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Marocco. Confessioni di una ‘barmetta’

Migliaia di donne lavorano come cameriere nei bar e nei cabaret delle città marocchine. Bollate come prostitute, rifiutate dalla società, maltrattate spesso dai clienti e ricattate dai padroni dei locali, che approfittano della loro precarietà. Ragazze madri o divorziate, le ‘barmetta’ non hanno però molte altre scelte per sopravvivere.

 

Ci troviamo in uno dei bar del centro di Casablanca, di quelli che – durante tutta la settimana – chiudono solo alle 3 del mattino. Nel gergo dei nottambuli sono chiamati hfari (“i buchi”). Non si tratta di brasserie o locali altolocati dove la cosiddetta ‘gente per bene’ trascorre qualche ora degustando un bicchiere, giusto per interrompere la routine. Piuttosto, dei tuguri saturi di fumo frequentati da una clientela malinconica, talvolta in cerca di affetto o di amori effimeri. 

Il luogo, protetto dagli sguardi indiscreti, si riduce ad una grande hall disseminata di tavoli su cui si appoggiano clienti e ragazze, entraineuse, immancabili nei “buchi”. Nella sala la luce è debole e l’odore del tabacco di pessima qualità appena sopportabile.

Ma l’ambiente è tutt’altro che spento. I clienti sono ormai in un avanzato stato d’ebbrezza e la musica chaabi rimbomba tra le pareti. 

Aisha ha 22 anni, ma ne dimostra almeno una decina in più. Volto spossato dalle tante notti passate in bianco, lavora in questo bar sei giorni alla settimana. Non è di Casablanca, viene dalle montagne del Rif (Marocco settentrionale, ndt) e da cinque anni si è sistemata in un piccolo appartamento del quartiere Hay Hassani (periferia sud della metropoli atlantica, ndt).

Aisha se ne è andata di casa quando è rimasta incinta.

“Mio padre, forse, mi avrebbe ucciso. Ho preferito scappare e battermi pur di tenere il bambino”, racconta, mentre mostra con fierezza la foto del figlio che oggi ha 4 anni. Pur lavorando da tempo in questo posto non è stata dichiarata alla CNSS (una sorta di INPS locale, ndt) e la sua paga è di appena 60 dirham (meno di 6 euro) al giorno per un turno di dieci ore, dalle 17 alle 3.

Il solo modo per arrotondare lo stipendio è il ricorso a lfitcha (letteralmente “la capsula”). Aicha riceve 5 dirham in più per ogni birra che le viene offerta da un cliente. Più ne scola, più il suo extra sarà consistente. Una volta finita la bottiglia ne conserva il tappo e alla fine del servizio fa il conto con il gestore del bar e incassa il dovuto.

 

Esistono tre tipologie di barmetta

Dietro al bancone Aisha non può bere birra marocchina ma solo quella di importazione, più cara per il cliente che gliela offre. “A volte in una serata ne bevo una trentina, forse più. Non lo faccio per stare in allegria..è il solo mezzo che ho per provvedere ai bisogni di mio figlio”, spiega.

Per poter conservare il posto, sfibrante e incompatibile con la vita di una madre, Aisha deve ricorrere ad una mourabbiya (baby-sitter), che le costa 1500 dirham al mese. In più c’è l’affitto da pagare, 600 dirham per una stanza in appartamento condiviso, ci sono i pannolini e il dottore quando il bambino si ammala.

“Bevo per lui. Se sono diventata alcolizzata è stato per vederlo crescere”, afferma con convinzione.

Ma si può esercitare questo mestiere senza ricorrere alle consumazioni? La risposta arriva da Bouchra, quarant’anni, originaria di Oujda (frontiera nord-orientale, ndt). Madre di due bambini rimasti in affidamento alla nonna, questa donna dai tratti affascinanti lavora in un cabaret di boulevard Lalla Yacout.

“Per essermi rifiutata di bere sono già stata licenziata una volta. Ho ricominciato per avere un po’ di soldi da inviare a mia madre. Per ottenere il bonus a fine servizio devo consegnare almeno 20 tappi. In alcuni casi, quando me ne mancano pochi e la serata sta per terminare, pago io stessa le birre che servono a ricevere l’extra”, riferisce Bouchra. Che poi aggiunge: “la prima cosa che il proprietario del locale o il gestore vogliono sapere è se bevi oppure no. Una risposta negativa è sinonimo di mancata assunzione”.

Come si diventa bariste in Marocco? La maggior parte delle ragazze incontrate ha un percorso simile. Dopo aver commesso lghalta (“lo sbaglio”, sinonimo di gravidanza) lasciano la famiglia e si dirigono verso Casablanca, in cerca di lavoro e soprattutto di anonimato.

“Ero entrata in un bar con un’amica. Siccome ero bella, il gestore mi ha proposto di lavorare come entraineuse, pagata in base alle consumazioni che riuscivo a strappare ai clienti. Quando ha saputo che avevo due figli a carico, mi ha suggerito di passare dietro il bancone, per guadagnare di più”, spiega Bouchra.

Ricapitolando, esistono tre differenti tipologie di barmetta. La prima, la più privilegiata, serve dietro al comptoir. Ha più esperienza ed è, per così dire, l’attrazione del locale. E’ pagata a giornata, oltre ai guadagni provenienti dalle fitchates. La seconda categoria è quella delle cameriere-entraineuse che servono i clienti e ne assecondano gli inviti al tavolo. Hanno un rimborso giornaliero più il ricavato dei “tappi” collezionati. L’ultimo gradino di questa particolare scala sociale è rappresentato dalle entraineuse indipendenti, retribuite soltanto in base al consumo indotto.

Tutte e tre le tipologie descritte hanno come unico obiettivo quello di far bere il più possibile gli avventori, il solo criterio in base al quale vengono giudicate. Nondimeno, i loro requisiti fisici sono importanti per far perdere la testa al cliente, spingendolo ad ubriacarsi.

“Negli ultimi anni il numero delle barmetta e delle entraineuse è aumentato parecchio. Le famiglie vivono in condizioni sempre più precarie e le prime a farne le spese sono le ragazze. Ma bariste e cameriere non godono di alcun diritto. Raramente vengono iscritte alla previdenza sociale, lavorano in nero e sono trattate come schiave moderne tanto dal padrone del locale che dai clienti. Non possono riunirsi in un sindacato e la loro situazione non è mai evocata nemmeno dalle associazioni femministe”, afferma Abdessamad Tahfi, attivista associativo a Casablanca.

A volte le barmetta raccontano le loro tristi avventure con clienti “irrispettosi e insultanti, che non esitano a mettere le mani dove non dovrebbero”. “Ma non abbiamo scelta, se si lamentano di te, del tuo servizio, rischi di perdere il posto. E in ogni caso, dal momento in cui lavori in un bar o in un cabaret, tutti ti considerano una prostituta. E’ così, siamo i rifiuti della società”, si lascia andare Aicha.

 

I bar, una giungla…

Le barmetta, di qualunque tipologia, fanno ben attenzione al loro modo di vestirsi. Nel luogo di lavoro, certo, ma soprattutto all’uscita o al rientro nei quartieri popolari dove risiedono. Abiti tradizionali, foulard sui capelli.. tutto il necessario per passare inosservate e salvare le apparenze. Di solito vivono nelle zone periferiche della metropoli (Oulfa, Hay Hassani, Sbata, Bernoussi..) o nella medina.

Bar e cabaret sono una vera e propria giungla dove è il più forte o il più furbo, a notte fonda, ad uscire vincitore. Questi luoghi sono in genere frequentati da persone di modeste condizioni, spesso frustrati.

Delle “vittime” predestinate, nel linguaggio delle barmetta. Nella vita di tutti i giorni, non entrano facilmente in contatto con una donna, al di fuori della moglie. Nei cabaret, invece, questo tipo di clienti può avvicinarsi senza timori ad una ragazza, che gli serve da bere e regala un sorriso. Può anche imbastire una conversazione invitandola a sedere al suo fianco e offrendole qualcosa da bere. Se poi ha un po’ di soldi con sé, può capitare perfino di proseguire la notte in privato.

“Non è certo con le fitchates che io e mio figlio riusciamo a vivere in modo decoroso. L’importante, in questi casi, è non sbagliare cliente”, confessa Aisha. Di sbagliare cliente è accaduto alla sua amica e collega Rachida, non ancora ventenne. Rachida aveva accettato di passare la notte con un avventore del bar, ma poi si è ritrovata di fronte altre quattro persone. Vittima di uno stupro di gruppo, ha trascorso quattro giorni in ospedale, ma non ha denunciato nessuno per paura di essere a sua volta perseguita per immoralità.

Cambio di scena. Ci troviamo adesso in un noto cabaret di boulevard Mohammed V, considerato una tappa obbligata delle ‘notti bianche’ casaouies. L’ambiente è elettrico e l’alcool scorre a fiumi. Si può fumare la chicha (così è chiamato in Maghreb il narghilè, ufficialmente vietato in Marocco, ndt) e le barmetta si concedono soltanto birra americana.

“In questo posto bariste e cameriere sono delle specialiste ben rodate, capaci di ritagliarsi un bel gruzzolo a fine serata”, confida un buttafuori che ci lavora ormai da tanti anni. 

Le graydiyate (“matrone”) hanno un colpo d’occhio affinato e riconoscono al volo i loro polli. Riescono a far bere i clienti fino all’inverosimile e a fargli pagare il doppio, a volte il triplo, delle consumazioni realmente effettuate. Ricevono perfino degli anticipi per delle notti che poi non trascorreranno mai con clienti, troppo ubriachi per arrivarci!

“Non è il caso per la maggioranza delle bariste della città, ma qui le barmetta più esperte possono fare anche 1000 dirham in una sola serata”, assicura il buttafuori. Per esempio Touria, che da vent’anni presta servizio in questo posto. Il suo segreto? “In questo ambito, non bisogna lasciarsi prendere dai sentimenti. Bisogna essere sempre all’erta e non fidarsi di nessuno, nemmeno della altre ragazze. Il cabaret popolare è un mondo a parte..”.

Touria non ha avuto una vita facile. Madre di due bambini non riconosciuti dai rispettivi padri, ha esordito molto giovane nel settore ed ha forgiato il suo carattere con l’esperienza, che riassume lapidaria in poche parole: “le persone che frequentano i bar non sanno come passare il tempo. Noi li aiutiamo in questo, cercando dove possibile di soddisfare il loro bisogni, in cambio di una remunerazione”.

 

L’inferno delle fitchates

Per proteggere la clientela, ma anche le ragazze che ci lavorano, questo tipo di locali mantiene stretti contatti con la polizia. “Se hai buone relazioni con i poliziotti non ci sono problemi. Ma se il proprietario non dà i soldi alle persone giuste, basta qualche arresto all’uscita del bar [secondo la legge marocchina è vietato vendere bevande alcoliche ai musulmani e il codice penale punisce la “pubblica ebbrezza”, ndt], tra i clienti o le entraineuse, per veder crollare la reputazione del luogo”, spiega un ex cassiere.

Una barmetta può staccare il biglietto vincente e cambiare vita?

Le ragazze intervistate non fanno mistero di voler abbandonare “l’inferno delle fitchate”. Portano ad esempio il caso di alcune entraineuse che si sono sposate con clienti o buttafuori. Oppure quelle che sono riuscite a mettere da parte abbastanza soldi per comprarsi un appartamento. Ma, in generale, le loro vite scorrono e finiscono abbastanza miseramente.

“Nessuno vuole avere a che fare con una donna che lavora in un bar (notte esclusa). Nella migliore delle ipotesi possiamo diventare maitresse di un uomo sposato. Ma come iniziamo ad invecchiare, nemmeno i clienti più ubriachi richiedono più le tue attenzioni”, conclude Aicha, con lo sguardo rivolto verso Zoubida, la sua seconda madre.

A cinquant’anni, Zoubida è ciò che viene definita – nel gergo dei bar – tallaba dial birra (“una mendicante della birra”).

Durante gli ‘anni di gloria’, era una delle entraineuse più conosciute e apprezzate dei cabaret di Casablanca. Oggi trascorre le notti scrutando i volti degli avventori, alla ricerca di uno dei tanti clienti conosciuti in passato. Uno dei tanti che sia disposto a pagargli una birra o ad allungarle qualche spicciolo, proprio come ai vecchi tempi…

 

* traduzione a cura di Jacopo Granci

 

Per la versione originale, clicca qui.  

 

June 23, 2013di: Hicham Houdaifa per La Vie écoArticoli Correlati: 

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