Città considerata sotto controllo delle milizie islamiste, Derna si è sollevata lo scorso novembre – come altri centri del paese – per manifestare tutta la sua frustrazione contro i gruppi armati che seminano insicurezza e paura.
Lungo i cento chilometri e più percorsi dall’aeroporto di Labraq, non un solo check-point né un pick-up dotato di mitragliatrice, nemmeno un casottino dove di solito uomini armati passano il tempo sorseggiando the. Non si vedono neanche le strisce chiodate distese in mezzo alla strada per far rallentare i veicoli. Niente. Un’assenza improbabile nella Libia post-rivoluzionaria, soprattutto se si tratta di entrare a Derna, la misteriosa.
“Un emirato islamico a Derna?” (Le Figaro, 23 febbraio 2011), “A Derna, nel cuore del jihad” (The National, 27 settembre 2012), “Derna sotto la minaccia dei fedeli di al-Qaida” (Magharebia, 16 agosto 2013): titoli che lasciano presagire una città chiusa, bloccata, inaccessibile.
Sono gli stessi libici a mettere in guardia stranieri e giornalisti contro la situazione vissuta nella città costiera della Cirenaica, a circa 300 chilometri dal confine con l’Egitto. “Non bisogna andarci”, “E’ pericoloso laggiù, sono tutti estremisti”, avvisa uno studente di Tripoli. Per sottolineare le sue affermazioni, il ragazzo racconta che dal giugno 2013 a Derna sono stati assassinati un colonnello in pensione, un giudice e un altro colonnello dell’aviazione.
Guardiani dei buoni costumi?
In maniera più pragmatica, quelli che hanno già avuto modo di attraversare la città consigliano di velarsi alla meno peggio (alle donne), di non guardare le donne negli occhi e di non salire le scale dietro di loro (agli uomini). In generale, non salire su taxi senza conoscere il conducente e non uscire di notte. Sullo sfondo si disegna il profilo di una città poco allettante.
La realtà, però, è ben più sfumata e complessa. Certo, la bandiera nera con su scritta la shahada, normalmente utilizzata da al-Qaida (e da alcuni gruppi salafiti), sembra una macchia in uno skyline degno del Club Med: mare di un blu profondo, montagne e palmeti in secondo piano. La bandiera sventola vicino ad una caserma militare, poco distante dalla piazza centrale.
Ma i presunti “fedeli di al-Qaida” non stanno appostati agli angoli delle strade per fare da guardiani dei buoni costumi e dell’osservanza. Le ragazze girano da sole al mercato e nelle vie dei negozi anche dopo la preghiera del tramonto, in jeans attillati e con la testa appena coperta da un velo semplice.
I muri della città sono ornati di scritte e messaggi di tolleranza: “Sì al pluralismo”, “42 anni di gheddafismo non sono abbastanza?” e ancora “No ad al-Qaida”. La libertà ha però dei limiti. Nell’ultima frase riportata il “no a” è stato coperto di vernice. “Non posso incontrarla, mio padre mi ha detto che è pericoloso”, si giustifica una studentessa, dopo aver annullato un appuntamento all’ultimo minuto.
La sicurezza garantita dalle milizie
A Derna coabitano una decina di khatiba, gruppi armati creati durante o dopo la sollevazione del 2011 e – più o meno – inquadrati dallo Stato. In assenza di un vero esercito e della polizia, sono loro ad occuparsi della protezione della città. A modo loro. La brigata Abu Salim, tra le più forti, porta il nome della prigione di Tripoli dove nel 1996 furono massacrati 1270 prigionieri politici oppositori di Gheddafi.
Questa khatiba ad inclinazione islamista ha ottenuto un contratto per la garanzia della sicurezza da due compagnie internazionali basate a Derna: la coreana Won (edilizia) e la turco-austriaca Ozaltin (infrastrutture). Un’attività lucrativa, secondo un membro del consiglio locale.
All’università la situazione è differente: “l’anno scorso (anno scolastico 2012-2013) gli uomini della Abou Salim sono venuti, su nostra richiesta, a proteggere il campus. Ma sono rimasti solo 15 giorni”, spiega un responsabile dell’istituto. Situato a 15 chilometri dal centro della città, questo campus è diventato un luogo d’elezione per le attività criminali. Traffici e regolamenti di conti hanno causato in più occasioni la sua chiusura. Al punto che il rientro scolastico del 2013 è stato ritardato di qualche settimana.
Lo stesso genere di problemi si registra all’ospedale: “abbiamo chiesto alla brigata Abu Salim di proteggere lo stabilimento ma per il momento ci hanno risposto che non hanno abbastanza uomini. Siamo costretti a pagare qualche guardia che, in caso di necessità, provveda ad avvertire quelli della Abu Salim” spiega il dottor Abdalbaset Binfayed, capo del distretto sanitario. Le esigenze, in tema di soccorso, sono svariate. “Spesso si verificano incidenti e tumulti. A causa di pazienti instabili o di famiglie in collera”, continua Binfayed, passeggiando all’interno del solo ospedale cittadino. Una frase carica di significato se si pensa che in Libia quasi tutti ormai dispongono di un’arma.
In tale contesto Youssef Bin Tahir, 28 anni, ha deciso di imporsi. Il 31 ottobre scorso ha annunciato la creazione dell’Esercito dello Stato islamico libico. Il suo obiettivo: assicurare gratuitamente la protezione di tutti gli stabilimenti, pubblici e privati.
“E’ il nostro dovere di musulmani proteggere le persone”, riferisce Bin Tahir. Su una prospettiva di lungo periodo, questo businessman originario di Derna ma cresciuto a Bengasi spera di riuscire “a mettere in sicurezza anche Bengasi, Sirte e tutta la Libia. Per prima cosa però voglio fermare gli omicidi a Derna”. Il suo gruppo armato, di cui non vuole chiarire l’effettiva portata e che finanzia lui stesso, non ha alcun legame con il governo del paese.
“Il governo non ha fatto niente”
Altro gruppo importante, nonostante si sia fatto più discreto, è Ansar al-Shari’a. Nel settembre 2012 le milizie islamiste, che erano allora una khatiba – cioè inquadrate sotto l’autorità pubblica -, sono state identificate come responsabili dell’attacco al Consolato americano di Bengasi che ha fatto quattro morti, tra cui l’ambasciatore Christopher Stevens. Dopo aver perduto il benestare delle autorità, in seguito all’episodio, sono diventate una milizia detestata dalla popolazione, che l’ha allontanata dalla capitale della Cirenaica.
Ripiegati in un primo momento a Derna e sulle montagne vicine (dove si nasconderebbero i campi di addestramento), gli uomini di Ansar al-Shari’a sono tornati a Bengasi nel febbraio 2013. Ma i metodi sembrano essere diversi. Il gruppo rifiuta di parlare con la stampa: “ci avete tradito modificando le nostre affermazioni, infangandoci”.
A Derna i suoi miliziani sono implicati in azioni di utilità sociale, cosa che non impedisce agli abitanti di abbassare il tono di voce quando devono evocarli. Ne abbiamo incontrati alcuni mentre stavano riparando le strade. Perché questa città, come molte altre realtà della Libia, soffre prima di tutto dell’assenza dello Stato.
“Dopo la rivoluzione il governo non ha fatto niente per noi, non ha neanche piantato un fiore a Derna”, commenta infastidito A. Busheha, insegnante di lingua francese. Mohamed Seita, membro del consiglio locale, rilancia: “il governo non fa nulla, proprio come Gheddafi prima di lui. Qui c’è da ricostruire tutto”.
Tra gli abitanti, la delusione nei confronti della politica e dei suoi rappresentanti è grande. A tal punto che si dicono per nulla interessati alle prossime elezioni, quelle del “Comitato dei sessanta” che dovrà poi redigere la nuova costituzione, previste per la fine dell’anno. “Rimpiangiamo la scelta del 7 luglio 2012 [elezioni del Congresso generale libico] e non ci aspettiamo più niente dalle prossime consultazioni. Siamo tutti molto scettici, temiamo di eleggere di nuovo le persone sbagliate”, spiega Adel Anaiba, professore all’università.
Quando si entra in questo tipo di discorsi, i libici dell’est (Cirenaica) evocano generalmente il federalismo come possibile soluzione. Ma non a Derna. “Qui, tribù e origini sono troppo mescolate per poter augurare una divisione netta – confessa Busheha – alcuni provengono da Misurata, altri da Tajoura, da Zlittten, Beida..c’è una sorta di unità nazionale acquisita”.
Un’unità di fondo che pertanto non è riuscita a far ripartire l’economia. Mentre le imprese straniere Won e Ozaltin si danno da fare per riattivare i contratti bloccati durante la rivoluzione, il porto resta desolatamente vuoto. Nell’ultima settimana, solo un carico di automobili e uno di cemento sono attraccati alla banchina. “Ogni tanto l’attività aumenta – confida una fonte che vuole rimanere anonima – di solito il periodo coincide con le forniture di armi per Ansar al-Shari’a…”.
* Traduzione a cura di Jacopo Granci. Per la versione originale dell’articolo clicca qui. Maryline Dumas e Mathieu Galtier sono due giornalisti francesi di stanza in Libia dal giugno 2012. Entrambi hanno iniziato la loro esperienza professionale in Sudan, pubblicando nel 2012 un libro sull’argomento (“Expulsés du Soudan”, Ed. Afterpublishing).
December 04, 2013di: Maryline Dumas e Mathieu Galtier per Orient XXI*Libia,Articoli Correlati:
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