A 5 anni dalla caduta del regime di Gheddafi, il processo di transizione in Libia è ben lontano dall’essersi concluso ed è in corso uno stravolgimento degli equilibri di potere, mentre il paese sembra sempre più orientato a privilegiare la sicurezza a discapito della democrazia.
A 5 anni dalla caduta del regime di Gheddafi, il processo di transizione in Libia è ben lontano dall’essersi concluso e nel paese è in corso uno stravolgimento degli equilibri di potere. Il recente tentativo di destabilizzazione derivante dal tentato colpo di Stato guidato dal presidente dell’ex governo di salvezza nazionale (GNC) Khalifa Ghwell – che dalla sua autoproclamazione nell’estate del 2014 all’aprile 2016 ha illegittimamente controllato la regione della Tripolitania -, non sembra aver avuto reale impatto politico, rivelandosi una mera rivendicazione di potere nei confronti del Governo di unità nazionale del premier Serraj.
Tuttavia, la Libia sembra sempre più orientata verso un ordine di priorità che privilegia la sicurezza a discapito della democrazia.
E’ in questo senso che bisogna leggere i recenti avvenimenti nella regione orientale della Cirenaica, dove la forza preponderante è ormai rappresentata dai militari. Da metà giugno, in seguito agli scontri registrati nella zona industriale di Ajdabiya, il presidente della Camera dei Rappresentanti di Tobruk, Ageela Saleh, ha dichiarato lo stato di emergenza ponendo tutta la regione orientale sotto il controllo militare di Abdulrazaq Nadori, generale dell’Esercito nazionale libico.
Da quel momento in avanti, forte dei poteri conferitigli da Saleh in virtù dello stato d’emergenza, Nadori ha avviato una campagna volta a sostituire i sindaci democraticamente eletti all’interno delle municipalità locali con governatori militari. Inoltre, Nadori gode del potere di vietare dimostrazioni e proteste organizzate che non abbiano l’esplicita autorizzazione scritta del suo ufficio.
Questi sviluppi indicano una forte battuta di arresto nel lento processo di democratizzazione in corso in Libia, che nel gennaio 2014 otteneva una storica conquista in occasione delle elezioni locali dirette, le prime nella storia del paese, che hanno visto il popolo scegliere i Consigli municipali locali ed eleggerne i sindaci, all’interno di un fondamentale processo volto a garantire la decentralizzazione del potere politico.
Quella a cui si sta assistendo è una militarizzazione di gran parte della regione orientale, e se da una parte alcuni rappresentanti dei Consigli municipali hanno espresso forte preoccupazione per la deriva militare in corso, dall’altra le stesse preoccupazioni non sembrano del tutto condivise.
Il sindaco di Tobruk, ad esempio, ha espressamente richiesto la nomina di un governatore militare per la città, lamentando la mancanza di risorse e competenze per combattere la criminalità e il terrorismo.
Forti del consenso recentemente guadagnato, Haftar e l’Esercito nazionale libico sembrano godere di riconoscimento anche agli occhi della popolazione dell’est del paese, soprattutto nella città di Bengasi, per essere stata l’unica istituzione ad affrontare e gestire, tramite l’Operazione Dignità, la spinosa questione delle milizie islamiste che dal 2012 agiscono indiscriminatamente sul territorio senza averne mai risposto davanti alla giustizia.
Ma questa non è stata l’unica vittoria di Haftar, le cui ultime mosse politiche hanno totalmente alterato gli equilibri di potere esistenti.
Con l’operazione lanciata l’11 settembre nella “mezzaluna petrolifera” libica, Haftar e il suo contingente riescono a strappare i terminal di Zueitina, Sidra, Ras Lanuf e Brega alle Guardie petrolifere di Ibrahim Jadhran, che li aveva tenuti in scacco negli ultimi due anni, condizionandone la riapertura al pagamento di una tassa.
Le reazioni a questa offensiva sono state diametralmente opposte, fornendo importanti chiavi di lettura del cambiamento degli equilibri politici in corso.
Mentre il Consiglio presidenziale e i supporter internazionali dell’esecutivo di Serraj condannavano l’offensiva, e tramite la persona di Kobler chiedevano al Consiglio di Sicurezza dell’Onu di emettere misure sanzionatorie contro l’aggressione ad opera di Haftar, i libici la pensavano diversamente.
Da più parti la reazione internazionale è stata considerata come l’ennesima intromissione negli affari interni del paese, provocando numerose manifestazioni in diverse città in supporto dell’Esercito nazionale libico.
Il primo a rendersi conto della necessità di un cambio di rotta è stato Serraj, primo ministro del governo di unità nazionale, che il 13 settembre dichiarava che non avrebbe attaccato l’ennesima fazione libica né avrebbe richiesto alcun intervento esterno. Reazione immediatamente condivisa dalle forze di Misurata attraverso una dichiarazione in cui si affermava chiaramente che non sarebbero intervenute in supporto di Jadhran per la controffensiva sui terminal petroliferi.
Nel giro di qualche giorno si placano anche i toni internazionali, che anzi accolgono favorevolmente il passaggio alla NOC del controllo sulla rinnovata attività petrolifera.
Da settembre è quindi ricominciata la produzione e l’esportazione del greggio, sulla base di questo importante accordo commerciale che è da intendersi come il baluardo di un’alleanza economica tra due avversari politici quali sono il governo di unità nazionale – che controlla la NOC e la Banca Centrale libica, nelle cui casse fluiscono i proventi dell’attività petrolifera – e il blocco di alleanze che ruota intorno alla figura del Generale Haftar.
Già a metà ottobre, la produzione petrolifera si aggirava intorno ai 554mila barili al giorno, con l’ottimistica prospettiva dei dirigenti della NOC di raggiungere la soglia dei 900mila barili al giorno entro la fine dell’anno. In virtù di questi sviluppi, anche il valore del dinaro libico ha reagito positivamente guadagnando un +20% sul mercato nero.
Questa nuova alleanza assume ancora più rilevanza alla luce della recente marginalizzazione, per la prima volta dal 2014, delle altre due forze in campo: i federalisti delle Guardie petrolifere di Jadhran, che hanno subito pesanti defezioni e non sono state in grado di reagire all’offensiva dell’esercito di Haftar nella “mezzaluna petrolifera”; e le forze di Daesh, che hanno progressivamente perso terreno a Sirte grazie alle operazioni congiunte delle forze di Misurata, coadiuvate dai bombardamenti aerei dell’esercito statunitense.
Tuttavia, tra i numerosi attivisti della società civile che sostengono la costituzione di uno Stato democratico, si è alzato il livello di allerta nei confronti di una campagna mirata alla graduale instaurazione di un regime militare.
In questo nuovo scenario, è possibile ed auspicabile che vengano rinegoziati i termini dell’accordo politico firmato in Marocco a dicembre 2015, per includere l’Esercito nazionale di Haftar e la Camera dei Rappresentanti di Tobruk, che quest’estate ha nuovamente respinto la lista ministeriale presentata dall’esecutivo di Serraj. Questa eventuale rinegoziazione dovrà tenere in considerazione le richieste di Haftar, oggi più che mai in una posizione preponderante, rispetto alla garanzia di comando sulle forze armate libiche e dell’indipendenza di queste ultime dalle istituzioni civili.
Prospettiva questa che rievoca un preoccupante modello politico ispirato al regime militare di al-Sisi in Egitto, citato dallo stesso Haftar come esempio di successo in una recente intervista rilasciata all’Associated Press.
Eppure, nonostante la fluidità del contesto, il recente accordo economico tra i principali attori in campo resta di fondamentale importanza.
Avendo tradizionalmente rappresentato l’oggetto di feroci battaglie armate, il raggiungimento di un’intesa sull’attività petrolifera e la riapertura della produzione e dell’esportazione di greggio, costituisce un ottimo terreno di obiettivi condivisi per il rilancio dell’economia.
Tuttavia, un eccessivo ottimismo risulterebbe quanto mai rischioso, soprattutto alla luce delle nuove alleanze e del supporto guadagnato da Haftar sulla scena internazionale: dai tradizionali alleati Egitto ed Emirati Arabi, alla new entry del Cremlino, cui Haftar sembra aver richiesto l’alleggerimento dell’embargo sulle armi e una prospettiva di intervento in chiave anti-islamista sulla falsa riga di quella in corso in Siria.
Per ora la Russia non sembra interessata ad un coinvolgimento di questo tipo, ma solo un sordo potrebbe non sentire i campanelli d’allarme.
October 29, 2016di: Lamia Ledrisi Libia,
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