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Marocco. La “pasionaria” dei diritti umani

Riceverà oggi dalle mani del Segretario generale Ban Ki Moon il prestigioso United Nations Human Rights Prize. Si tratta di Khadija Ryadi, militante “battagliera” e vera spina nel fianco delle autorità di Rabat. Conosciamola meglio.

 

A prima vista, a giudicare dal suo atteggiamento pacato, dal corpo minuto e dai modi cortesi è difficile immaginarla come un’attivista agguerrita, indomita, pronta a resistere alle cariche della polizia e in prima fila ad ogni manifestazione. Ascoltandola, invece, ogni dubbio scompare e si resta ammaliati dalla verve e dall’efficacia delle sue parole.

E’ Khadija Ryadi, poco più che cinquantenne all’anagrafe ma “militante da una vita” sul campo. Sindacalista, attivista politica nel movimento studentesco durante i primi anni ottanta e poi in un piccolo partito della sinistra dissidente, Khadija non ama la visibilità e preferisce il lavoro silenzioso dietro le quinte.

Membra dell’Association marocaine des droits humains (AMDH) fin dall’epoca della sua formazione e della clandestinità, è diventata presidente dell’organizzazione nel 2007, mantenendo la carica per due mandati fino alla scorsa primavera. In questo periodo si è fatta conoscere per le sue prese di posizione – coraggiose e contro-corrente – in difesa della laicità, della libertà di coscienza e a sostegno delle rivendicazioni democratiche del movimento 20 febbraio.

Sotto la sua presidenza, l’AMDH ha anche incrementato il raggio d’azione e la presa sulla popolazione, arrivando a contare quasi 15 mila aderenti e oltre 90 antenne locali, che permettono all’associazione di monitorare costantemente le violazioni su tutto il territorio e di lanciare campagne di informazione spesso riprese dai media e dalle ong internazionali.

Il Premio per i Ditti Umani conferitole dall’ONU – la cerimonia si tiene ogni cinque anni a New York e in passato ha celebrato personaggi del calibro di Nelson Mandela, Jimmy Carter, Eleanor Roosevelt e Martin Luther King – è un omaggio al valore di questa donna e al lavoro dell’organizzazione che per sei anni ha rappresentato senza timori né reverenze.

 

Negli ultimi due decenni le autorità marocchine si sono fatte in quattro per offrire alla comunità internazionale l’immagine di un paese modello, quanto a diritti e democrazia nell’area mediorientale, e l’ONU decide di assegnare un premio così prestigioso ad une delle sue più tenaci oppositrici. Che cosa ne pensa? Qualcuno, negli ambienti di corte, deve aver trascorso nottate piuttosto agitate..

Probabilmente sì. Ad ogni modo è un riconoscimento alla lotta di tutti quelli, uomini e donne, che difendono i diritti in un paese molto bravo a parole ma bocciato nei fatti. E’ anche un riconoscimento alla credibilità della nostra associazione, che in molti – tra giornali e rappresentanti di governo – negli ultimi anni hanno cercato con tutti i mezzi di diffamare.

Questo ci dà forza.. è un incentivo ad andare avanti, ad impegnarci di più nel nostro lavoro, considerato che il cammino da percorrere sulla strada dei diritti e delle libertà è ancora difficile. Personalmente, dedico questo momento di gioia e questo premio a tutti i detenuti politici e ai giovani del 20 febbraio, che con la loro determinazione sono stati capaci di risvegliare le menti e i cuori marocchini dal torpore, dopo una lunga fase di assuefazione delle coscienze.

 

Lei è stata presidente dell’Associazione marocchina per i diritti umani dal 2007 al 2013. Ma è stata anche un elemento di spicco del panorama sindacale e un’attivista politica. Ci parli un po’ del suo percorso.

Ho preso coscienza, in maniera diretta, dell’importanza del cambiamento durante gli anni dell’università. Avevo già una buona formazione “familiare” in tema di rivendicazione, dal momento chi mio padre era un ex resistente alla colonizzazione francese [tra i fondatori dell’Union nationale des forces populaires, la scissione “di sinistra” del movimento nazionalista che si oppose al monopolio monarchico sul nuovo Stato indipendente, nda]. Ma la molla è scattata alla facoltà, con la ricomparsa sulla scena dell’UNEM [sindacato studentesco] dopo la dissoluzione e la messa al bando degli anni ’70. Durante i corsi studiavo economia e nelle ore libere andavo a scuola di attivismo: come organizzare campagne e manifestazioni, sensibilizzazione e propaganda all’epoca semi-clandestina…

Dopo la laurea sono stata assunta al Ministero delle Finanze, una fase che ha coinciso con il mio ingresso nel mondo sindacale [UMT, Union marocaine du travail]. Nel 1995, dopo dieci anni di braccio di ferro con le autorità, abbiamo ottenuto una nostra rappresentanza all’interno dell’amministrazione: ero la prima donna a ricoprire la carica di presidente di una federazione sindacale di categoria.

 

E la sua storia all’interno dell’AMDH quando e come è cominciata?

Sempre nei primi anni ottanta. Per chi, come me, faceva attività politica non gradita al regime era un passaggio inevitabile. Ma le attività dell’associazione sono rimaste congelate fino alla fine del decennio, visto il clima di persecuzione che aleggiava nel paese. L’AMDH è nata sotto gli “anni di piombo”, il periodo delle sparizioni, degli arresti di massa, e all’epoca era formata essenzialmente da ex-detenuti politici e da dissidenti. Non era il miglior biglietto da visita.

 

Come è cambiato nel tempo il lavoro dell’associazione?

All’inizio, date le condizioni del contesto, la nostra battaglia era concentrata sulla difesa dei diritti politici e sull’assistenza alle famiglie dei prigionieri. A partire dalla metà degli anni novanta il lavoro si è esteso alla lotta per i diritti civili, socio-economici e culturali, oltre all’attività di formazione e sensibilizzazione su tutto il territorio.

In generale l’AMDH ha un orizzonte di riferimento ben preciso: i diritti umani universali così come sono sanciti dalle dichiarazioni e dalle convenzioni internazionali, senza ammettere specificità di natura religiosa o culturale.

Prendiamo ad esempio l’uguaglianza di genere, un tema su cui la nostra associazione è esigente e ben determinata. L’AMDH rifiuta che si faccia appello alle specificità culturali o nazionali, alle tradizioni, per impedire avanzamenti concreti verso uno statuto paritario tra uomini e donne. La dignità è la stessa per tutte le donne del mondo. Quindi ci battiamo per l’uguaglianza totale, senza forse e senza riserve.

 

Su questo tema specifico a che punto siamo in Marocco? La moudawwana (codice della famiglia) approvata nel 2004 offre garanzie sufficienti?

La moudawwana è lontana dall’istituire e garantire la parità tra sessi. Questa legge costituisce un avanzamento, inutile negarlo – ad esempio l’uguaglianza dei coniugi all’interno della famiglia, la condivisione delle responsabilità, la facilitazione delle procedure di matrimonio e divorzio – ma del resto, ci voleva poco ad avanzare se pensiamo a quanto fosse arcaico e retrogrado il precedente codice della famiglia!

Tuttavia, a dispetto dell’utilizzo mediatico che al tempo ne è stato fatto, manca la volontà politica e mancano gli strumenti per assicurare l’applicazione delle misure sancite sulla carta. E il testo in sé resta piuttosto deficitario: è ancora prevista la poligamia, la discriminazione femminile in materia di eredità, di tutela dei figli e di matrimonio interconfessionale..e poi ci sono gli articoli del codice penale a ribadire l’effettiva inferiorità della donna nella società e a sancire il trionfo del patriarcato: le recenti ondate di indignazione contro l’art. 475, dopo il suicidio di Amina Filali, sono lì a ricordarcelo. In effetti la condizione della donna è un’altra “linea rossa”. Si parla sempre di “monarchia, islam e Sahara” come i grandi tabù del regno, ma bisogna aggiungere – secondo me – anche l’effettiva uguaglianza di genere.

 

Secondo lei esiste una vera cesura, un cambiamento netto tra il regno di Hassan II e quello di Mohammed VI per quel che riguarda il rispetto dei diritti e delle libertà?

Esiste un cambiamento, certo, ma più andiamo avanti e più ci accorgiamo di quanto piccolo sia stato e troppo spesso soltanto di facciata. Un cambiamento nella forma ma, non nella sostanza. Tazmamart, Derb Moulay Cherif non ci sono più, ma Temara – purtroppo – non fa rimpiangere l’atrocità di quei lugubri luoghi di memoria. Dopo gli attentati del 2003 a Casablanca, migliaia di cosiddetti islamisti sono stati torturati in questo “buco nero” inaccessibile, prima di essere condannati con processi speditivi. La maggioranza sono ancora in carcere.

La retorica ordinaria vuole che si affermi: “ora siamo più liberi perché possiamo riunirci – in riferimento ai partiti legalizzati o alle associazioni riconosciute negli ultimi vent’anni – possiamo scrivere cose che prima non sarebbero state tollerate”. Questo è vero, ma gli avanzamenti conquistati – non concessi dall’alto, lo sottolineo – restano labili, precari, perché alla base il Marocco è lontano dall’essere uno Stato di diritto.

Pensiamo ad esempio alla vicenda Ali Anouzla o al caso di un altro giornalista – Hasnaoui – finito in carcere per essersi rifiutato di collaborare con la polizia politica. Pensiamo alla repressione sui giovani del 20 febbraio, agli arresti nei villaggi e nelle zone remote ogni volta che gli abitanti provano ad alzare la testa. L’anno scorso ad Ait Bouayach gli agenti hanno sfondato i negozi e rubato le merci, a Taza sono entrati nelle case, devastandole e umiliando gli abitanti. La stessa cosa era avvenuta qualche tempo prima a Sidi Ifni..

E, come in passato, nessuno paga per queste violazioni, se non chi le ha subite (che di solito viene pure messo dentro). In generale, in quella che viene definita la “nuova era”, i miglioramenti registrati a livello legislativo quasi mai sono supportati da un effettivo riscontro nell’applicazione, mentre l’abuso di potere – dal vertice monarchico ai più bassi gradini della scala, dal giudice al poliziotto – rimane la regola, qualunque siano i testi di riferimento.

 

Lei ha parlato di impunità, definendola una costante che lega il regno di Hassan II a quello del suo successore Mohammed VI. Questo significa che per la sua associazione, nonostante l’IER (Istanza di equità e riconciliazione) e il processo di “giustizia transazionale e pacificazione” voluto dal sovrano, i conti con il passato e con i crimini degli “anni di piombo” (1961-1999) non sono ancora chiusi?

No, assolutamente, e lo abbiamo detto fin da prima che l’IER iniziasse il suo lavoro. Non c’erano i requisiti minimi perché avvenisse una vera riconciliazione tra vittime e regime. Vietato parlare dei responsabili nelle audizioni pubbliche. Vietato fare nomi. Come si può chiudere una pagina così dolorosa senza conoscere la verità? Del resto molte famiglie che avevano diritto agli indennizzi, a queste condizioni, hanno rifiutato i soldi dello Stato. La considerano una sorta di corruzione, nonostante abbiano tutto il diritto di ricevere una riparazione materiale.

Senza contare che le scuse pubbliche e la richiesta di perdono presenti nelle raccomandazioni dell’Istanza, rimesse nelle mani di Mohammed VI, non sono mai state effettuate. E’ un atto simbolico ma carico di significato, e lo stiamo ancora aspettando. E poi, come dicevo prima, c’è l’impunità. Non ci stancheremo mai di chiedere che i responsabili dei crimini compiuti sotto Hassan II, la maggioranza dei quali occupano ancora le massime funzioni negli organismi di sicurezza (polizia politica, servizi, esercito), vengano perseguiti e giudicati per le loro azioni. Nel 2000 avevamo fatto una lista, con nomi e incarichi, presentandola al Ministero della Giustizia e ad alcuni parlamentari. Risultato: sono i nostri attivisti ad essere finiti in tribunale.

Sempre tra le raccomandazioni emesse dall’Istanza vi era il “dovere di salvaguardare la memoria”. Da allora il bagno penale di Tazmamart è stato raso al suolo e nei libri di storia di questo passato non si parla, come se non fosse mai esistito. Si cancella e si passa ad altro. Ripeto, è uno “strano” modo di concepire una pacificazione..

 

Torniamo al presente, o quantomeno a tempi più recenti. Nel 2011 è stata presentata, e approvata con percentuali plebiscitarie, una nuova costituzione. L’AMDH aveva emesso – per l’occasione – un comunicato molto critico del testo, che pertanto sembrava rispondere – almeno a prima vista – a certe rivendicazioni dell’organizzazione..

L’AMDH è stata per anni la sola associazione a rivendicare la modifica della costituzione come base per il cambiamento democratico. La revisione del 2011 però non ha la forza necessaria ad assicurare questo obiettivo. Primo, per il modo in cui è stata concepita: la commissione nominata dal re non era rappresentativa delle forze vive della nazione, ma solo delle maggiori correnti politiche a lui devote. Molti costituzionalisti ed esperti accademici non sono stati presi in considerazione a causa della loro nota opposizione al monopolio monarchico sulla gestione del paese.

Né la stesura del testo né la sua sottomissione al voto, avvenuta in fretta e furia e in un clima da crociata, hanno rispettato quel principio democratico che la carta afferma di sostenere. Ciò nonostante abbiamo sottolineato gli aspetti positivi e gli avanzamenti: la prima parte sui diritti e le libertà del cittadino è ben dettagliata, ma il resto è negativo o insufficiente, tanto da rendere lo stesso primo capitolo una mera dichiarazione di intenti. Manca infatti l’impianto per sostenerli. La giustizia, al contrario di quanto scritto nel testo, non è indipendente e continua ad essere utilizzata e strumentalizzata dal regime per giustificare e proteggere le prevaricazioni.

In generale, la carta non sancisce una reale separazione dei poteri, piuttosto conferma l’accentramento nelle mani di una sola persona – il sovrano – che in virtù della sua posizione non deve neanche rendere conto di ciò che fa. Non è contemplata nemmeno la separazione tra Stato e religione, tra potere politico e religioso, che resta uno strumento discrezionale nelle mani del suo massimo rappresentante [il re, nda] da utilizzare a seconda che si voglia ingraziare gli ambienti più conservatori o quelli più modernisti.

Anche la ricezione dei patti e delle convenzioni internazionali, menzionata nel preambolo, resta esplicitamente condizionata alle “costanti del regno”, in altre parole all’islam, alle tradizioni e alla forma monarchica dello Stato. Si riconoscono diritti e poi li si invalidano, si limitano, ammettendo eccezioni e interpretazioni a quanto sottoscritto. Un esempio emblematico: il Marocco ha tolto le riserve dalla CEDAW (Convenzione sull’eliminazione di ogni forma di discriminazione della donna) e l’art. 19 della costituzione afferma il principio di uguaglianza tra uomo e donna, ma il riferimento alle “costanti del regno” blocca l’applicazione di quanto scritto nell’articolo e nella convenzione. Lo stesso discorso vale per la libertà di culto e di coscienza o per i diritti linguistici delle popolazioni berberofone.

Con tutti questi handicap, come si può affermare che il Marocco sia sulla strada della democrazia? La prova è che, a tre anni dall’approvazione della carta, la condizione dei cittadini non è cambiata, le leggi necessarie alla sua attuazione non si vedono e il governo eletto continua ad essere poco più di una comparsa, pronto a rinnegare gli slogan della campagna – trasparenza, lotta alla corruzione – pur di conservare la poltrona.

 

Tra le parole d’ordine delle manifestazioni del 2011 e del movimento 20 febbraio, a cui l’AMDH ha dato il suo sostegno, vi erano slogan come karama (“dignità”) e ‘adala ijtimaiyya (“giustizia sociale”). Anche alla luce dei suoi trascorsi sindacali, qual è la situazione dei diritti socio-economici nel paese, forse il vero motore delle “primavere” regionali prima ancora della rivendicazione dei diritti politici?

Nei primi mesi del 2011 il Marocco ha conosciuto i più importanti successi sindacali degli ultimi anni. Non per la sua forza dei suoi rappresentanti, sia chiaro, ma perché le autorità hanno voluto fare concessioni, per ingraziarsi le confederazioni e tenerle lontane dalla piazza, memori di quanto accaduto poco prima in Tunisia.

Così sono stati siglati accordi per l’aumento dei salari, per la reintegrazione di centinaia di operai licenziati, per il sovvenzionamento dei prodotti. L’obiettivo del governo è stato raggiunto, salvo poi tornare sui propri passi una volta calmate le acque. Le casse dello Stato sono in rosso, il debito in aumento, e la crisi economica – aggravata dalle concessioni del 2011 – ha imposto provvedimenti rigorosi e tagli alla spesa pubblica.

Le ultime finanziarie, compresa quella in corso di approvazione, hanno ridotto gli stanziamenti per settori chiave, come l’istruzione e la sanità, e hanno determinato l’aumento dei prezzi con imposte indirette (carburante, zucchero, latte..). Insomma, un passo avanti e tre indietro, come spesso accade, con il risultato che la situazione socio-economica continua a deteriorarsi.

Basta entrare in un qualsiasi ospedale pubblico per capire che la nostra condizione sanitaria non è degna di un paese civile, per non parlare poi delle tante regioni dove un ospedale nemmeno c’è. Quanto al fallimento del sistema educativo, riconosciuto dalle stesse autorità, non è una buona ragione per decurtarne gli investimenti. Semmai il contrario. E sarebbe il momento di capire chi è il responsabile di tutti i miliardi sprecati nell’ultimo decennio sulla pelle delle nuove generazioni, che scappano all’estero per proseguire gli studi ogni volta che se ne presenta l’occasione. Ma ancora una volta nessuno rende conto di questi disastri.

 

Lei ha dedicato il premio conferitole dall’ONU ai detenuti politici che si trovato rinchiusi nelle prigioni del regno. Eppure un suo vecchio collega, ora segretario dell’organismo statale per la difesa dei diritti umani (CNDH, di nomina reale), solo qualche giorno fa diceva che in Marocco “le persone non vengono più condannate a causa delle idee politiche”..

Se dovessimo basare la nostra attività sui verbali di polizia, come purtroppo continua a fare la maggioranza dei giudici e evidentemente il CNDH [Conseil national des droits de l’homme], potrei dargli ragione. Nella “nuova era” i militanti arrestati figurano come criminali, sul casellario giudiziario. Non vengono più condannati per attacco alla sicurezza dello Stato o appartenenza ad organizzazione vietata o clandestina, come succedeva prima, ma per reati di diritto comune, con dossier costruiti ad hoc. Non siamo i soli a sostenerlo, lo dimostrano i rapporti delle ong internazionali presenti in Marocco, come Amnesty International o Human Rights Watch…ecco allora che un blogger diventa spacciatore, gli indipendentisti saharawi assassini, un giornalista terrorista, un rapper devastatore di beni pubblici..è la nuova repressione maquillage, quella di cui il governo si fa vanto, pretendendo anche il nostro silenzio!

Ma i responsabili del CNDH tutte queste cose le sanno, conoscono i dossier a volte molto prima e meglio di noi. Purtroppo il loro compito non è quello di denunciare, ma di assolvere certe pratiche, salvo poi cadere in contraddizione. Il personaggio a cui lei ha fatto riferimento, oltre ad aver detto che non ci sono più detenuti politici in Marocco, ha anche affermato la definitiva scomparsa del fenomeno della tortura. Peccato che lo stesso CNDH aveva pubblicato un rapporto, poco prima, in cui si parla chiaramente di maltrattamenti, vessazioni e condizioni degradanti nelle prigioni. Non mi sembra che quel rapporto si riferisse all’Algeria..

 

A proposito di violazioni, lei accennava al caso dei detenuti saharawi di Gdeim Izik. La sua organizzazione – poco incline al rispetto delle “linee rosse”, tra cui la famosa questione della sovranità territoriale – cosa pensa della situazione in Sahara Occidentale? Negli ultimi due anni si è discusso molto in sede ONU sull’opportunità di estendere il mandato della Minurso al monitoraggio dei diritti umani nella zona del Sahara controllata dal Marocco, anche se finora Rabat è riuscito ad impedirlo. Qual è la posizione dell’AMDH in merito?

Siamo la sola ong marocchina ad aver sostenuto questa iniziativa. In realtà lo sostenevamo già prima che il dibattito arrivasse in Consiglio di sicurezza. A Laayoune e Smara i diritti e le libertà dei saharawi che si oppongono alla marocchinità del territorio sono sistematicamente violati. Nemmeno il diritto di riunione e associazione è garantito, le associazioni locali che si battono per questo non sono riconosciute, e gli arresti avvengono in maniera arbitraria. C’è bisogno più che mai di un organismo indipendente che monitori la situazione, che ponga un freno alle violazioni.

Ovviamente siamo stati attaccati dalla stampa, dai baltajia e dai politici nostrani, che non perdono occasione per definirci traditori della patria, agenti al soldo dell’Algeria e del Polisario, fino ad arrivare ad offese e calunnie sul piano personale. Ormai ci siamo abituati, perfino la nostra sezione a Smara non ha mai ottenuto il via libera ufficiale. Ma la nostra linea sull’argomento è chiara, i diritti umani si applicano senza eccezione, non secondo le regioni e le popolazioni. Non sono un principio “a geografia variabile”.

 

L’AMDH è stata tra le prime organizzazioni a offrire il suo appoggio al movimento 20 febbraio. Lei stessa è stata più volte oggetto di aggressioni durante le marce e i sit-in pacifici. A tre anni di distanza, che cosa le ha lasciato questa esperienza?

Una grande fiducia nel futuro. I fattori che hanno condotto al “20 febbraio” sono molteplici e per certi versi potevano essere prevedibili. Il movimento è stata la somma di svariate realtà e percorsi militanti, facilitata dal contesto regionale in ebollizione. Ciò nonostante l’impegno, l’intraprendenza e il coraggio dimostrato dai giovani iniziatori mi ha straordinariamente sorpreso. Non mi aspettavo la loro perseveranza, nonostante la repressione e le violenze che si sono fatte strada dopo le prime settimane di relativa tranquillità.

Dal mio punto di vista l’esperienza del 20 febbraio, anche se non ha portato – nell’immediato – ad alcun sostanziale cambiamento, ha una portata storica. Segna il ritorno dei giovani sul davanti della scena, dopo l’assopimento che era seguito alle lotte degli anni settanta e ottanta, e rappresenta il primo tentativo di unione tra i dissidenti di sinistra e quelli islamici [il riferimento è all’associazione Giustizia e Spiritualità, nda].

Nonostante gli appelli a manifestare si facciano sempre più rari e il seguito sia notevolmente diminuito, il movimento non è morto e può già ascrivere una vittoria al suo conto: l’aver scardinato una mentalità diffusa di sudditanza. La sua esistenza non è più in strada, ma nelle menti delle persone che hanno preso coscienza dei propri diritti. Quanto fatto dai giovani nel 2011 ha lasciato tracce indelebili e per le autorità è un fantasma minaccioso ancora presente.

Del resto si tratta di un’esperienza inedita per il Marocco indipendente. Dalla lotta per la liberazione il paese non aveva mai assistito ad un concatenarsi di sollevazioni, di proteste, di mobilitazioni coordinate e diffuse di questo genere. I grandi eventi che la storia militante ricorda sono sollevazioni circoscritte durate uno o pochi giorni, come il 23 marzo 1965 a Casablanca, il 1981 ancora a Casablanca, il 1990 a Fès. Il 20 febbraio 2011 invece è durato un anno intero, con un’intensità inimmaginabile. E per la prima volta le rivendicazioni non erano solo socio-economiche ma anche politiche. Quest’esperienza non passerà inosservata come sembra. Aspetta ancora di raccogliere i suoi frutti..

 

Tornando al suo percorso personale, alla sua lunga esperienza militante, c’è qualche episodio o momento che l’ha colpita in maniera particolare e che vorrebbe rievocare e condividere?

Senza dubbio i primi anni novanta, quando i detenuti politici – diciamo “della mia generazione” – sono usciti di prigione dopo lunghi periodi passati in stato di arresto, in alcuni casi decenni. Era il periodo in cui Hassan II cominciava ad allentare la sua morsa, a fare concessioni in vista del passaggio di consegne.

Ricordo la commozione del ritrovarsi, dell’abbracciarsi, del celebrare assieme la memoria degli amici e compagni scomparsi, di quelli che non ce l’avevano fatta. Come Saida Menehbi, morta a venticinque anni dopo le torture e uno sciopero della fame durato trentaquattro giorni. Non ho mai conosciuto Saida, ma è anche grazie alla sua storia che ho deciso di avvicinarmi all’attivismo e alla lotta per i diritti. Al tempo andavo ancora al liceo e ricordo gli scioperi e le agitazioni scoppiate in seguito alla sua morte. C’erano foto affisse dappertutto, i poliziotti non facevano in tempo a strapparle che ricomparivano…

Saida era una ragazza bellissima, insegnante e poetessa, con un lavoro e una situazione familiare tranquilla. Ma non si è accontentata della sua stabilità, non ha voltato la testa di fronte alle violazioni che vedeva. Si è messa in gioco, in prima linea [al momento dell’arresto faceva parte dell’organizzazione clandestina Ilal Amam, di ispirazione marxista, nda] e ha accettato di pagare il prezzo più alto per la sua scelta. Sono state la sua generosità e il suo sacrificio a far scattare la prima scintilla dentro di me.

 

December 10, 2013di: Jacopo Granci da RabatMarocco,Articoli Correlati: 

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