“Poiché mi hanno costretto a scegliere tra la parola e il sorriso dei miei figli, diventerò muta. Smetterò di scrivere, impiccandomi al mio stesso silenzio. Brucerò le mie dita, perché non si lancino più verso la tastiera del computer. Vaccinerò il mio sangue con un’overdose di indifferenza”. Lo scrive la giornalista Fatima Ifriqui, l’ennesima vittima della censura marocchina.
di Omnia Nur per La Marea – traduzione a cura di Jacopo Granci In Marocco ci sono linee rosse che nessun giornalista dovrebbe oltrepassare. Se lo fa, c’è il rischio che il makhzen (leggi regime) prenda provvedimenti contro chi ha osato sfidarlo, la sua famiglia, il suo lavoro e tutto ciò che lo circonda. Quando i media affrontano, ad esempio, il tema della corruzione, i limiti sono chiari: il Palazzo reale è uno di questi. Ecco perché i giornalisti marocchini (salvo rare eccezioni, ndt) preferiscono ignorare certe tematiche, o trattarle da lontano.
Il caso di Fatima Ifriqui – nota per la sua trasmissione culturale “La fibre artistique” sul primo canale e per i suoi contributi sul quotidiano indipendente Akhbar al-Youm – è l’ennesimo esempio di fino a che punto possa spingersi il makhzen per mettere a tacere personaggi scomodi e influenti sul panorama mediatico e sociale. Nel suo ultimo articolo, pubblicato qualche settimana fa, la Ifriqui ha annunciato la sua ‘sconfitta’ di fronte alle pressioni, alle minacce e alle costrizioni di cui è stata oggetto negli ultimi tempi da parte dei servizi segreti marocchini.
Quando le minacce in questione hanno iniziato a coinvolgere i suoi figli, non è più riuscita a resistere ed ha dovuto cedere. La sua unica ‘colpa’ è stata l’aver appoggiato pubblicamente il Movimento 20 febbraio, l’onda di indignazione che ha scosso il paese dal 2011 reclamando democrazia e giustizia sociale. La giornalista, nella sua lettera di commiato dalla scena pubblica, utilizza uno stile poetico, semplice e profondo come il messaggio che vuole trasmettere. Uno stile che ricorda i comunicati del Subcomandante Marcos diffusi dal cuore della Selva Lacandona. “Poiché mi hanno costretto a scegliere tra la parola e il sorriso dei miei figli, diventerò muta. Smetterò di scrivere, impiccandomi al mio stesso silenzio. Brucerò le mie dita, perché non si lancino più verso la tastiera del computer. Vaccinerò il mio sangue con un’overdose di indifferenza. […] Non vedo, non sento, non parlo. Sarò quella che voi volete che sia: una cittadina silenziosa, tranquilla, felice e soddisfatta. Non farò altro che applaudire e celebrare i grandi successi raggiunti. Alé, alé! Vi è piaciuto l’applauso? Lo volete più forte? Più lungo forse? […] Che ne dite se prendessi posto tra la folta schiera di adulatori, o nella squadra dei voltagabbana ufficiali? C’è ancora spazio per un altro giornalista venduto? Mi presenterò volontaria, al servizio della stabilità finanziaria della vostra ricchezza e per proteggervi dalla voracità del popolo. Ho detto il popolo? Abbasso il popolo! Abbasso il caos e che viva il Regime!”. Nella sua lettera, la Ifriqui fa riferimento anche al controllo continuo a cui è stata sottoposta dal momento in cui ha cominciato ad appoggiare apertamente il ’20 febbraio’. “Nel momento in cui hanno occupato il mio giardino segreto e hanno piantato tra le sue rose mine esplosive, ho deciso di ritirarmi. Perché non sono capace di vivere con un dispositivo di sorveglianza attaccato alle vene, con una spia trapiantata nel cuore, che conta i miei battiti e i miei respiri. E, siccome un guardiano posizionato alla porta della mia anima mi sorprende ogni notte a sognare, in flagrante delitto, mi zittirò”. I movimenti e le sollevazioni sociali in Marocco, anche grazie all’utilizzo di internet, sono riuscite ad aprire un certo spazio di libertà (le cui restrizioni, a volte violente, rimangono a discrezione delle autorità, ndt). La giornalista si è unita all’ondata di protesta, scrivendo articoli e impartendo conferenze in cui ha analizzato il ruolo primario dei mezzi di comunicazione nel cambiamento sociale e nella lotta per i diritti umani, improrogabili per il paese. In questo modo, la Ifriqui ha denunciato l’assenza di libertà in una ‘democrazia sotto tutela’ e ha sostenuto senza mezzi termini le iniziative del movimento, quello che lei stessa definisce “la rivoluzione dei giovani”, iniziata nel febbraio 2011. “Non commetterò più l’errore di scrivere di patria, popolo o della rivoluzione dei giovani. Cancellerò il mese di febbraio dal mio calendario. Mi farò amica del silenzio e adotterò l’indifferenza come filosofia di vita. Lascerò la scrittura e mi dedicherò alle telenovelas di pessima qualità”. Ancora una volta, il makhzen è riuscito a ridurre al silenzio una voce popolare con cui l’opposizione democratica e la società civile si sentiva rappresentata. Un passo indietro nel processo di transizione, o peggio. Dal momento che, se questo tipo di voci non ha la possibilità di esprimersi, non esiste transizione. Il regime, d’altronde, non invia nessun rappresentante ufficiale a minacciare le sue vittime. Il fruttivendolo all’angolo, il venditore di caramelle con il suo carretto, la signora che cammina piano appoggiandosi al bastone: chiunque può essere una spia. Un giorno come tanti, alla fine, uno di loro si avvicina dicendo: “fai attenzione ai tuoi bambini. Sappiamo quello che fai”. Negli ultimi anni si sono verificati altri esempi, più o meno noti, di questo tipo di costrizioni. Il giornalista Rachid Nini, ex direttore del quotidiano più letto del Marocco al-Massae, aveva scritto svariati articoli criticando i servizi segreti e scagliandosi contro alcuni personaggi influenti. E’ stato condannato nel 2011 e, dopo aver scontato un anno di carcere, Nini è tornato al lavoro, tralasciando però la vena che aveva guidato i suoi ultimi scritti. Altro esempio Houria Boutayeb, ex presentatrice del telegiornale – in arabo e castigliano – del canale pubblico, licenziata dopo la diffusione di un video in cui si lamentava delle condizioni di lavoro imposte [Altri casi documentati da Osservatorioiraq sono quelli dei giornalisti Ali Lmrabet, Ali Anouzla e del caricaturista Khalid Gueddar, ndt]. [A differenza di questi] la Ifriqui non ha retto all’idea di perdere i suoi figli. “Vi prego di puntare le vostre armi lontano dai due nidi, affinché non coinvolgano uccelli innocenti. […] Qui sto compiendo la mia promessa. Siate uomini d’onore, fermate le vostre guerre segrete e ritiratevi dal mio regno. Prima di andarvene, però, chiudete la porta dietro di voi e non dimenticate di spegnere le telecamere di sorveglianza che avete cucito sulla mia pelle”. Per la versione originale, clicca qui.
Foto di Isaac Mao via Flickr April 15, 2013Marocco,Articoli Correlati:
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