Nel nostro paese prevale ancora un approccio emergenziale alla migrazione, come è accaduto con l’ultimo esodo dal Nord Africa nella primavera del 2011. Ne abbiamo parlato con Gianfranco Schiavone, del direttivo nazionale dell’ASGI (Associazione Studi Giuridici sull’Immigrazione).
Nonostante la sua posizione geografica strategica, l’Italia non è ancora ai livelli di ‘ricezione’ dei grandi paesi dell’Unione Europea. Se ad esempio si analizzano i dati dell’anno appena trascorso, la Francia conta più di 60 mila richeste di asilo, la Germania oltre 70 mila, mentre l’Italia ‘solo’ 15.700.
Numeri inferiori ma costanti, e sicuramente maggiori alle capacità di accoglienza che il nostro paese mette in campo. È così che qualsiasi lieve aumento del flusso manda in tilt il sistema, come è avvenuto nella primavera del 2011, quando le proteste del Nord Africa hanno provocato un aumento degli sbarchi sulle nostre coste tale da costringere le autorità a dichiarare lo stato d’emergenza nazionale.
Quell’anno le domande presentate in Italia furono 37 mila, di poco superiori a quelle del 2008, quando le richieste si fermarono a 31 mila.
Per capire la natura di questa “emergenza” e le difficoltà del ‘sistema Italia’ in materia di diritto d’asilo abbiamo parlato con Gianfranco Schiavone, componente del direttivo nazionale dell’ASGI ed esperto della questione.
Quale è la situazione generale del nostro paese in materia di diritti dei richiedenti asilo e dei rifugiati?
L’Italia viene da una storia recente molto buia in tema di asilo perché prima degli obblighi comunitari derivanti dal ricevimento delle direttive (direttiva accoglienza introdotta nel 2005 e direttiva qualifiche 2007, e direttiva procedure, 2008) il nostro paese non aveva una legislazione in materia di diritto di asilo. La situazione era incredibile. Prima di allora l’intero sistema si basava su un solo articolo, il numero 1 della legge 39 del 1990, la cosiddetta Legge Martelli. Quindi siamo passati nel giro di pochissimo tempo da una totale confusione regnate in materia a un corpus legislativo di esclusiva derivazione europea.
Questo ha avuto e ha tuttora delle conseguenze pratiche, nel senso che l’esperienza della pubblica amministrazione nell’applicazione della legge così come l’attività giurisprudenziale su questa materia sono recentissime.
Quindi quanto fatto a partire dal 2005 mantiene un’impronta europea e si attesta sugli standard dell’Unione?
Sì, e diciamo anche che in alcuni casi il nostro paese ha introdotto diverse disposizioni che sono più favorevoli rispetto agli standard minimi indicati dalle direttive europee. Faccio due esempi concreti. La disposizione sull’accesso al lavoro per i richiedenti asilo da noi è fissata al termine di soli 6 mesi, mentre in molti altri paesi è di un anno. Oppure, l’Italia non applica la nozione di “possibile protezione interna nel paese di origine”, che è una delle strettoie più usate, e direi abusate, della direttiva europea sulle qualifiche per il diniego delle richieste. O ancora nel nostro paese si riscontra un uso piuttosto limitato della detenzione dei richiedenti asilo che, se non in mancanza dei documenti di identità, non vengono mai detenuti nei CIE, salvo casi eccezionali.
Detto questo però, sono molti gli aspetti negativi del nostro sistema. Dal punto di vista legislativo gli interventi sono scarsamente coordinati tra loro, e si avverte una grande frammentazione della normativa, oltre ad una mancanza di organicità e soprattuto la presenza di alcuni ‘vuoti’. Il punto più delicato di tutta la vicenda italiana sull’asilo non riguarda tanto la procedura per la richiesta, quanto piuttosto ciò che accade dopo. In Italia manca completamente o quasi un programma di supporto all’integrazione sociale dei rifugiati.
Quello che esiste è limitato alla possibilità – per un numero assolutamente ridotto di persone – di usufruire di un percorso di accoglienza all’interno del ‘Sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati’, lo SPRAR. Nel limite in cui ci siano posti diponibili, un rifugiato può entrare nel programma di protezione e usufruire di un percorso di accoglienza, tutto sommato anche ben organizzato, successivo al riconoscimento del proprio status. Ma questa è solo un’eventualità che non riguarda tutti.
E chi non riesce ad accedere allo SPRAR?
Per queste persone c’è un teorico accesso all’assistenza sociale. La persona che esce dal ‘CARA’ (Centro di accoglienza per i richiedenti asilo) con il proprio documento in tasca gode in teoria degli stessi diritti di un cittadino italiano. Ma un po’ per la carenza del nostro sistema di welfare, oserei dire “rarefatto” rispetto a quello di altri Stati, un po’ perché queste persone hanno esigenze molto diverse rispetto a quelle di un cittadino italiano che si rivolge ai servizi sociali, di fatto vengono abbandonati a se stessi.
I rifugiati avrebbero bisogno di un intero programma di start up: dovrebbero imparare la lingua, essere orientati al lavoro e cercare un’abitazione. Nessun servizio sociale di nessun comune è in grado di farsi carico di queste persone. Chi improvvisamente si trova fuori dal CARA, senza casa né lavoro e senza accesso allo SPRAR, entra in un vortice di esclusione sociale che si traduce – ad esempio – nelle occupazioni di case abbandonate. Molti vagano da un dormitorio all’altro, in giro per le varie città d’Italia, concentrandosi in particolar modo nelle aree metropolitane: è una realtà documentata in moltissimi rapporti, anche internazionali.
Nel 2011 è stato pubblicato uno studio dal titolo “Il diritto alla protezione”, finanziato dal fondo europeo per i rifugiati, il più completo condotto fino ad oggi in Italia. Dai dati emerge che la percentuale dei rifugiati che dopo il riconoscimento dello status non hanno avuto accesso alla “seconda accoglienza” è pari al 70%. Se dovessi individuare il principale problema del sistema italiano in tema di richiedenti asilo e rifugiati, al di là di tutte le carenze legislative che comunque ci sono, direi senza dubbio che è la mancanza di un programma d’integrazione sociale.
Esistono prospettive di miglioramento, partendo dall’ampliamento dell’offerta disponibile?
Per quanto riguarda lo SPRAR va riconosciuto che questo miglioramento c’è stato, nel senso che nell’ultimo anno ha raggiunto un livello di offerta pari a 5.000 posti, un buon risultato rispetto ai 3.400 di un paio di anni fa. Effettivamente è sempre andato allargandosi nel corso degli anni. Il punto è che l’aumento delle disponibilità è troppo lento rispetto alle esigenze. Quello che non si comprende è per quale ragione un modello fortemente collaudato – parliamo di 10 anni di esperienza – ed estremamente efficiente per quello che riguarda sia il rispetto dei diritti delle persone che il contenimento dei costi, non debba essere sfruttato e implementato. Non si capisce quale sia la scelta politica alla base di questa gestione. È come se si volesse mantenere il sistema sempre al di sotto delle sue potenzialità.
Una scelta politica?
A mio avviso sì, ma le ragioni non sono chiare. Se sia una volontà implicita o solamente un’incapacità programmatica sinceramente ancora non sono riuscito a capirlo dopo tutti questi anni. Molto probabilmente è dovuto a una grande disattenzione, dal momento che l’asilo non è materia di dibattito pubblico né di approfondimento da parte di nessun partito politico. È come se l’Italia ancora rifugisse dalla programmazione sperando che si tratti di fenomeni che non si ripeteranno. Questo fa parte della fatica che il paese ancora fa nel percepirsi come meta di destinazione di rifugiati. È la progettazione di lungo periodo che manca, tutti i provvedimenti presi sono per oggi o addirittura per ieri, nessuno guarda al domani. Prevale dunque un approccio emergenziale, come abbiamo visto con la cosiddetta ‘emergenza Nord Africa’ nel 2011.
Una vera ‘emergenza’?
No. Non si trattava di emergenza, ma di un numero di presenze assolutamente gestibile. Gli eventuali provvedimenti straordinari potevano riguardare gli arrivi, che sono stati effettivamente molto concentrati sia geograficamente che temporalmente. Questo poteva creare difficoltà gestionali, come infatti è stato, ma superata questa fase no, è impossibile parlare di emergenza. Eravamo di fronte a una situazione di mancanza di posti, questo sì. Ma si tratta di un problema strutturale del sistema italiano. Una qualsiasi ragionevole analisi dei dati degli ultimi anni dovrebbe indurre l’amministrazione pubblica a programmare un numero di posti superiore a quelli esistenti.
Il governo ha reagito a questo cortocircuito del sistema varando lo stato di emergenza nazionale…
Sì, alla fine il governo si è messo a reperire posti da qualsiasi parte e in ogni luogo, senza andare molto per il sottile, visto che si trattava di ‘un’emergenza”. Le persone che avevano fatto domanda di protezione sono state mandate negli alberghi, nei campeggi, in case private…tutto questo ha generato un meccanismo speculativo. Moltissimi privati hanno fatto grandi affari. Bastava essere proprietario di una qualsiasi struttura attrezzata, magari un piccolo albergo, per poter chiamare la Prefettura dicendo di avere dei posti a disposizione. Chiunque si faceva avanti si vedeva sottoscrivere la convenzione.
Perchè naturalmente i fondi erano consistenti…
Molto consistenti. L’assistenza è stata pagata in media 42 euro al giorno pro-capite, contro una media del sistema di protezione di 35 euro, che pure offre servizi decisamente superiori rispetto a quelli forniti dall’emergenza Nord Africa.
Sembra la dimostrazione che, volendo, i soldi per i rifugiati si trovano.
Assolutamente. L’emergenza Nord Africa è stata un’operazione dissipativa impressionante. La spesa effettuata è stata gigantesca se si pensa che questi 42 euro sono stati dati a ogni rifugiato ospitato dalla primavera 2011 alla fine di febbraio 2013. Ma perché? Per strutturare un nuovo sistema di accoglienza? Assolutamente no. Questo è il punto: è stata persa l’ennesima occasione per creare nuove realtà utili per il futuro, magari coinvolgendo enti locali che non erano ancora stati inseriti nello SPRAR, facendo formazione ai funzionari pubblici e alle associazioni. Tutto questo non è stato fatto. Il numero di posti per l’accoglienza attualmente è lo stesso che c’era prima dell’emergenza.
Quindi la gestione del soggiorno dei richiedenti asilo non è stata affidata a chi aveva esperienza in questo campo.
No, tutte le attività sono state affidate alla Protezione civile, quindi la gestione è stata assolutamente emergenziale sotto tutti gli aspetti. Devo dire che con il tempo è stata la stessa Protezione civile ad ammettere di essere stata chiamata a svolgere dei compiti che non le spettavano. Dalla programmazione dei servizi alla qualità dell’orientamento sociale e legale, sono tutti ambiti sconosciuti a chi generelamente si occupa di gestire emergenze come i terremoti. Dopo qualche mese questa impreparazione è emersa, ma la Protezione civile non aveva strumenti particolari per migliorare il suo intervento, che alla fine si è tradotto in mero ‘albergaggio’.
Naturalmente nessun controllava i ‘servizi’ offerti da questi privati, e se si chiedeva dell’assistenza legale, era normale sentirsi rispondere ‘mio cugino fa l’avvocato‘. Ecco, era questo il livello.
E dal punto di vista legale?
Alla fine l’Italia ha rilasciato a tutti il permesso per motivi umanitari, la terza forma di protezione con la quale si può concludere la domanda di asilo, prevista dall’art 5, VI comma del Testo unico sull’immigrazione. Una protezione su base nazionale molto frequente nel nostro paese: se si guardano i dati l’Italia vanta una media di risposta positiva alle domande di asilo del 50%, ma togliendo quelle in cui la richiesta viene accolta con la concessione di questo particolare permesso, allora i numeri diminuiscono vertiginosamente.
Questo permesso l’hanno ricevuto tutte le persone arrivate all’indomani della primavera del 2011?
Per la maggior parte sì, possiamo parlare di un 90%. Per tantissimo tempo però le domande di asilo si sono concluse con un diniego. Poi la situazione si è fatta più tesa a livello sociale e rischiava di degenerare anche sotto il profilo dell’ordine pubblico. Sia per queste ragioni che per la pressione delle associazioni e dell’Alto commissariato per i rifugiati, il governo un anno e mezzo dopo ha fatto quello che avrebbe dovuto fare subito: riconoscere a tutti la protezione umanitaria.
Intanto le persone sono state tenute ferme in questi luoghi, dando effettivamente luogo a fenomeni di assistenzialismo. Nel periodo di attesa la maggior parte di loro non ha fatto niente, persone arrivate due anni prima non sapevano ancora l’italiano. E il paradosso è che nel momento in cui è stata riconosciuta la protezione, sono state ‘scaricate’. A ottobre del 2012, quando quasi tutti i richiedenti avevano conquistato il permesso di protezione umanitaria della durata di un anno, finiva l’emergenza Nord Africa… Si è trattato di un vero e proprio ‘baratto’: lasciare i luoghi in cui risiedevano (perché finita l’emergenza finivano anche i soldi per assisterle) in cambio del permesso a restare un altro anno in Italia.
Una politica sconsiderata che ha fatto sì che queste persone siano finite in strada con il permesso per motivi umanitari ma senza sapere dove andare e cosa fare. La maggior parte ha lasciato il nostro paese. Chi è rimasto o aveva contatti precedenti, o è rimasto allo sbando. Quando poi, a febbraio, è stata dichiarata la fine della ‘emergenza’, ai titolari di protezione sono stati donati 500 euro, facendoli uscire dai centri che li avevano accolti fino a quel momento.
Questo ha provocato malumori anche in Europa.
Sì, c’è stato un ‘contributo all’uscita’ molto generico, ed è chiaro che molti l’hanno interpretato come un biglietto per andare via. Anche se non risparmio critiche al nostro sistema, trovo particolarmente irritanti le dichiarazioni di alcuni paesi europei – in particolar modo della Germania – perché non tengono in considerazione il fatto che le persone in Europa sono libere di muoversi come vogliono ed è inutile far finta di non rendersi conto di quanto sia profonda la disparità economica e sociale all’interno dell’Unione.
È chiaro che se anche l’Italia avesse avuto un programma d’integrazione migliore, molte di queste persone avrebbero comunque cercato un modo per andarsene, per trovare una miglior qualità di servizi sociali e migliori possibilità lavorative altrove. Come fa la maggior parte dei richiedenti asilo una volta ottenuto lo status.
June 21, 2013di: Maria Letizia PeruginiArgomenti simili: rifugiati,profughi,emergenza Nord Africaprimavera arabadirettive europeecentri di accogllienza
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