Il prossimo 17 febbraio in Libia ricorrerà il V anniversario della Rivoluzione che nel 2011 portò alla caduta del dittatore Muhammar Gheddafi e alla sua morte, dopo 42 anni di regime militare. Oggisi attende l’approvazione della nuova lista ministeriale al vaglio della Camera dei Rappresentanti.
A cinque anni dallo scoppio delle proteste, della violenta repressione e dalla campagna militare travestita da intervento umanitario delle forze della coalizione atlantica, la Libia è stata inghiottita da una lotta intestina per il potere politico e il controllo del territorio.
Sono questi, infatti, i pericolosi presupposti su cui si è sviluppato – o meglio, inviluppato – il processo post-rivoluzionario.
Le condizioni che si sono determinate a partire dalle elezioni dell’estate 2014 – la polarizzazione politica, tra il governo eletto e costretto ad esiliare a Tobruk e il Congresso di Tripoli che ha rifiutato i risultati elettorali, e i successivi scontri armati -, hanno impedito la produzione di un dibattito politico ed ideologico intorno al quale creare una base di consenso diffusa e condivisa.
Conseguenza questa, della grave mancanza della coalizione intervenuta nel fornire supporto ed accompagnamento internazionale nella delicata quanto fondamentale fase di post-conflict state-building che sarebbe dovuta seguire alle operazioni militari.
L’abbandono da parte della comunità internazionale e l’incapacità delle neonate istituzioni libiche nel gestire la fase transizionale, hanno contribuito a far sì che la Libia venisse fagocitata all’interno di una lotta becera e degenerativa.
E’ questo scenario anarchico e frammentato che ha fornito ai combattenti del sedicente Califfato Islamico un safe heaven nel Mediterraneo, su cui proiettare i suoi centri strategici e in cui costruire una nuova roccaforte, lontano dai bombardamenti in corso in Medio Oriente.
La situazione politica attuale – dopo due anni di negoziazioni, la firma dell’accordo politico e l’imposizione di un nuovo terzo governo che aspira ad ottenere la fiducia necessaria per creare un esecutivo di unità nazionale -, è di nuovo in fase di stallo.
Mentre a livello internazionale è partita la corsa agli armamenti per una nuova fase della guerra al terrore in Libia, sullo stesso stile di quella attualmente in corso in Siria e in Iraq.
A livello interno, gli ultimi avvenimenti che hanno portato all’ennesima impasse del processo politico hanno visto la Camera dei Rappresentanti di Tobruk bocciare la lista ministeriale proposta dal premier designato Fayez Serraj. La motivazione formale di questa bocciatura, si riferisce a quello che è stato considerato un eccessivo numero di ministri (32).
Nella giornata di ieri (14 febbraio, ndt), il Consiglio Presidenziale ha annunciato la formazione di una nuova lista ministeriale, costituita da 13 ministri più 5 “ministri di stato” con responsabilità speciali. Ma questa è stata firmata solo da 7 dei 9 membri del Consiglio, mancando la firma di due rappresentanti dell’ala orientale del paese che sostengono Haftar. Adesso la lista dovrà passare al vaglio della Ccamera dei Rappresentanti di Tobruk per l’approvazione.
Le radici dell’opposizione di Tobruk risiedono nella sostanziale contrapposizione che da due anni a questa parte divide inesorabilmente la scena politica libica. Il fulcro di questa contrapposizione ruota intorno al nome del generale Khalifa Haftar, e al suo ruolo nel futuro assetto politico del paese.
A tal proposito, la condizione posta dalla Camera affinché questa accordi la fiducia al governo di unità prevede l’eliminazione dall’accordo politico dell’articolo 8. Il testo dell’articolo infatti, sosterrebbe il trasferimento delle funzioni di comandante in capo delle forze armate nelle mani del Consiglio Presidenziale del nuovo esecutivo guidato da Serraj. Carica attualmente ricoperta da Haftar, da quando nel marzo del 2015 la Camera gli ha affidato il comando delle forze armate del Libyan National Army, in sostegno della sua campagna militare iniziata nell’estate 2014 (Operation Dignity), e supportata dall’Egitto di Al-Sisi, per liberare la Libia dagli islamisti.
Al fine di ingraziarsi Haftar e tutto lo schieramento orientale del paese, intanto, dopo qualche giorno dalla bocciatura della lista ministeriale il premier Serraj è volato in Libia, ad Al-Marj, nella sede del quartier generale del Comandante, per un meeting a porte chiuse i cui contenuti non sono stati resi pubblici.
Le reazioni del Congresso di Tripoli non si sono fatte attendere, concretizzandosi nella richiesta di immediate dimissioni di Serraj per aver intrattenuto rapporti segreti con quello che è stato definito un “criminale di guerra” e determinando così una pericolosa violazione dell’accordo politico.
Questa fenomenologia del gambero, fatta di infiniti andirivieni che quasi non producono movimento, racconta di uno scenario estremamente frammentato, dove differenti attori interni ed internazionali perseguono interessi diversi sotto l’ombrello di un pretestuoso obiettivo comune: l’unità e la pacificazione del paese.
Ad un’analisi più attenta, tuttavia, non sfugge come tutti questi interessi particolari convergano in realtà in due agende politiche diverse e parallele: una interna alla Libia e una internazionale.
Quest’ultima, rinvenibile nell’agenda delle Nazioni Unite – con Stati Uniti, Francia, Gran Bretagna e Italia come capifila -, più che la stabilità del paese per il bene del popolo libico, ha come obiettivo prioritario la lotta contro Daesh e il contenimento dei flussi migratori diretti verso la “Fortezza Europa”, oltre alla pura logica di interessi commerciali ed economici presenti all’interno del ricco paese nord africano.
Attraverso questa lente è possibile leggere le forti pressioni delle Nazioni Unite nel volere imporre a tutti i costi il governo del premier Serraj. O le precedenti innumerevoli modifiche all’accordo politico per accomodare prima una parte, poi l’altra, e nonostante gli altrettanti ultimatum e le inenunciabili dichiarazioni degli inviati dell’UNSMIL di non apportare più modifiche al testo dell’accordo.
Infatti, tra gli atti prioritari previsti al momento dell’istallazione del nuovo governo, il primo dovrebbe essere proprio quello di autorizzare il dispiegamento di una forza di peacekeeping internazionale, per dare copertura e legittimità ad un nuovo intervento occidentale in Libia, e scongiurare in questo modo le accuse di “invasione occidentale”, sulla falsa riga della campagna militare della NATO del 2011.
Inoltre, è importante ricordare una serie di implicazioni non di poco conto. L’accordo politico firmato lo scorso 17 dicembre in Marocco, ed adottato dalle parti a gennaio, è diventato parte integrante della legislazione libica. In quanto tale, non può essere modificato se non tramite un meccanismo di discussione e approvazione che coinvolga anche le altre due istituzioni governanti – il Governo di Unità Nazionale e l’Alto Consiglio di Stato (costituito dai membri del Congresso di Tripoli) – sulla base del principio di separazione dei poteri.
Di conseguenza, ottenere l’approvazione del Congresso di Tripoli per l’eliminazione dell’articolo 8 dall’accordo è inverosimile. Mentre la modifica del testo in mancanza di tale approvazione, risulterebbe illegale.
Come, d’altronde, illegale dovrebbe essere il mancato rispetto delle deadlines imposte al Governo di Unità nazionale e alla Camera di Tobruk – nell’annuncio della lista ministeriale il primo, e nel voto di fiducia al governo la seconda.
Ma nella frenesia della corsa per l’approvazione del governo unitario, le Nazioni Unite non sembrano interessate a riconoscere e sanzionare tali violazioni, disposte piuttosto, a scendere a qualsiasi compromesso pur di ottenere quella legittimità necessaria ad ottenere l’autorizzazione per l’intervento armato.
La macchinosità del processo politico, intanto, continua a far slittare l’urgente pacchetto di misure che tornerebbe a far respirare il paese. Perché nonostante la Libia sia sull’orlo della bancarotta e la produzione di petrolio sia drammaticamente crollata (da 1,34 milioni di barili al giorno del febbraio 2011 ai circa 400mila attuali), dispone ancora di un ricco fondo sovrano gestito dal Libyan Investment Authority (LIA).
Creato nel 2006 e accumulato tramite i proventi della vendita del petrolio, il fondo ha un patrimonio stimato di circa 67 miliardi di dollari, ma è inutilizzabile. Nel 2011, infatti, una risoluzione del Consiglio di Sicurezza ha congelato il fondo per evitare che venisse sperperato tramite appropriazioni indebite.
Dopo cinque anni da quella risoluzione, la questione è ad oggi ancora aperta, a causa della disputa interna tra i due amministratori delegati del LIA – appartenenti uno alla sede centrale di Tripoli, e l’altro all’ufficio di Malta e sostenuto dal governo di Tobruk -, i quali rivendicano entrambi la legittimità della rispettiva leadership sul fondo. Risale allo scorso dicembre, l’ultimo appello proveniente da Tripoli e rivolto alla comunità internazionale per ribadire la necessità di mantenere in vigore il congelamento.
In questo caos di schieramenti ed interessi, inseriti in un quadro di illegalità tollerata in quanto mezzo che giustifica un fine, la delegazione guidata da Serraj non sembra avere le carte in regola per riuscire nella giunonica impresa di riunificare la nazione e portare la stabilità nel paese.
Se mai si trovasse una strada per aggirare l’ostacolo maggiore, rappresentato dal futuro ruolo di Haftar, vi sono altri aspetti che generano forti dubbi sulla capacità di attualizzazione del nuovo governo.
Tra questi, il primo riguarda la sua sostanziale incapacità di esercitare un controllo sui numerosi fronti aperti nel paese.
La mancanza di autorità e di credibilità presso i due organi preesistenti, che sembrano considerare il gabinetto guidato da Serraj come un mero fantoccio dell’Occidente. La stessa mancanza di autorità, va poi estesa anche ai ricchi giacimenti petroliferi del paese, ripetutamente colpiti dalle offensive dello Stato Islamico secondo una strategia finalizzata a danneggiare l’economia libica e ad intralciare il processo politico, per fomentare quel clima di anarchia che gli permette di prosperare indisturbato.
Infine, a rendere la missione ancora più difficile, il fatto che la delegazione sia di stanza a Tunisi ed impossibilitata ad insediarsi sul territorio nazionale per la mancanza delle condizioni di sicurezza, rende la strada ancora più irta.
Questo sembra essere lo stesso ragionamento sviluppato dai vertici militari occidentali, che sembrano accarezzare la possibilità di intervenire prescindendo dall’attualizzazione del governo, in virtù della pericolosa minaccia rappresentata dall’avanzata del Califfato, che ad oggi copre un’area di circa 300 km nella “mezzaluna petrolifera” del paese, intorno alla città di Sirte, e una presenza stimata che va dai 3mila ai 6mila combattenti.
Non è ancora chiaro se e quando la coalizione internazionale deciderà di agire militarmente, l’unica cosa certa è che in Libia – così come in Siria e in Iraq – i bombardamenti unilaterali non risolveranno la situazione e l’imposizione di un governo poco rappresentativo e privo di poteri reali non porterà la stabilità necessaria alla pacificazione del paese.
Servirebbe, piuttosto – come sostengono diversi analisti ed esperti indipendenti -, un intervento internazionale, sì, ma solo in funzione di supporto di una coalizione anti-ISIS su base locale, costituita dall’accordo tra le milizie libiche unite per distruggere le metastasi di quel cancro che è lo Stato Islamico.
Solo in questo modo, coinvolgendo e canalizzando le forze locali in un progetto a lungo termine, si potrebbe intravedere un potenziale di successo.
Ma bisogna agire e bisogna agire in fretta, prima che le questioni militari divengano più urgenti del processo politico e un’altra campagna bellica comprometta definitivamente tutti i progressi fatti fino ad oggi.
February 15, 2016di: Lamia LedrisiLibia,Articoli Correlati:
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