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Mahragan! L’Egitto dell’electro chaabi

Nelle caotiche periferie del Cairo i ragazzi ballano al ritmo di una nuova musica che mescola sonorità popolari, beat elettronici e performance hip hop.

 

E’ il mahragan (“festival” in arabo), un genere cresciuto negli slum della capitale all’ombra della “rivoluzione”, facendosene portavoce lontano dai riflettori di piazza Tahrir. “Nessuno ci dava la parola, la possibilità di esprimerci, di testimoniare la nostra esistenza. Così ce la siamo presa da soli”, confessa Weza, uno dei giovani Mc della nouvelle vague egiziana.

I testi delle canzoni – spaccati di vita quotidiana, povertà, droga, sogni e rivendicazioni – riflettono la situazione politica e sociale e le contraddizioni dell’Egitto contemporaneo, oltre alle aspirazioni di una generazione che vuole disfarsi di divieti e tabù.

Le loro creazioni si inseriscono nel solco della musica popolare, liberata però dai rigidi canoni stilistici e profondamente contaminata da strumenti e sonorità ormai universali come l’elettronica e il rap.

“Quarant’anni dopo la nascita dell’hip hop negli Stati Uniti, i giovani egiziani lo rinnovano e lo arricchiscono” afferma la giornalista Hind Meddeb, autrice del documentario Electro Chaabi (guarda il trailer in basso), altro termine utilizzato per identificare il genere mahragan. “Come i neri dei quartieri-ghetto americani, anche loro forgiano una musica politica e di protesta che insorge contro le discriminazioni e l’ingiustizia sociale”.

Nel 2011 Hind Meddeb, già all’attivo i reportage sul panorama musicale tunisino e sulla musica di guerra in Libano, si è recata al Cairo in cerca di una canzone impegnata in grado di testimoniare i cambiamenti e le rivolte in atto. “Tutto quello che ho trovato all’inizio era troppo ricalcato sulla musica rock degli anni ’90… – racconta la giornalista – volevo rinunciare quando il regista Ibrahim el Batout mi ha parlato di « un fenomeno bizzarro che stava prendendo piede nelle periferie »”.

Electro chaabi porta lo spettatore nella povertà dei sobborghi, tra i palazzi-formicai con i mattoni e il cemento a vista, le strade strette e fangose, le selve di antenne paraboliche e le macchine scassate d’altri tempi che intasano i quartieri popolari di Salam City, Imbaba, Sayda Zainab. O di Mataryia, la capitale indiscussa del mahragan.

Qui sono cresciuti artisti come dj Figo, Mc Sadat, Oka e Ortega, Islam Chipsy e tanti altri protagonisti di questa “rivoluzione sonora” che, partendo dalle rare occasioni di festa condivise nelle realtà marginalizzate, ha finito per conquistare il resto della città e poi il paese.

E’ proprio durante le celebrazioni collettive, in particolare i matrimoni, uno dei rari spazi di libertà tollerati dalla società egiziana più tradizionalista, che questa musica ha trovato il suo terreno d’elezione e il modo di farsi conoscere. “Il matrimonio è un rito di passaggio per i giovani del quartiere, un luogo con i suoi codici e uno spazio di libertà in cui gli adepti dell’electro chaabi sono riusciti ad imporsi, non senza fatica – spiega la Meddeb -. Oggi, quando prendono le redini della festa, riescono a far danzare tutti i presenti al ritmo delle loro basi. Del resto nelle baraccopoli non ci sono locali né sale concerto per alleggerire un malessere sociale difficile da estirpare”.

Le immagini del documentario mostrano atmosfere psichedeliche e fumose, festose e caotiche, dove fiumi di persone si riversano nelle strade colorate, sotto tendoni illuminati, ripetendo le parole cantate dai vocalist e saltando al tempo dei campionamenti. Niente più ‘ud o ney in questi matrimoni “moderni”, al loro posto mixer, amplificatore e sintetizzatore.

Ma i quartieri degradati – con le loro problematiche e il sentimento di abbandono che li pervade -continuano ad essere, allo stesso tempo, anche vivai per eccellenza dell’islamismo. Il quale, per competere con cerimonie considerate “empie”, ha lanciato un proprio stile di celebrazione, i fatah dini in opposizione ai fatah shaabi. “Due visioni del mondo e di vita si trovano in concorrenza nello stesso spazio – prosegue la giornalista – musicisti e predicatori sono entrambe figure tutelari del quartiere: la parola dei primi è liberatrice mentre quella dei religiosi indica la norma da seguire. Tuttavia, di fronte alla popolarità degli artisti mahragan, i predicatori sembrano ancora impotenti”.

Questi artisti sono prima di tutto ragazzi, autodidatti nel loro mestiere, che cercano di affermare la loro esistenza e di esprimere il loro vissuto, dubbi e frustrazioni. Le strofe delle canzoni sono spesso la traduzione in chiave umoristica di disavventure sentimentali, della galera quotidiana fatta di piccoli traffici, espedienti, sfruttamento e corruzione.

“Le parole sono fondamentali nella nostra creazione. Prima della rivoluzione non era possibile descrivere impunemente certe situazioni. Avevamo paura della polizia, delle ritorsioni, ora abbiamo imparato a dire no”, confessa Mc Sadat.

Il film apre una finestra sulla loro intimità, le nottate passate al computer – con materiali di seconda mano – a scaricare programmi di composizione o a mettere in rete video e tracce musicali. Pomeriggi trascorsi con un quaderno in tasca dove annotare pensieri e avvenimenti. Momenti di riflessione in camerette scarne o sui tetti dei palazzi in costruzione, rubati al frastuono e al viavai incessante che li circonda.

Si tratta di una generazione aperta e avida di comunicare malgrado gli scarsi mezzi a disposizione, ricorda la regista Meddeb: “l’arrivo di internet ha contribuito a cambiare la mentalità. Questi ragazzi non possono viaggiare per ragioni economiche e di controllo delle frontiere, ma sono ugualmente connessi con il resto del mondo. Cercano in rete le sonorità da reinventare e la visibilità negata da una geografia sociale implacabile e selettiva”.

Le canzoni infatti spopolano sui social network, aprendo la strada ad un riconoscimento più ampio.

Quando la Meddeb ha cominciato a filmare, alcuni dei club musicali più in vista del Cairo le hanno riso in faccia sentendola parlare di mahragan. Ma a metà delle riprese la tendenza si è invertita, il genere è letteralmente esploso e i suoi interpreti hanno fatto le prime apparizioni nei canali e nei programmi nazionali.

Il passo è notevole, dai suburbi dimenticati alle ambite sponde del Nilo. Dalle autoradio dei tuk-tuk – microtaxi simili alle vecchie apercar – alle luci scintillanti delle discoteche. Le note dell’electro chaabi risuonano ormai ben al di là dei ghetti dove hanno visto la luce. Per alcuni si è trattato di una consacrazione: Oka e Ortega, ad esempio, hanno ottenuto un contratto con la casa discografica Mazzika. Altri preferiscono rimanere fedeli alla “famiglia” che li ha visti nascere, cercando di approfittare del momento per investire idee ed energia in un ambiente “che continua ad essere ignorato, quando non maltrattato dal governo” (afferma Mc Sadat).

Nonostante la carica innovativa e il successo ottenuto, il mahragan appare però impotente di fronte ad un altro tabù caratteristico – dopo l’invisibilità – dei contesti tradizionali: la segregazione di genere.

“In generale le ragazze sono escluse dalle performance, nemmeno durante i matrimoni maschi e femmine hanno il diritto di fare festa assieme”, riferisce la giornalista. “Tuttavia qualcosa si sta muovendo. Nel documentario mi sono limitata a riportare le risposte più frequenti date dagli artisti a questo proposito – « non si fa, non sta bene » – ma in realtà anche le ragazze iniziano a partecipare ai raduni musicali, spostandosi dai loro quartieri, e trascorrono il tempo, di nascosto, assieme ai loro compagni. Il film non le ritrae per espressa richiesta, non vogliono apparire dato il carattere ancora clandestino di queste partecipazioni”.

 

March 23, 2014di: Jacopo GranciEgitto,Video:  Articoli Correlati: 

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