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Libia. Le speranze tradite della rivoluzione

Liberata ad agosto 2011, la capitale libica ha conosciuto un periodo di grazia che è stato dimenticato velocemente. Le speranze di aprire una nuova pagina della storia della Libia erano forti, ma sono state rapidamente tradite e la logica delle milizie ha preso il sopravvento sulla logica della politica.

 

 

 

Una leggera brezza venuta dal mare, un clima soleggiato, l’impressione di immensa libertà ed euforia, ovunque. Siamo nel 2012. Tripoli, la capitale libica, si risveglia dopo la rivoluzione che ha messo fine a 42 anni di dittatura, rovesciata ad ottobre 2011.

La sicurezza ancora non rappresenta un problema così importante. Certo, le armi proliferano e c’è sempre il rischio di essere colpiti da un proiettile vagante, perché i libici amano sparare in aria per festeggiare le buone notizie, i matrimoni o le nascite.

Il governo e le Ong provano a sensibilizzare la popolazione. Tripoli è ricoperta di manifesti che spiegano come i proiettili sparati in aria, ricadendo, possano ferire o uccidere qualcuno. Le sale per i matrimoni, ad esempio, si sono dotate di cartelli all’ingresso che vietano formalmente l’accesso alle armi.

Talvolta sono stati organizzati degli eventi per cercare di raccogliere quelle in possesso dei civili. Durante uno di questi eventi, un uomo venuto da Piazza dei Martiri, nel centro della città, chiede quale procedura debba seguire per riconsegnare un carrarmato parcheggiato nel suo giardino: “Non mi sono permesso di prenderlo per arrivare qui”, avrebbe detto ingenuamente.

Questa storia ha fatto rapidamente il giro di tutti i caffè di Tripoli e spiega bene il fallimento di queste operazioni di recupero delle armi, che si sono arrestate rapidamente. L’unico risultato, è che quattro anni dopo, a Tripoli, le armi non vengono più usate per “celebrare” degli avvenimenti, ma per combattere.

Un rapporto dell’Assemblea Nazionale francese del novembre 2015, ha stimato che circolino circa 20 milioni di armi per una popolazione di 6 milioni di persone.

Ahmed*, un funzionario di una trentina d’anni, dorme su una cassa di mine antiuomo: “La tengo sotto il mio letto, nessuno sa che è lì, neanche mia madre. L’ho trovata durante la rivoluzione. All’inizio non volevo ridarla allo Stato, perché mi sono detto che mi sarebbe potuta servire, per difendermi. E adesso, a chi volete che la renda? A quale esercito, a quale governo? Io non mi fido: queste armi verrebbero recuperate ed utilizzate contro chi? Contro i libici”. 

 

Isolati dalle armi

Simbolo di questa violenza, l’aeroporto internazionale di Tripoli è stato completamente distrutto dai combattimenti che hanno avuto luogo nella capitale nell’estate 2014.

All’indomani della caduta di Muhammar Gheddafi, un alto funzionario del ministero dei Trasporti aveva dichiarato con entusiasmo: “L’aeroporto di Tripoli può diventare un importante centro di connessione tra l’Africa, il Medio Oriente e l’Europa”.

All’epoca, i libici aspettavano con impazienza la ripresa dei lavori d’ingrandimento, interrotti durante la rivoluzione. Ibrahim Wali, il direttore del trasporto aereo oggi lamenta: “Per la fine del 2015 il progetto del nuovo aeroporto sarebbe dovuto essere completato. Avremmo dovuto avere un aeroporto tutto nuovo, adibito all’accoglienza di 5 milioni di passeggeri l’anno. E alla fine, non abbiamo più niente”.

All’inizio di marzo, il primo Ministro di Tripoli, Khalifa Gwell, ha annunciato che la ricostruzione completa dell’aeroporto inizierà a breve.

Così, mentre nel 2012 i libici si aprivano al mondo, oggi si ritrovano nuovamente isolati.

Oggi, per viaggiare, gli abitanti di Tripoli devono utilizzare l’aeroporto militare di Mitiga, dalla capacità limitata. Come se non bastasse, la strada che collega Tripoli a Ras Jedir, al confine con la Tunisia, per buona parte della popolazione è diventata da qualche mese impraticabile.

La tribù di Wershefana, situata a sud-est di Tripoli e considerata come pro-Gheddafi, ha infatti preso il controllo della strada costiera. I sostenitori della rivoluzione ed altre tribù nemiche non prendono più questa strada, temendo rapimenti e rapine.

La Libia del 2016 è diventata un conglomerato di zone che rispondono a leggi differenti e il cui accesso è impossibile ad alcune persone.

Gli abitanti di Tripoli si vedono privati di una via d’uscita verso est, ma anche dell’accesso alle splendide spiagge di Farwa o di Sabrata, luoghi di villeggiatura ancora molto apprezzati dagli abitanti della capitale, in cui amavano andare a rilassarsi durante i fine settimana. Il periodo comunque non è dei migliori per andare in spiaggia: Sabrata è stata teatro di combattimenti, negli ultimi giorni, tra le forze alleate al governo di Tripoli e le cellule dell’organizzazione dello Stato Islamico.

 

“Come un cubetto di ghiaccio nel deserto del Sahara”

Nel 2012 il popolo libico, pieno di speranza, si preparava a votare per la prima volta dopo decenni. I giovani, ragazzi e ragazze, si mobilitavano per attaccare i manifesti nelle strade.

Ciononostante, questa gioiosa effervescenza non nascondeva i problemi di uno scrutinio che già appariva poco chiaro. Malgrado tutto, le elezioni del 7 luglio 2012 si sono svolte in buone condizioni.

All’epoca, il Congresso Generale Nazionale (GNC), doveva svolgere le funzioni del Parlamento per un periodo dai 12 ai 18 mesi – il tempo di redigere una nuova Costituzione – e nominare un nuovo Governo. Ma la Costituzione non ha mai visto la luce del giorno e il GNC è ancora al potere a Tripoli, nonostante le nuove elezioni legislative, a giugno 2014, abbiano visto nascere la Camera dei Rappresentanti, al momento in esilio a Tobruk, all’estremo est del paese. 

Nel frattempo, l’entusiasmo democratico e la speranza politica si sono sciolti come un cubetto di ghiaccio nel Sahara.

Le ragioni di un tale capovolgimento della scena politica sono numerose. Nonostante lo scrutinio di lista sia stato vinto dai moderati dell’Alleanza delle Forze Nazionali di Mahmoud Jibril, sono gli islamisti del partito Giustizia e Costruzione che controllano il Parlamento, grazie al sostegno della maggior parte dei candidati indipendenti.

La legge dell’isolamento politico (abrogata a febbraio, ndt) ha diviso ulteriormente la società libica, escludendo definitivamente una parte della popolazione ed evidenziando il peso dei gruppi armati.

Approvata nel 2013 in seguito alle pressioni delle brigate che bloccavano alcuni ministeri, la legge impedisce a chiunque abbia ricoperto ruoli di responsabilità sotto Gheddafi – anche chi ha preso parte alla rivoluzione – di ottenere un ruolo politico o amministrativo di un certo rilievo.

Nonostante le condizioni sotto il vecchio regime, sono queste le persone più competenti. La corruzione, infine, non è scomparsa. Invece di essere prerogativa di un clan, si è diluita in tutti gli schieramenti che sostengono la rivoluzione del 17 febbraio 2011. “Non abbiamo più un solo Gheddafi, ma centinaia”, lamenta Ahmed.

 

Una vita normale?

I Tripolitani non si interessano più ai loro dirigenti, ma si preoccupano per la loro vita quotidiana.

Mustapha*, una cinquantenne, ha dichiarato senza esitare: “Non mi interessa chi ci governerà. Possono mettere chiunque: un cristiano, un ebreo, non ha più importanza. Quello che vogliamo è la sicurezza e una vita normale”.

Una vita normale, a Tripoli, significherebbe avere i negozi che chiudono dopo le 22, come nel 2012, non alle 20 come oggi.

Anche se è ancora possibile camminare per le strade della capitale, le donne e le famiglie esitano sempre di più ad uscire la sera, momento tradizionalmente preferito per lo shopping. In effetti, i rapimenti sono diventati un vero e proprio business. Basta essere riconosciuto come sostenitore di un certo clan politico o come membro di una famiglia ricca o importante per essere rapiti. La libertà verrà poi riscattata a peso d’oro.

Una vita normale significherebbe anche trovare nuovamente dei prezzi accettabili. Insegnante e madre di due figli, Hafaf trova sempre più difficile arrivare a fine mese: “Il prezzo del pane, quando si trova (a volte c’è carenza di farina, ndr) è quadruplicato, quello dell’olio è triplicato”.

Sul mercato nero, una vera e propria istituzione in Libia, il valore dell’euro è passato da 1,68 dinari libici nel 2012 a 3,83 dinari nel gennaio 2016. Mentre nel 2012 chi cambiava valute in nero non faceva alcuna attenzione agli stranieri che volevano cambiare i propri soldi, oggi li chiamanogià dalla soglia del proprio negozio. Poche centinaia di euro bastano per guadagnarsi la giornata.

 

Lasciare il paese

Va detto che gli stranieri sono praticamente scomparsi da Tripoli. Nel 2012, tuttavia, la capitale abbondava di uomini d’affari venuti a cercare fortuna nella nuova Libia. Poiché la complessità amministrativa e la sicurezza si sono deteriorate, se ne sono andati poco a poco.

Il colpo di grazia si verifica nell’estate del 2014, quando, nel bel mezzo dei combattimenti che devastano Tripoli, le ambasciate occidentali lasciano il paese ed evacuano i propri cittadini.

La stragrande maggioranza degli stranieri che rimangono ancora oggi sono coloro che non hanno scelta, di solito per motivi economici: i tunisini, che lavorano come camerieri o che fanno lavori domestici, i bengalesi che raccolgono i rifiuti e puliscono le strade, gli indiani e i filippini, di solito infermieri, e gli immigrati clandestini provenienti dall’Africa sub-sahariana, che offrono i loro servizi come muratori o per altri  lavori pesanti per raccogliere abbastanza soldi per tornare a casa o per provare la traversata in Europa.

Il desiderio di lasciare il paese, in cui è comunque relativamente facile trovare lavoro come manovalanza, è aumentato progressivamente, di pari passo con la crescente insicurezza.

Così, mentre nel 2012 secondo Frontex solo 10.300 persone sono partite in direzione dell’Europa, secondo i dati dell’OIM da gennaio 2016 sono già più di 18.800 i migranti accolti provenienti dalla Libia. 

 

*La versione originale di questo articolo è stata pubblicata su Orient XXI, ed è disponibile qui. La traduzione dal francese è a cura di Lamia Ledrisi e Damiano Duchemin. 

**I nomi utilizzati sono di fantasia 

 

March 23, 2016di: Maryline Dumas e Mathieu Galtier per OrientXXI*Libia,

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