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Mali. Se la ‘guerra al terrorismo’ si combatte nel cuore del Sahara

L’intervento armato in Mali è giunto prima del previsto. Dopo il fallimento dei tentativi di mediazione con i ribelli che controllano il nord del paese e dopo la nuova avanzata verso sud dei militanti jihadisti, la Francia ha iniziato lo scorso venerdì una campagna di “anti-terrorismo” diretta a “ristabilire l’ordine”. Un intervento che rischia tuttavia di destabilizzare ulteriormente il Sahel, e che manca di un’adeguata pianificazione.

 

 

di Ludovico Carlino

 

La guerra è arrivata nel cuore del Sahara. Dopo mesi di indiscrezioni, risoluzioni del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite e vari tentativi (falliti) di mediazione, la Francia ha deciso di “ristabilire l’ordine nel caos maliano”, un po’ come ha fatto in Libia.

L’episodio scatenante sarebbe stata l’avanzata verso sud dei militanti jihadisti che da diversi mesi hanno il controllo della (quasi totalità) zona nord del paese.

La paventata presenza di al-Qaeda ha spinto in molti a vedere nel cuore del Sahara un nuovo santuario terrorista, rampa di lancio per colpire l’Occidente e l’Europa e pronto a sfruttare il caos generato dal collasso dell’autorità statale (prima e) dopo il golpe in Mali del Capitano Amadou Sanogo.

Proprio dal golpe e dalla deposizione avvenuta lo scorso marzo del presidente eletto, Amadou Toumani Toure, era in parte scaturita la conquista dell’Azawad (nord del Mali) da parte del MNLA (Movimento Nazionale per la Liberazione dell’Azawad).

Ma il nuovo fronte indipendentista tuareg, che ha beneficiato delle armi libiche dopo la caduta di Gheddafi, è stato rapidamente soppiantato dai jihadisti di Ansar al-Dine, del Movimento per l’Unità ed il Jihad in Africa Occidentale (MUJAO) e di al-Qaeda nel Maghreb Islamico (AQIM) i quali, dopo una breve parentesi di collaborazione con i nazionalisti laici tuareg, avevano chiarito che nel Sahel c’era posto solo per la shari’a.

L’intervento francese, dunque, giunge senza una soluzione a monte del problema statale maliano, rischiando di conseguenza di avere effetti contrari nella sua affrettata pianificazione, a fronte di un governo ad interim privo di legittimità e di nuove elezioni che in teoria dovrebbero tenersi il prossimo aprile.

Da parte sua Parigi può però contare sul supporto del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite e anche sul quello dell’Unione Europea, che si è detta pronta a fornire l’addestramento per le forze maliane, mentre la missione sotto mandato Onu dovrebbe finire nelle mani di una forza africana composta da 3300 uomini.

Tuttavia continuano i disaccordi tra gli Stati che dovrebbero essere coinvolti, tra cui la Nigeria che guiderà la missione e che secondo il suo presidente Jonathan Goodluck invierà 600 uomini entro la prossima settimana, seguita da Benin, Ghana, Niger, Senegal, Burkina Faso e Togo.

Secondo diversi esperti si tratta di una decisione che potrebbe richiedere mesi prima di concretizzarsi, rischiando di conseguenza di costringere altre forze esterne ad intervenire per sostenere la Francia. Partendo dagli Stati Uniti, che finora hanno assicurato solo un sostegno logistico e d’intelligence, ma non militare.

A dicembre l’ambasciatrice americana all’Onu, Susan Rice, ha etichettato senza mezzi termini il piano francese d’intervento come “pessimo”, posizione che riflette la volontà degli Usa di continuare a fare affidamento sugli invisibili droni nella lotta al terrorismo, in quanto lasciano tracce solo sugli obiettivi colpiti e non dei responsabili.

Lo stesso ex premier francese Dominique de Villepen si è detto “spaventato” dai déjà-vu della “guerra al terrorismo”, e da interventi che invece di porre le basi per la creazione di Stati solidi e democratici favoriscono il separatismo, strutture deboli e fallite a cui segue immancabilmente una moltiplicazione di milizie armate.

Il rischio è esattamente questo, quello di commettere in Mali gli stessi errori che nell’ultimo decennio hanno caratterizzato la gestione della minaccia terroristica dall’Afghanistan allo Yemen.

Si è detto in precedenza che uno degli elementi che ha spinto la Francia ad affrettare le operazioni contro i jihadisti nel Mali è stata la loro avanzata verso il sud e la conquista della città di Konna, nel timore che questa avrebbe poi aperto la strada verso Bamako, la capitale maliana.

La discesa verso sud ha avuto il significato di non legare la presenza dei ribelli nel nord alla sola creazione di uno Stato indipendente nell’Azawad, ma lascia anche pensare ad una possibile strategia calcolata da parte della leadership jihadista per conquistare nuove postazioni strategiche in vista della preannunciata offensiva militare, o proprio per attirare le forze occidentali in Mali in modo da allargare la propria base di sostegno.

Negli ultimi mesi, come pochi analisti hanno fino ad ora sottolineato, la situazione nel nord del Mali è stata presentata tanto dal governo quanto da osservatori stranieri con toni troppo lineari, che hanno finito per mettere insieme nazionalisti tuareg, civili tuareg, i mercenari rientrati in Mali dopo aver abbandonato la Libia e jihadisti locali o regionali che hanno contatti con gruppi esterni (l’AQIM).

Un intervento militare finisce necessariamente per colpire in maniera indiscriminata la popolazione civile, provocando una nuova emergenza umanitaria.

Se poi alla Francia dovessero unirsi altri paesi occidentali, questo quadro potrebbe peggiorare. Ad essere alimentata non sarebbe solo la retorica di quanti grideranno ad una nuova aggressione dell’Occidente contro il mondo musulmano (e un ritorno in grande stile della logica neo-coloniale della “Franceafrique”), ma l’instabilità dell’interno Sahel. Esattamente quello che potrebbero volere i jihadisti.

 

January 16, 2013

Redazione

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