Boukhalef: nuovo cemento, nuovi abitanti e vecchio razzismo alla periferia di una Tangeri diventata metropoli.
[…continua dalla parte 1] Le retate avvengono di solito alle prime luci dell’alba. Una fila di camionette “Ducato” bianche, i finestrini protetti da griglie di ferro, porta nel quartiere qualche decina di miliziani-soldati non proprio soldati – di solito impiegati per fare il lavoro sporco – seguita da una fila di camionette blu, più piccole, vuote. All’entrata del quartiere, in cima alla salita, alcuni minibus da 18 posti, di quelli che sfrecciano come pazzi per le strade di Tangeri, nel caso la pesca sia grossa.
Le retate hanno obbiettivi precisi, che vengono visitati per primi per sfruttare l’effetto sorpresa. Sono appartamenti segnalati da una rete assortita di ragazzetti, negozianti e razzisti al mokhaddem, l’autorità del quartiere.
Dopo aver portato a termine questo compito, è il momento di pescare nel mucchio: le camionette si sparpagliano nel quartiere, i miliziani fermano e chiedono i documenti a tutti quelli su cui riescono a mettere le mani, sfondando anche porte, se necessario.
Chi non li ha con sé è bruscamente spedito su una camionetta blu, destinazione finale la frontiera algerina. Per questo, chi i documenti sa di non averli, scappa dando il via ad un sinistro nascondino, con i sub-sahariani che si muovono fra i palazzoni o si allontanano verso la campagna e le Forces Auxiliaires che cercano di tagliargli il passo, seguendo le indicazioni della torma di ragazzetti e razzisti assortiti, armati di cellulare e a volte in sella ai motorini.
Gli stessi che avevano dato le indicazioni sugli appartamenti da perquisire. Appartamenti di gente conosciuta alle autorità, come quello di Alpha, un giovane guineano che ha testimoniato davanti ad una videocamera sui fatti che avevano portato alla “caduta” di un suo coinquilino senegalese, Moussa, dalla finestra del quarto piano.
Quella di Moussa è stata la seconda morte avvenuta nel quartiere nel corso di una retata delle Forces Auxiliaires.
La prima, all’inizio dell’estate 2013, era stata attribuita ad un attacco di cuore. La morte di Moussa ha acceso i riflettori dei media e degli attivisti per i diritti umani, anche perché non ci sarebbe stato bisogno di testimoni per considerare quantomeno sospetta la versione ufficiale degli eventi: il ragazzo si sarebbe lanciato dalla finestra del quarto piano in un disperato tentativo di scappare alla retata.
La fretta con cui la salma del povero ragazzo fu rimpatriata ha aumentato il sospetto che Moussa sia stato preso a manganellate fino a spingerlo contro, e oltre, quella finestra.
La terza morte, avvenuta all’inizio di dicembre 2013, ha una spiegazione ufficiale ancora più surreale: due trafficanti di droga, fra cui il camerunese Cédric, avrebbero avuto un litigio sulla terrazza in cima ad uno dei casermoni bianchi e Cédric sarebbe stato buttato giù dall’altro, non identificato, malvivente.
Caso vuole che questo sia successo mentre era in corso una retata.
Ma, a differenza della morte di Moussa, le forze di sicurezza non sono riuscite ad impadronirsi immediatamente del corpo di Cédric, preso dai suoi compatrioti e portato in una macabra e disperata processione verso l’ospedale Mohamed V. Il corteo non è mai arrivato, bloccato da un cordone di polizia e bersagliato da pietre e insulti, probabilmente provenienti dai soliti ragazzetti armati di cellulare.
Gli stessi ragazzetti, uniti a donne e a qualche anziano, che la domenica successiva hanno sfilato per le larghe vie di Boukhalef in uno striminzito corteo di protesta per la sicurezza nel quartiere, ricco di bandiere marocchine e foto del re, per difendere la tesi del “non siamo noi che siamo razzisti, sono loro che sono neri”.
Perché, per creare la giusta tensione, per giustificare le retate e le violenze, per rompere quei legami che poco a poco si creano fra cemento e sterpaglia, ecco arrivare la propaganda sottile della rumeur.
Di bocca in bocca, un accenno al caffè qua, due chiacchiere dal macellaio là, e la notizia che gli “africani” hanno rubato in casa di questo o che una ragazza sarebbe stata molestata diventa verità accettata. “Gli africani rubano, gli africani spacciano droga, le ragazze africane si danno alla prostituzione e il quartiere non è sicuro”. Tutte balle, ovviamente: di certo ci sarà stato qualche furto commesso da sub-sahariani, di sicuro qualche ragazza si dà alla prostituzione. Ma viene da sorridere pensando ai tanti bar e alle discoteche della Tangeri by night, animati da decine di prostitute locali. Per non parlare di chi gestisce la rete dello spaccio…
Nonostante la rumeur circoli e si propaghi in un primo momento all’interno del quartiere, è poi dall’esterno che arriva la scintilla in grado di incendiare la situazione. La dinamica si ripete instancabilmente uguale ormai da alcuni anni.
Così, dopo mesi di calma apparente seguiti all’apertura del governo sui permessi di soggiorno, ampiamente pubblicizzata ma nei fatti abbastanza controversa, le autorità marocchine hanno allentato all’inizio di quest’estate le maglie del controllo in mare. Risultato, sempre più barchette e gommoncini, inclusi canotti giocattolo, partono alla volta delle coste andaluse, soprattutto in prossimità dello stretto.
La notizia si sparge, attirando sempre più persone con la speranza di riuscire a passare quei 14 chilometri di mare. Il quartiere si riempie ed ecco la scusa buona per spingere sull’acceleratore della tensione: i ragazzetti che informano, che seguono, che si sgolano nelle manifestazioni e al passaggio del re; ragazzetti giovani, poveri e con quell’ignoranza che la scuola gli ha incollato addosso; quegli stessi ragazzetti eccoli andare verso un appartamento occupato dai migranti e provocare una rissa, poi tornare per bruciare l’appartamento.
Gli stessi che il venerdì di ferragosto hanno terrorizzato il quartiere, aggredendo perfino un’attivista spagnola.
Una strategia di tensione crescente e deliberata, che troppo spesso e a troppe latitudini abbiamo visto sfociare in violenze e massacri. Una strategia che si nutre ad ogni angolo di mondo della stessa ignoranza e pone le stesse resistenze ad un cambiamento inevitabile.
Boukhalef, la sua popolazione, tanto eterogenea quanto accomunata dallo stesso sentimento di precarietà, provvisorietà, dagli intrecci di salti e passaggi, da vecchie e nuove migrazioni, mostra l’attuale complessità del fenomeno, al di là delle facili distinzioni fra “noi” e “loro” e secondo categorie ancora poco o per nulla esplorate dall’analisi e del tutto assenti nelle politiche pubbliche.
Chissà, forse è per evitare che le studentesse e gli operai, le casalinghe e i bambini che abitano a Boukhalef inizino a preoccuparsi del loro quartiere, che, in effetti, non è il massimo. Occuparsi e preoccuparsi delle strade rotte e degli allagamenti, dei mucchi di rifiuti, delle facciate che si scrostano, dei rifiuti che marciscono e dei prati ingombri di macerie.
Occuparsi, preoccuparsi, magari lamentarsi o, peggio, impegnarsi in prima persona, magari senza star troppo a guardare il colore della pelle del proprio vicino. Troppo pericoloso. Meglio trovare un nemico facile, l’ennesimo capro espiatorio, l’altro… Fino a quando?
La risposta, drammatica, a questa domanda retorica è arrivata alcuni giorni dopo aver concluso il pezzo: nella notte di venerdì 29 agosto una lite fra marocchini e migranti sub-sahariani sfocia in una vera e propria battaglia. Sul cemento sconnesso resta il corpo di Charles, un ragazzo senegalese. Sgozzato.
Clicca qui per vedere la fotogallery di Francesco La Pia “Il quartiere non è il massimo”
September 12, 2014di: Elmar LoretiMarocco,
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