Alessandro Vanoli, storico medievista, riscopre le tracce turche e arabe di un paese che oggi le disconosce, non le vede o non vuole ricordarle. “Andare per l’Italia araba” è un libro che tutti dovrebbero leggere.
“Questa storia molti l’hanno scritta e ripetuta ma ben pochi la conoscono davvero. Ed è curioso se si pensa al tanto, troppo, che sull’Islam si è detto in questi ultimi decenni. In ogni caso, ci piaccia o no, con questa storia bisogna che impariamo ormai a fare i conti. Perché non è più fatta di memorie lontane, di palazzi antichi o di suggestioni esotiche. Questa storia è la nostra”.
E’ questo un passaggio cruciale del libro “Andare per l’Italia araba” dello storico medievista Alessandro Vanoli (tra le sue pubblicazioni, sullo stesso tema, spiccano “La reconquista” e “La Sicilia musulmana”).
Perché ribadisce in modo chiaro quanto viene chiarito sin dall’inizio: “La penisola, infatti, reca tracce profonde del suo rapporto con il mondo musulmano; ma sono per lo più tracce nascoste, spesso mascherate , ancora più spesso volutamente dimenticate”.
Edito da Il Mulino e pubblicato nell’ottobre 2014, questo piccolo volume racconta una grande storia. Quella del lungo incontro, durato oltre un millennio, “tra una penisola posta al centro del Mediterraneo e il mondo a maggioranza musulmana che la circonda a sud e ad est”.
Un’impresa affatto facile, soprattutto se lo spazio a disposizione è di 140 pagine, bibliografia inclusa. L’autore ne è consapevole e per questo adotta una narrazione che probabilmente si rivelerà più che azzeccata e che il titolo preannuncia già.
Leggerlo è infatti un modo alternativo al farsi accompagnare da una guida turistica per la scoperta dell’Italia.
Un viaggio che parte da Palermo, da quella Sicilia araba (o musulmana, o turca, e a questo proposito Vanoli non fa mancare una chiara e doverosa spiegazione terminologica) degli Emiri, dove al posto del mercato della Vucciria, tra via Roma e il porto della Cala, sorgeva “la Kalsa: una cittadella, destinata a ospitare uomini di rango e dotata di guarnigione militare, arsenale, uffici amministrativi, come pure due bagni pubblici e una moschea”.
La Kalsa in realtà era al-Khàlisa, “l’eletta o la pura”, residenza dell’emiro, di cui naturalmente oggi “non ve n’è rimasta traccia”, seppur la natura abbia avuto poco a che fare con la sua scomparsa. Dei circa 200 anni di permanenza islamica sull’isola, avviata nel’827 con l’arrivo degli Aghlabiti, governatori di origine araba di una regione situata tra le attuali Libia e Mauritania, poco è rimasto in superificie. Così come ne è rimasto poco ad Amalfi, Ravello, Bari, Molfetta, Vasto, Roma, Bologna e Livorno, solo per citare alcune delle località che il lettore attraverserà con il libro in tasca, pensando che da quel lontano 827 l’Islam, con suoi mori, turchi, arabi e che dir si voglia, è stato una presenza sempre più stabile nella penisola.
Ma come si fa a captarla, e riconoscerla? La condizione, secondo Vanoli, è una sola: occorre “saper cercare”. Due parole, sapere e cercare, che mancano sempre più spesso nei recenti e correnti dibattiti sull’attuale rapporto tra “il nostro mondo e il loro, qualunque cosa ogni lettore intenda con ‘nostro’ e ‘loro’”.
Due parole tuttavia imprescindibili per tentare di capire cosa è stata questa presenza millenaria, questo continuo “mescolarsi e scambiarsi abitudini, modi di vestire, idee, parole e ovviamente insulti”.
La storia dell’Italia araba che ci racconta l’autore non ha infatti nulla di romantico, né tantomeno intende inventare una contronarrativa ad hoc perché si contrasti il grande flusso di superficialità e incompetenza – a tratti isterico e delirante – che caratterizza particolarmente il mondo dell’informazione di questi tempi.
Della storia dell’italia araba infatti sono parte guerre, invasioni, tratta di schiavi e tanta, tantissima diffidenza. Come dimostrano le numerose torri costiere lungo l’Adriatico, costruite per far fronte al dilagare dei turchi durante il XV secolo. “Solo il Salento di torri ne conta oggi una sessantina, ognuna a circa 10 chilometri dall’altra”, scrive Vanoli, “ma proseguendo verso nord la sequenza cambia di poco”.
Difendersi, prevenire attacchi e avvisare l’entroterra dell’arrivo del nemico: questa la loro funzione, che tuttavia non servì ad evitare che gli scambi, soprattutto commerciali, continuassero. Venezia, al riguardo, lo dimostra più di tutti, e Vanoli afferma che non c’era sicuramente bisogno di lui per ricordarlo.
“Il divario oriente-occidente non è in nessun luogo così largo e soffice come in questo spazio esiguo e scomodo”, scrive l’autore citando “L’altra Venezia” di Predrag Matvejević e portando il lettore a spasso per Campo dei Mori, il Museo di Storia Naturale, un tempo fondaco (dall’arabo funduq) che serviva per ospitare uomini e merci di passaggio e piazza San Marco.
Sì, proprio lei, la piazza che tutti al mondo celebrano associandole un carattere puramente italiano ha invece più di un tratto arabo, “…perché se guardate le porte di ingresso della basilica alle estremità vedrete che sono realizzate con timpani ad arco inflesso, tipico dell’arte araba […] forse volute così per ricordare Alessandria d’Egitto, dove era avvenuto il martirio di San Marco”.
Arte, cultura, guerra, commercio: come ogni incontro tra civiltà a qualsiasi epoca e latitudine la storia è fatta di questi ingredienti. Che col tempo si mescolano ad altri elementi, quali lo sviluppo economico e tecnologico, e che contrbuiscono ad aumentare la complessità dei rapporti tra comunità e culture.
Geograficamente, e cronologicamente, il viaggio de “l’Italia araba” termina a Torino, al mercato più antico d’Europa.
Risalente al 1835, l’immenso mercato di piazza della Repubblica ospita ancora, per lo più, prodotti locali, “ma buona parte dei commericianti viene invece da lontano”. Marocchini, tunisini, egiziani, senegalesi, nigeriani, rumeni, albanesi, cinesi ed altri ancora: “E” uno strano miscuglio di suoni, odori e colori”, somigliante più ad una piazza in pieno Mediterraneo che a “una città del nord”.
“E’ semplicemente il nostro presente: è qui che comincia la nostra Italia araba”, dalla città che forse più di tutte inizia a ricevere studenti universitari da tutto il Mediterraneo dagli anni ’70 in poi, quando il fenomeno migratorio non si è più fermato.
E forse va ancora capito, perché “per vedere questo mondo occorre guardare ai mutamenti degli spazi urbani, far caso a come sono cambiate le relazioni sociali, ascoltare i modi con cui ci si racconta, a scuola, in televisione, al cinema”.
Il viaggio che Vanoli offre è oggi uno strumento molto importante, che si distacca dall’attualità e ci riporta indietro nel tempo e nello spazio, ma ci invita al tempo stesso a rimanere concentrati nel presente.
Perché “questo è un viaggio che comincia nei negozi alla mattina, che prosegue sui banchi di scuola e continua in ogni luogo di lavoro nella nostra penisola. A ben guardare la questione è evidente: piaccia o non piaccia, l’Italia araba siamo noi”.
February 22, 2015di: Stefano Nanni
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