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Libia. Le ragioni del tentato golpe che porta il paese sull’orlo della guerra civile

Sono molti gli interrogativi sollevati dal tentato golpe di Khalifa Haftar in Libia. Ma chi è questo personaggio, e quali sono i delicati equilbri che si celano dietro la nuova fase di caos in cui è precipitato il paese? 

 

 

Quando il generale libico in pensione Khalifa Haftar (o Hifter, come viene a volte traslitterato il suo nome) ha dato il via ad una possente operazione militare a Bengasi, alcuni giorni fa, i suoi sostenitori hanno affermato che si trattava di un tentativo di “liberare la città dai gruppi estremisti che la stanno soffocando”.

Gruppi islamisti militanti come Ansar al-Sharia la assediano da tempo, e sono in gran parte considerati responsabili del deterioramento della sicurezza e della campagna di omicidi ai danni delle locali forze governative.

Tuttavia, sebbene supportata da circa 120 veicoli militari e addirittura da alcuni elicotteri e aerei, l’operazione lanciata da Haftar non era stata autorizzata dal governo di Tripoli, che anzi si era affrettato a condannarla. Il Capo di stato maggiore dell’esercito, generale Abdel Salam al-Obeidi, e il presidente del Parlamento Nouri Abu Sahmain, l’avevano infatti definita senza mezzi termini un “tentativo di golpe”.

Malgrado la condanna ufficiale, è però emerso ben presto che l’azione militare di Haftar a Bengasi era stata appoggiata da spezzoni dell’esercito regolare, compresa la base militare di Tobruk, sulla costa orientale. Questo da un lato rappresentava un’ennesima conferma dell’impotenza del governo, della sua incapacità di controllare il territorio libico e addirittura le proprie forze armate.

Dall’altro, il fatto che la milizia di Haftar (l’autoproclamato “Esercito Nazionale Libico”) fosse stata supportata da altre forze nell’azione di Bengasi lasciava presagire che non ci si trovava di fronte alla semplice smania di protagonismo di un egocentrico generale in pensione, ma a qualcosa di ben più complesso.

Gli scontri nel capoluogo della Cirenaica sono stati una vera battaglia, che ha lasciato sul terreno oltre 70 morti. Ma le reali intenzioni di Haftar e dei suoi alleati sarebbero emerse due giorni dopo, quando forze a lui fedeli hanno assaltato con armi pesanti il Congresso Nazionale Libico (CNL) a Tripoli, provocando una precipitosa evacuazione dei parlamentari mentre parte del palazzo andava a fuoco.

Haftar e i suoi seguaci hanno sostenuto di agire in nome del popolo libico al fine di ristabilire l’ordine nel paese. Il portavoce del generale, Mohammed al-Hegazi, ha affermato che “è il Parlamento che appoggia gli estremisti islamici”, e dunque meritava questa azione punitiva. Il generale Mokhtar Farnana, influente comandante militare della città di Zintan rivelatosi alleato di Haftar, ha dichiarato alla televisione libica che “il paese non può essere un terreno di coltura del terrorismo”.

In altre parole, la retorica della lotta contro il terrorismo e l’estremismo è stata utilizzata per legittimare l’azione di forza contro il Parlamento. 

 

I principali attori della crisi libica

 

Le due potenti brigate “al-Qaaqaa” ed “al-Sawa’iq” della città di Zintan hanno svolto un ruolo di primo piano nell’attacco militare al CNL, mettendo a nudo l’esistenza di un patto tra la milizia di Haftar, localizzata principalmente in Cirenaica, e una delle più importanti “città-Stato” della Libia occidentale. A tale alleanza si sono aggiunte anche altre forze.

Per porre un freno al dilagare dei miliziani di Zintan a Tripoli, il presidente del Parlamento Nouri Abu Sahmain ha firmato un’ordinanza che richiamava verso la capitale la sezione centrale delle LSF (acronimo del nome inglese “Libya Shield Forces”, equivalente dell’arabo “quwwat dir’ Libiya”), un’aggregazione di milizie affiliate al ministero della Difesa, al cui interno le brigate della città costiera di Misurata giocano un ruolo di primo piano.

La possibilità che queste ultime convergessero sulla capitale per contrastare le forze di Zintan apriva potenzialmente lo scenario di una nuova guerra civile nel paese. 

L’attuale crisi ha dunque riacceso i riflettori sulla tragedia della Libia post-rivoluzionaria, dove le milizie che hanno combattuto la guerra contro Gheddafi non sono mai state disarmate dal governo che, al contrario, ne è divenuto ostaggio. In Libia i conflitti continuano ad esplodere non solo lungo la linea di demarcazione che separa i vincitori dagli sconfitti “filo-Gheddafi”, ma anche in base alle rivalità che pongono i vincitori gli uni contro gli altri.

La città tribale di Zintan, situata nel deserto 140 km a sudovest della capitale, importante centro militare ai tempi di Gheddafi, giocò un ruolo chiave nella guerra civile del 2011 e nella successiva fase di transizione. A Tripoli le sue milizie controllano tuttora l’aeroporto internazionale, ed hanno lungamente lottato per la supremazia con l’avversario di sempre: Misurata.

Fiorente porto sulla costa occidentale, la città è divenuta uno dei centri economicamente e militarmente più influenti del paese, dopo essere uscita vittoriosa dall’estenuante e sanguinoso assedio imposto dalle forze di Gheddafi nella prima fase della guerra civile. 

All’interno del Parlamento, le forze di Zintan sono più o meno schierate con il fronte non-islamista guidato dell’Alleanza delle Forze Nazionali (AFN), mentre quelle di Misurata si sono progressivamente allineate con il fronte islamista guidato dal Partito Giustizia e Costruzione, affiliato ai Fratelli Musulmani.

Sebbene l’AFN sia uscita vincitrice dalle elezioni legislative del luglio 2012, il Parlamento è spaccato fra questi due fronti, ai quali si aggiunge la variegata galassia degli “indipendenti”, eletti essenzialmente in base a logiche locali e tribali. Questa frammentazione ha decretato la paralisi legislativa, mentre al di fuori del Parlamento le milizie affiliate a città, tribù e gruppi islamisti, hanno progressivamente colmato il vuoto politico, rafforzando così il loro potere. 

I gruppi islamisti più estremisti hanno attecchito soprattutto in Cirenaica, in città come Derna e Bengasi. Qui l’islamismo militante ha un radicamento storico che risale alla lotta contro la presenza coloniale italiana, poi rafforzato dalla repressione di Gheddafi e dalla fase del jihadismo internazionale aperta dalla guerra in Afghanistan.

Ma in Cirenaica hanno preso piede anche movimenti federalisti di connotazione tribale che chiedono maggiore autonomia per la regione. Organizzati anch’essi in milizie, questi movimenti si sono impadroniti dei pozzi e dei terminali petroliferi a partire dalla metà del 2013, per utilizzarli come strumento di pressione nei confronti del governo centrale, determinando un crollo della produzione di greggio e un progressivo prosciugamento delle casse statali.

A completare il quadro di frammentazione della Libia vi sono poi le minoranze dei Berberi, dei Tuareg e dei Tebu le quali, emarginate dallo Stato, hanno rinsaldato i propri legami con gruppi consanguinei oltreconfine, facilitando l’emergere di traffici illeciti transfrontalieri, cui si sono aggiunte ultimamente infiltrazioni jihadiste provenienti dall’area del Sahel.

I primi mesi del 2014 hanno visto un inasprimento della lotta per il controllo dei pozzi petroliferi, e un ulteriore aggravamento della paralisi governativa e istituzionale.

A febbraio, il processo costituente era stato finalmente avviato con l’elezione dell’Assemblea che avrebbe dovuto redigere la nuova Costituzione, ma era avvenuto su basi assolutamente poco promettenti: meno del 14% degli aventi diritto al voto si era recato alle urne, in un’elezione contrassegnata da intimidazioni e violenze. 

Dei 60 membri che avrebbero dovuto comporre l’Assemblea Costituente solo 47 erano stati eletti, poiché in alcuni seggi le precarie condizioni di sicurezza avevano reso impossibili le operazioni di voto. Poi nel mese di marzo il tentativo di esportare in proprio il petrolio della Cirenaica, compiuto dai federalisti guidati da Ibrahim Jadhran, era culminato nella fuga di una petroliera riacciuffata da forze speciali americane al largo delle coste di Cipro: questo da un lato aveva portato il governo sull’orlo di un conflitto armato con le milizie di Jadhran, e dall’altro a un controverso voto di sfiducia nei confronti del primo ministro Ali Zeidan, fuggito subito dopo in Europa a bordo di un jet privato. 

Dopo che il successore di Zeidan, Abdullah al-Thinni, si era a sua volta dimesso a seguito di un attacco armato contro la sua famiglia, il Parlamento aveva di recente eletto un nuovo primo ministro. Ahmed Maiteeq, giovane uomo d’affari di Misurata, aveva avuto la meglio su Omar al-Hassi, candidato originario della Cirenaica che godeva anche dell’appoggio della città di Zintan.

La vittoria di Maiteeq era tuttavia giunta a seguito di una votazione dubbia, ritenuta non valida da molti suoi avversari. I federalisti di Jadhran avevano subito dichiarato la propria ostilità nei confronti di Maiteeq, malvisto per altro dall’intero fronte non-islamista del paese, poiché considerato una pedina nelle mani dei Fratelli Musulmani.

Le premesse della crisi attuale erano così state poste.

Le forze affiliate al generale Haftar e alla città di Zintan hanno assalito la sede del Congresso Nazionale Libico a Tripoli poche ore dopo che il nuovo primo ministro aveva annunciato la formazione di un governo da sottoporre alla fiducia del Parlamento. 

 

La controversa figura di Khalifa Haftar e le ramificazioni regionali della crisi

 

La figura del generale Haftar non è emersa dal nulla, ma affiora a più riprese negli ultimi 45 anni della storia libica. Dopo aver appoggiato l’azione di forza con cui Gheddafi rovesciò re Idris nel 1969, Haftar prese parte alla disastrosa campagna militare lanciata dal colonnello libico in Ciad negli anni ’80. 

Fatto prigioniero in quel paese e abbandonato da Gheddafi, entrò a far parte del Fronte Nazionale per la Salvezza della Libia (FNSL), composto da esiliati che si opponevano al leader libico.

Il gruppo fu finanziato da paesi ostili al regime del colonnello, come Arabia Saudita, Egitto e Tunisia. Haftar divenne il leader del braccio armato dell’FNSL, che prese il nome di “Esercito Nazionale Libico”.

Fonti americane, fra cui il New York Times, riferirono negli anni ’90 che gli uomini di Haftar erano addestrati dalla CIA in un campo vicino alla capitale ciadiana. Tuttavia, dopo che il generale Idriss Déby prese il posto di Hissène Habré alla guida del Ciad (con l’aiuto determinante di truppe francesi), Haftar divenne persona non grata nel paese. Egli fu pertanto trasferito da agenti americani dal Ciad in Nigeria, poi nell’attuale Repubblica del Congo (ex Zaire), poi in Kenya, per finire quindi in Virginia, negli Stati Uniti, dove trascorse circa vent’anni.

Dopo lo scoppio della rivolta libica nel febbraio 2011, Haftar tornò a Bengasi per unirsi alle fila dei ribelli che combattevano contro Gheddafi. In quel periodo, una relazione della Jamestown Foundation lo definì “il miglior legame che gli Stati Uniti e le forze NATO possono avere per trattare con gli indisciplinati ribelli libici”.

Haftar fu tuttavia progressivamente emarginato dai vertici militari dei ribelli. Poi nell’estate del 2013 l’approvazione della “legge sull’isolamento politico” (con cui venivano privati della possibilità di ricoprire cariche istituzionali tutti coloro che avevano avuto incarichi rilevanti sotto il regime di Gheddafi) sembrò porre fine definitivamente alle sue ambizioni. Ma è invece riemerso nel febbraio di quest’anno, in un video nel quale invocava la sospensione dell’attuale Parlamento e l’intervento delle forze armate per “salvare” il paese.

Un’intromissione derisa come il gesto di un militare in pensione privo di qualsiasi appoggio nel paese. 

Ultimamente, però, Haftar era riuscito a raccogliere consensi soprattutto in Cirenaica, promettendo un’azione militare per liberare Bengasi dalla presenza di gruppi islamisti estremisti.

Fonti arabe indipendenti e vicine al Qatar sostengono che Haftar sia stato finanziato e armato da alcune monarchie del Golfo (in particolare dagli Emirati Arabi), che fornirebbero il loro appoggio anche alle milizie di Zintan. Del resto è ugualmente noto il ruolo dello stesso Qatar a sostegno degli avversari di Haftar e Zintan, ovvero delle milizie islamiste libiche che combatterono contro Gheddafi.

E’ interessante rilevare che, durante la loro operazione militare a Bengasi, le forze di Haftar abbiano colpito, prima ancora dei gruppi estremisti non affiliati al governo, milizie integrate nelle forze governative come la Brigata dei “Martiri del 17 febbraio” e la Brigata “Rafallah al-Sahati”. Si tratta di formazioni legate a Ismail al-Sallabi, fratello dello sheikh Ali al-Sallabi, uno dei leader spirituali del movimento salafita libico, lungamente ospitato dal Qatar dopo aver trascorso molti anni nelle carceri di Gheddafi.

E’ tramite l’intercessione di al-Sallabi che, fin dai tempi della guerra civile, gli aiuti di Doha giungono alle milizie islamiste vicine al Qatar. 

Ma le monarchie del Golfo non sono gli unici attori che influiscono sugli sviluppi interni della Libia. Dal canto loro, paesi limitrofi come Marocco, Algeria e Tunisia hanno da tempo espresso il loro interesse ad addestrare le forze di sicurezza di Tripoli. 

Dalla seconda metà del 2013 esiste inoltre un piano che prevede l’addestramento di unità militari e di polizia da parte di paesi come Stati Uniti, Gran Bretagna, Turchia e Italia, con il rischio però che le nuove unità diventino uno strumento nelle mani di gruppi politici in Libia che perseguono agende in competizione tra loro. 

E’ questo il complesso quadro di influenze regionali e internazionali in cui si inserisce l’azione del generale Haftar: con la sua retorica contro il “terrorismo” e “l’estremismo islamico”, egli si pone nel solco della lotta contro l’Islam politico e i Fratelli Musulmani lanciata da Arabia Saudita ed Emirati Arabi a partire dall’elezione del presidente Morsi in Egitto. 

Haftar appare ugualmente in linea con la retorica anti-islamista del generale egiziano al-Sisi. Anche la coincidenza temporale fra il tentato golpe di Haftar da un lato, e le tensioni fra Tripoli e il Cairo riguardo alla presunta presenza in territorio libico di un fantomatico “Esercito Egiziano Libero” composto da fuoriusciti dei Fratelli Musulmani egiziani dall’altro, ha destato perplessità in alcuni commentatori libici e arabi. 

Secondo la stampa egiziana, che ha alimentato simili voci incontrollate, questo gruppo paramilitare islamista sarebbe pronto a rientrare in Egitto dopo aver organizzato le proprie fila oltreconfine, allo scopo di seminare scompiglio durante le imminenti elezioni presidenziali nel paese. Anche in conseguenza di queste tensioni fra i due Stati confinanti, fonti vicine al governo di Tripoli e alle forze islamiste libiche hanno accusato al-Sisi di appoggiare Haftar, ricevendo un’indignata smentita da parte del Cairo. 

L’azione del generale libico sembra dunque inserirsi nel quadro di quel conflitto regionale intra-sunnita che vede Riyadh e Abu Dhabi (e anche l’Egitto, dopo il rovesciamento del presidente Morsi) contrapposte al Qatar, sostenitore dei Fratelli Musulmani e dei loro alleati a livello regionale. 

L’eventuale persistenza del legame che in passato ha unito Haftar agli Stati Uniti è stata anch’essa oggetto di illazioni da parte di certa stampa araba. Senza dubbio la retorica “laica” di opposizione al terrorismo adottata dal generale libico ha, fra l’altro, l’obiettivo di presentare Haftar come un interlocutore credibile per Washington.

Il fatto che, in vista di un possibile deterioramento della situazione libica, gli americani abbiano trasferito forze militari nella base di Sigonella in Sicilia proprio pochi giorni prima dell’operazione condotta da Haftar a Bengasi, ha contribuito ad alimentare le illazioni sui rapporti fra lui e Washington.

Quantomeno, infatti, gli Stati Uniti potrebbero aver mosso le proprie forze sulla base di informazioni di intelligence che lasciavano presagire quanto si sarebbe poi verificato a Bengasi e a Tripoli. Il silenzio della Casa Bianca su quanto sta avvenendo in Libia ha portato al fiorire di ulteriori sospetti e congetture.

Allo stato attuale non si può però neanche postulare un ruolo particolarmente attivo degli Stati Uniti nell’evoluzione degli eventi libici, tanto più se si pensa che solo un mese fa l’ambasciatore americano in Libia aveva avuto un incontro all’apparenza cordiale con il leader dei Fratelli Musulmani libici, Mohammed Sawan.

Potrebbe dunque darsi che Washington, come è già avvenuto in Egitto ed altrove nella regione mediorientale dopo lo scoppio delle rivolte arabe, sia stata costretta ad adeguarsi, in tutto o in parte, ad una situazione determinata da altri. 

Fra questi e altri interrogativi sollevati dal tentato golpe di Haftar e dei suoi alleati in Libia, rimane infine da rilevare che le forze di Misurata e le milizie islamiste che si oppongono al generale sono altrettanto ben armate, e del tutto in grado di rispondere agli attacchi.

Il Consiglio locale di Misurata ha per il momento adottato una posizione attendista, affermando di essere “contro il terrorismo e il fondamentalismo” e allo stesso tempo di non voler accettare una “dittatura militare”. Ma se non si opterà per il dialogo e la ricerca di una soluzione di compromesso, la Libia rischia seriamente di sprofondare in una nuova guerra civile.

 

*Roberto Iannuzzi è ricercatore presso Unimed (Unione delle Università del Mediterraneo). È autore del libro “Geopolitica del collasso. Iran, Siria e Medio Oriente nel contesto della crisi globale”, di recente pubblicazione.

**Foto By User:ليبي_صح (User:ليبي_صح) [CC0], via Wikimedia Commons

 

May 21, 2014di: Roberto Iannuzzi*Libia,Articoli Correlati: 

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