Guillaud – ampiamente ripresa dai media e dai social network libici – potrebbero essere prese molto male da gran parte del popolo libico. L’ammiraglio infatti ha dichiarato che “lo scenario ideale sarebbe quello che permetterebbe interventi internazionali, in accordo con le autorità libiche” e che “sarebbe necessaria una presenza internazionale, ma prima andrebbe stabilizzato il nord del paese”.
La fiducia popolare verso il governo di Ali Zeidan, accusato di sostenere un intervento straniero in Libia, si è ulteriormente deteriorata (…).
L’abbordaggio della petroliera che aveva caricato petrolio dagli stabilimenti occupati della Cirenaica da parte della Marina statunitense il 17 marzo scorso, e la sua “restituzione” alle autorità di Tripoli, era già stata denunciata. Non soltanto dagli autonomisti, che l’hanno considerato un atto di pirateria, ma anche in Cirenaica, dove in tanti l’hanno vista come un’intollerabile ingerenza e un sostegno al governo illegittimo di Tripoli a tutto svantaggio della loro regione.
La “restituzione” della petroliera Morning Glory da parte della Marina americana potrebbe dunque rivelarsi un “regalo al veleno” piuttosto che un punto a favore per il prossimo primo ministro che sarà incaricato di guidare il paese.
1) Una delle milizie coinvolte negli scontri che sono costati la vita ad oltre 50 manifestanti a Tripoli il 15 novembre 2013.
2) Questa coalizione raggruppa diversi piccoli partiti nel Partito per l’Unione della Patria (Hizb itthad al watan) di Abderrahman Al-Suheili, rappresentante della città di Misurata nel Cgn, che fu tra i massimi difensori della legge sull’esclusione politica. Questa coalizione ha votato per la rimozione di Ali Zeidan.
3) Coalizione di partiti creata da Mahmoud Jibril, che ne sarà poi escluso nel maggio 2013.
4) Un cittadino francese incaricato della sicurezza di una compagnia nazionale è stato assassinato il 3 marzo 2013, qualche giorno dopo la scoperta di 7 cadaveri di copti egiziani uccisi senza che nessuno rivendicasse gli omicidi.
*La traduzione è a cura di Cecilia Dalla Negra. Per la versione originale dell’articolo, pubblicato su L’Orient XXI, clicca qui.
March 25, 2014di: Patrick Haimzadeh per Orient XXI* Libia,Articoli Correlati:
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