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Marocco. Sul monte Alebban, per una battaglia di dignità

Da un anno gli abitanti di Imider denunciano lo stato di indigenza in cui si trovano e manifestano quotidianamente contro lo sfruttamento delle risorse naturali presenti nella regione (sud-est). Nemmeno arresti e condanne sembrano poter intaccare la determinazione del villaggio ribelle.

 

 

testo e foto di Jacopo Granci da Rabat

 

 

La strada che scivola da nord a sud, tra la cordigliera dell’Alto Atlante Orientale e le dune di Merzouga, è la famosa (e turistica) “rotta delle casbah”, collegamento tra le oasi berbere di Guelmim, Boumalen e Kalaat Mgouna.

Superate le strette gole del Todgha e prima di arrivare alla valle del fiume Dadès – passaggi secolari improntati dai carovanieri in provenienza dal deserto – la terra arida e rossastra ai lati della carreggiata si incontra con la roccia nera dei pendii adiacenti.

Una manciata di case sparse lungo la corsia di asfalto, altre nascoste in lontananza, e un cartello di segnalazione annunciano l’arrivo a Imider. Il villaggio è semideserto come la natura circostante.

Dall’agosto del 2011, gli abitanti hanno iniziato il loro “Aventino”.

Si sono accampati sulla vetta del monte Alebban, qualche chilometro più ad est, dove si trova la principale stazione di pompaggio che fornisce l’acqua alla miniera d’argento nascosta nelle viscere dell’altura, bloccandone il funzionamento.

Per la popolazione della regione la presenza del giacimento di proprietà della holding reale ONA-SNI – uno tra i più produttivi di tutta l’Africa con l’estrazione di 240 tonnellate annue di metallo purissimo – da ipotetico vettore di sviluppo locale è diventata una vera maledizione.

Lo sfruttamento intensivo della miniera, cominciato nel 1969, non ha determinato nessun miglioramento delle condizioni vita negli insediamenti limitrofi, che lamentano ancora la mancanza di infrastrutture primarie e la violazione degli accordi sull’impiego, conclusi a più riprese tra la società mineraria (SMI, Société Métallurgique d’Imider, filiale della holding ONA) e i rappresentanti del villaggio.

A Imider non ci sono scuole (salvo un piccolo stabilimento elementare), manca l’elettricità nella maggior parte delle abitazioni, il collegamento internet e perfino le edicole con i giornali, mentre l’ospedale più vicino si trova a 200 km di distanza (Ouarzazate), e per chi ne avesse bisogno c’è da pagare il carburante per il trasporto in ambulanza.

I lavori di scavo sulle pendici del monte Alebban, invece, hanno provocato il progressivo impoverimento delle falde acquifere – riducendo mediamente del 60% l’approvvigionamento idrico alle famiglie della zona – oltre all’inquinamento dei terreni attorno alla miniera, a causa dei prodotti tossici (cianuro e mercurio) utilizzati per il trattamento del minerale.

“L’anno scorso alcuni pastori hanno visto morire l’intero gregge di pecore e montoni che si era abbeverato con l’acqua contaminata. L’azienda ha dovuto indennizzarli per evitare lo scandalo”, spiega Omar Moujani, uno studente del villaggio.

Anche i piccoli appezzamenti coltivati ai piedi della montagna sembrano condannati all’asfissia a causa della penuria d’acqua e dei veleni provenienti dalla cava.

 

“La determinazione: una questione di coscienza collettiva”

La tensione tra gli ottomila abitanti della borgata e le autorità era già emersa più volte in passato. Nel 1986 una prima ondata di protesta aveva cercato di opporsi alla perforazione di nuovi pozzi, senza successo.

Dieci anni più tardi, in seguito all’esproprio da parte della SMI di alcune parcelle di “terre collettive” (la gestione di queste terre, fino all’inizio del Protettorato francese, era regolata dal diritto consuetudinario berbero, poi è passata sotto la tutela del ministero dell’Interno), la popolazione aveva bloccato per 48 giorni la strada nazionale che attraversa le case di fango, sassi e paglia, prima di venire dispersa violentemente dalle forze di polizia, con un bilancio finale di un morto e ventuno manifestanti – tra cui due donne – condannati ad un anno di carcere.

Nell’estate del 2011 – mentre l’onda lunga delle “rivoluzioni arabe” provava a farsi strada nel regno alawita – il confronto tra gli abitanti e la direzione della società mineraria (spalleggiata dalle autorità locali) è ripreso, complice l’aggravarsi della siccità e l’aumento della disoccupazione, fenomeni di per sé endemici nel sud-est marocchino.

Di ritorno dalle università di Errachidia, Marrakech e Agadir, gli studenti del villaggio hanno chiesto un lavoro stagionale nella miniera.

Come ogni anno, la SMI ne ha assunti una quindicina, ma questa volta gli esclusi – forti anche del diffondersi della contestazione nel paese in seguito agli appelli del “20 febbraio” – non hanno esitato a manifestare la loro rabbia e il loro disappunto.

“Come è possibile che una società che incassa centinaia di milioni di dirhams (il fatturato registrato dall’azienda nel 2010 è di 74 milioni di euro) sfruttando le risorse della nostra terra pretenda di non avere i mezzi per assicurarci un lavoro, nemmeno stagionale?”, si domanda Omar.

In effetti, sebbene uno dei giganti africani della produzione di argento si trovi saldamente impiantato nel territorio di Imider, gli abitanti della zona rappresentano soltanto il 14% della manodopera totale.

Si tratta di una violazione flagrante degli accordi conclusi tra la SMI e i rappresentanti della tribù berbera degli Ait Hdiddous nel 1969, periodicamente rinnovati (2004, 2010), che fissano al 75% la soglia di impiego riservata ai locali.

Una soglia che la società ha di recente definito “irrealistica”, mentre uno dei suoi direttori – Youssef El Hajjam – intervistato dall’AFP ha “scaricato” la responsabilità della gestione delle assunzioni sull’ufficio centrale di stanza a Casablanca.

La goccia che ha fatto traboccare il vaso, tuttavia, è arrivata qualche settimana dopo il rientro degli universitari per le vacanze scolastiche, quando la popolazione di Imider ha visto diminuire la distribuzione dell’acqua potabile, fino alla completa interruzione.

In pochi giorni ha così preso forma un vasto movimento di protesta sociale e di disobbedienza civile, il Mouvement sur la voie de ’96 (Amussu: xf ubrid n ’96, in tamazight).

All’inizio sono gli studenti e i disoccupati a guidare la contestazione, ma alle loro fila si aggiungono presto gli altri abitanti, le donne, gli anziani e perfino i bambini, ormai stufi dell’insostenibilità della loro condizione.

“La determinazione non è una questione di sesso, di età o del numero di partecipanti, ma di coscienza collettiva”, fanno sapere da queste parti.

Per prima cosa decidono di effettuare una “marcia della sete” quotidiana – a piedi o a dorso di mulo, muniti simbolicamente di taniche e bottiglie vuote, dal centro del villaggio fino all’ingresso della miniera – e poi, in assenza di reazioni da parte della SMI, di salire sulla vetta del monte Alebban per tagliare la fornitura idrica alla cava.

“Ci rubano tutta l’acqua e nessuno è disposto a renderci giustizia. Così abbiamo preso l’iniziativa, decisi a rispondere colpo su colpo!”, spiega ancora Omar.

Per il movimento, “radicalizzare lo scontro” è l’occasione di denunciare apertamente la marginalizzazione economica della zona e soprattutto lo sfruttamento incontrollato delle risorse naturali della regione senza che nulla venga in cambio alla popolazione locale.

Oltre al ripristino dell’approvvigionamento idrico e a nuovi posti di lavoro – in grado forse di arginare l’esodo migratorio che da decenni condanna gli abitanti del Sud-est a cercare fortuna altrove – la gente di Imider reclama un maggior investimento nelle infrastrutture e nei servizi pubblici: per esempio autobus gratuiti per accompagnare i ragazzi nelle scuole dei paesi limitrofi o un servizio di assistenza sanitaria degno di questo nome (il dispensario del paese, aperto poche ore alla settimana, è sprovvisto persino dei medicinali di base).

“La società mineraria sfrutta le ricchezze che si trovano sotto le nostre terre, di conseguenza è un suo dovere e una sua priorità partecipare allo sviluppo locale. E’ inammissibile che, nonostante l’aumento delle sue cifre d’affari, continui ad ignorare le nostre rivendicazioni, certo non impossibili da soddisfare”.

 

Una nuova resistenza

Da allora i “guardiani del pozzo di Tidsa” – quello che negli ultimi anni, con i suoi 40 metri di profondità, ha acuito l’inaridimento della falda – non hanno più abbandonato l’accampamento di fortuna sulla sommità dell’altura, di fianco allo château d’eau.

Un anno di protesta, trascorso a 1400 metri di altitudine, in cui le tende di stoffa giallastra piantate sulla roccia nuda e il coraggio di intere famiglie hanno saputo far fronte ai geli dell’inverno, al ritorno delle afose temperature estive e alla pressione crescente esercitata dalla polizia e dai responsabili della miniera.

Durante questi mesi gli studenti del villaggio, dalle elementari all’università, hanno disertato le aule di insegnamento, solidali con la lotta “dei più grandi”.

Come gli adulti, i ragazzi di Imider hanno preso parte alle manifestazioni e alle riunioni collettive.

Appositamente vestiti in tenuta scolastica, grembiule e zaino sulle spalle, hanno percorso instancabilmente il sentiero sterrato che dal monte Alebban scende a valle e si congiunge alla rotta delle casbah, e poi hanno marciato fino a Tinghir (la sede della provincia) e le altre località circostanti, nel tentativo di fornire maggior eco alla loro causa.

Intanto la SMI ha avviato le trattative con il movimento, sebbene i negoziati si siano ben presto arenati.

“Ci hanno proposto dei finanziamenti per risolvere piccole difficoltà contingenti, hanno promesso un aumento delle assunzioni, ma non hanno mai messo sul tavolo una soluzione globale per risollevare il villaggio dalla marginalizzazione”.

Per di più, incalza Omar Moujani, “da quando abbiamo bloccato lo château d’eau è diminuita la carenza d’acqua nella zona, mentre per l’azienda la ripresa del pompaggio a ritmi elevati è fuori discussione”.

Da parte sua il direttore El Hajjam continua a negare l’esistenza di qualsiasi legame tra la perforazione e i problemi di approvvigionamento idrico, che dipenderebbero – a suo dire – esclusivamente dalla pluviometria: “negli ultimi anni le precipitazioni sull’altopiano sono state scarse, è normale che tutta l’area ne soffra”.

Non è normale invece – ribattono gli attivisti – che le poche risorse idriche rimaste a disposizione vengano impiegate per l’arricchimento privato piuttosto che essere destinate al benessere della popolazione.

Di fronte alla riduzione della capacità estrattiva (e dei profitti) dovuta ad una miniera a mezzo servizio, la holding del sovrano ha sollecitato la verve delle autorità locali (il governatore di Tinghir ha apertamente minacciato di “bruciare i manifestanti”) e “l’attenzione” delle forze dell’ordine, che dall’inizio della protesta pattugliano costantemente gli accessi al villaggio e alla montagna.

Ma alla repressione diretta – negativa in termini di ritorno di immagine per la monarchia, direttamente coinvolta nella vicenda, e controproducente in vista di una probabile escalation della violenza in una regione storicamente fiera e ribelle – si è preferito fino ad ora, per soffocare la rivolta, una strategia meno eclatante, sempre più in voga nel regno alawita: il blocco dell’informazione e la criminalizzazione del dissenso.

Così, dopo la condanna a quattro anni di carcere dell’attivista Moustapha Ouchtoubane nel dicembre 2011, altri cinque membri del Mouvement sur la voie de ’96 sono finiti in arresto nel luglio scorso, condannati a due anni dopo un processo speditivo lontano dai parametri di equità e trasparenza e dai riflettori dei media.

Le autorità e l’amministrazione della SMI stanno cercando in questo modo, con le minacce e gli arresti mirati, di fiaccare la tempra della popolazione e costringerla alla smobilitazione. Un tentativo, tuttavia, che sembra destinato a fallire.

“Non siamo più disposti a fermarci. Che ci uccidano se non vogliono concederci i nostri diritti!”, tuona un’anziana del villaggio – il volto solcato dalle pieghe del tempo e della fatica – interpretando il pensiero dei compagni.

I lunghi mesi sul monte Alebban e lo spettro di un incremento della politica repressiva del regime non hanno intaccato la determinazione degli abitanti, mentre il sostegno al movimento, nonostante il silenzio della stampa, si è fatto via via più numeroso: le associazioni berbere presenti nella regione hanno intensificato le carovane di solidarietà per l’apporto di alimenti e altri beni di prima necessità all’accampamento, e gli artisti amazigh (il più noto è Moha Mallal, nel video qui sotto) hanno inciso le gesta di Imider nelle loro canzoni, rievocando per l’occasione il passato eroico delle tribù locali durante l’occupazione francese ad inizio secolo scorso.

Sulle alture del Saghru la confederazione tribale degli Ait Atta – di cui fanno parte gli Ait Hdiddous di Imider – è riuscita a resistere per oltre vent’anni all’avanzata degli eserciti coloniali.

Oggi, a pochi kilometri di distanza da quel luogo di memoria (dimenticato troppo in fretta dalla storiografia nazionale, ma non dalle genti del posto), ci troviamo di fronte ad una nuova resistenza.

La posta in gioco questa volta non è l’indipendenza, ma un valore ancor più essenziale, la dignità.

 

August 27, 2012
 
 

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