di Nadia Lamlili* per il blog Qandisha – traduzione a cura di Jacopo Granci
Cinque punti in meno nonostante l’aumento del numero di bambine nelle scuole; nonostante le scartoffie ‘di genere’ che popolano i cassetti dei ministeri; nonostante la Moudawwana, l’Indh (Iniziativa nazionale per lo sviluppo umano, finanziamento governativo per il settore associativo, ndt), il microcredito e tutte le ‘politiche’ che puntano a far uscire la donna dalla precarietà e a metterla sul cammino dell’emancipazione professionale.
Il quadro legislativo e la realtà sul campo restano due orizzonti ben distanti.
“Una prova che i tempi giuridici e quelli sociologici non sono in sincronia”, spiegano lo scrittore e giornalista Driss Ksikes, la sociologa Aicha Belarbi e l’economista Lahcen Achy, responsabili dello studio.
Ad una lettura approfondita il dato è ancor più disarmante.
L’ingresso nel mondo del lavoro, presentato come uno strumento di emancipazione sociale della donna, la sta invece spingendo verso il basso, verso attività precarie che la portano ad uno stato di alienazione.
A cosa servono le cifre sull’aumento dell’impiego femminile sbandierate dall’Haut commissariat au plan (l’Istat locale, ndt), se l’obiettivo di un reale affrancamento non viene raggiunto? Bisogna saper leggere dietro le statistiche, che offrono risultati edulcorati e in molti casi viziati.
Secondo l’indagine del Cesem e del Carnegie, sei donne su dieci in attività lavorano nel settore agricolo.
Su queste sei, solo il 10,6% sono proprietarie o dirigenti di aziende, quindi suscettibili di avere una certa autonomia. Poco. Il peggio è che le donne impiegate nell’agricoltura hanno iniziato a lavorare a quindici anni, di conseguenza sono state private della possibilità di completare la loro istruzione.
Di quale emancipazione stiamo parlando? Si tratta di lavoro ‘forzato’ e non di riscatto sociale.
Anche in contesto urbano, la manodopera femminile non gode di miglior situazione. Le donne sono più esposte alla disoccupazione rispetto agli uomini.
Ma per delle ‘considerazioni culturali’ si ha la tendenza a minimizzare la gravità della loro precarietà e non viene affrontata seriamente l’inferiorità della loro remunerazione.
Quelle che arrivano al diploma, e dunque sono più qualificate, non necessariamente si immettono nel mercato del lavoro. La dispersione tra il raggiungimento del titolo di studio e l’accesso al mondo professionale è un elemento ancora offuscato da numerosi interrogativi.
Perché un numero considerevole di ragazze che frequenta scuole e istituti superiori non vedono il lavoro come una scelta emancipatrice?
Perché spesso ripiegano su scelte poco valorizzanti? Hanno la libertà di scegliere in quale momento avere un bambino o dei figli? Perché lo stereotipo della ‘donna-sottomessa’ è ancora lontano dall’essere scalfito?
Domande che meritano uno studio a parte supplementare. Ma per adesso limitiamoci a tirare le somme di quello che stiamo analizzando.
L’inchiesta del tandem Cesem-Carnegie rappresenta infatti uno schiaffo per il movimento femminista.
Dal 1999 (anno dell’ascesa al trono di Mohammed VI, ndt) non si è fatto altro che vantare le ‘conquiste’ di questo movimento, che ha vissuto i suoi giorni migliori negli anni ’90.
Dal 1999 continuiamo a gonfiarci il petto ogni volta che il Marocco ratifica una convenzione internazionale, e adesso incensiamo questa bella ‘costituzione pro-femminista’.
In realtà il paese ha compiuto un netto passo indietro per quel che concerne i diritti socio-economici della donna. Le associazioni femministe e le forze progressiste si sono cullate sugli allori dal momento in cui lo Stato ha recuperato la loro causa ed ha voluto farne uno strumento politico per acquisire credibilità.
Il giorno in cui la Moudawwana è stata approvata (il codice di famiglia, 2004, ndt) dopo una lunga battaglia, qualcosa si è inceppato negli ingranaggi del contesto femminista. La rottura è stata ancor più dura al momento della costituzione del governo Benkirane, con una sola donna ministro, senza che il sovrano intervenisse per esigere una maggior rappresentazione femminile nell’esecutivo, come aveva già fatto in passato.
Ma lo ‘Stato-femminista’, scosso dalle nuove forze emerse con la ‘primavera’ e da altre rinvigorite in questo frangente, limitato in più dalla sua veste religiosa (il re è Capo dei credenti e vertice religioso del paese, ndt), è sembrato avere ben altro a cui pensare…
Questo per dire che il femminismo di Stato è aleatorio e viziato delle logiche di potere.
Può rivestire un ruolo propulsore quando il panorama politico gli permette di non perdere la sua legittimità religiosa. Ma solo i movimenti, gli attivisti e tutte le forze progressiste possiedono la costanza per far fronte anche alle circostanze più negative.
Di conseguenza, tutte queste forze che hanno pensato che lo status della donna potesse essere migliorato in appena dieci anni devono ricredersi.
La donna, al contrario, è sempre più precaria ed è arrivato il momento di tornare in prima linea.
* Giornalista, co-fondatrice della coordinazione delle donne-giornaliste marocchine e vincitrice nel 2005 del premio della CNN riservato alla stampa francofona africana.
Per la versione originale, clicca qui.
March 13, 2013
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