Centinaia di bandiere tricolori (giallo-verde-blu) hanno sfilato nelle vie della capitale marocchina. Circa duemila attivisti berberi – provenienti da tutto il territorio nazionale – hanno manifestato per la piena affermazione della propria identità e hanno espresso solidarietà alla lotta condotta dagli imazighen nei villaggi del “Marocco profondo”. Dopo la contestazione politica (20 febbraio) e sociale (disoccupati), si apre un nuovo fronte di protesta.
testo e foto di Jacopo Granci da Rabat
“Avanziamo passo dopo passo, ma il cammino da percorrere è ancora lungo”, ha scandito il corteo partito domenoca 15 gennaio da piazza Bab el-Had, dove la maestosa porta scolpita sulla pietra rossa separa i cunicoli della medina dal quartiere Ocean.
Nonostante i progressi compiuti negli ultimi anni sulla strada del riconoscimento linguistico e culturale, gli imazighen (“berberi”, plurale di amazigh) – oppressi nei decenni post-indipendenza (1956) dalla supposta uniformità arabo-musulmana su cui si è costruita l’identità del Marocco moderno – non sembrano intenzionati a fare sconti al regime.
“Correggete i libri di storia, noi non siamo arabi”: è uno degli slogan più ricorrenti intonati dagli attivisti.
Il riferimento è ai manuali scolastici tuttora in uso, dove la storia del paese inizia con l’arrivo degli arabi nel VII secolo d. C. e con la conversione della popolazione all’islam. Della civiltà nordafricana antecedente all’era islamica non vi è quasi nessuna traccia, solo un rapido passaggio catalogato con il termine jahiliyyah, il tempo dell'”ignoranza”.
Per il movimento berbero marocchino, in fase di rinnovamento e di espansione della sua base sociale, si è trattato della prima tawada (“marcia” in tamazigh) nazionale, dopo il tentativo abortito nel 2000 a causa di conflitti interni.
Il risultato – non certo paragonabile alla tawada cabila del giugno 2001, quando due milioni di berberi algerini marciarono da Tizi Ouzou ad Algeri (oltre 100 km) dopo le violenze del ‘printemps noir’ – ha lasciato comunque soddisfatti gli organizzatori per l’entusiasmo e la partecipazione.
Yassine el-Yaakoubi ha diciassette anni. Il suo volto sorridente quasi si nasconde dietro allo striscione “libertà per Mustapha e Hamid” – due militanti in carcere a Meknes dal 2007 – scritto in caratteri tifinagh.
Con alcuni amici è partito alle prime luci dell’alba da Imintanout, cittadina alle pendici dell’Alto Atlante occidentale, per apportare il suo contributo all’evento.
“Un vecchio attivista del posto ha messo a disposizione un minibus e ci ha pagato le spese di trasporto”, confida Yassine, giunto a Rabat per la prima volta e quasi ipnotizzato dall’architettura della città.
L’appello alla tawada è stato diffuso a fine dicembre dagli studenti delle facoltà. La nuova generazione del movimento, con pochi mezzi a disposizione, ha deciso di rilanciare la contestazione di fronte alla titubanza delle storiche associazioni culturali, protagoniste della rivendicazione amazigh fino alla fine degli anni novanta ma ormai in crisi di legittimità.
“Trovato l’accordo sulla piattaforma, l’organizzazione è avvenuta tramite facebook ed è lì che sono nati i coordinamenti regionali a Casablanca, Marrakech, Agadir, Meknes e Errachidia. Tuttavia solo poche delegazioni hanno potuto permettersi il viaggio verso la capitale”, spiega Asafar Lihi, originario di Goulmima (sud-est), tra i promotori dell’evento.
“Chiediamo la liberazione immediata dei nostri detenuti politici, la fine della marginalizzazione economica patita dalle regioni berberofone e una effettiva ufficializzazione della lingua amazigh”, gli fa eco Said Elferouah, studente all’università di Agadir.
“Non è con un semplice articolo nella Costituzione che ci metteranno a tacere”. Ma la manifestazione è anche l’occasione per celebrare l’inizio del nuovo anno berbero, il 1° Yennayer (14 gennaio), che il movimento vuole veder riconosciuto come giorno di festa nazionale.
La Costituzione approvata nel luglio scorso su iniziativa del sovrano Mohammed VI ha attribuito (art. 5) alla lingua berbera (parlata da circa il 40% della popolazione) lo status di idioma ufficiale accanto all’arabo, ma nel complesso le misure offerte dal nuovo testo non hanno soddisfatto i giovani attivisti e le organizzazioni più radicali del movimento.
“La costituzionalizzazione è senz’altro un passo verso l’avvenire, ma resta un dispositivo parziale e in sé insufficiente, dal momento che la sua applicazione – il bilinguismo nelle amministrazioni e nei tribunali o la generalizzazione dell’insegnamento – è vincolata ai provvedimenti legislativi del Parlamento. Con la nuova maggioranza islamista-nazionalista [PJD, Istiqlal], storicamente ostile all’affermazione della berberità, c’è il rischio che l’assemblea blocchi il processo di ufficializzazione e rimetta in discussione le conquiste ottenute”, dichiara Mounir Kejji, fondatore del centro di documentazione Tarik Ibn Zyad, in marcia in mezzo alla folla con la bandiera tricolore legata sulle spalle.
Tra le conquiste menzionate da Mounir, l’ingresso del tamazight nei programmi di istruzione, la pubblicazione dei manuali scolastici per il suo insegnamento – iniziato in forma sperimentale dal 2002 – e la scelta della grafia tifinagh per la standardizzazione della lingua, come stabilito dagli accordi tra l’IRCAM (l’Istituto reale della cultura amazigh) e il ministero dell’Educazione.
“Sono acquisizioni a cui non siamo disposti a rinunciare”, ricordava di recente ad Osservatorioiraq.it il professor Ahmed Assid, responsabile dell’Observatoire amazigh des droits et des liberté (OADL).
“Vogliono costringerci a scrivere la nostra lingua con le lettere arabe, ma il tifinagh non è soltanto un alfabeto. I suoi caratteri, a lungo vietati nel paese, sono parte integrante della nostra identità sopravvissuta a secoli di arabizzazione”.
Nel 1994, per aver esposto uno striscione in tifinagh durante la manifestazione del 1° maggio, Ali Ikem e altri sei attivisti dell’associazione Tilelli (Goulmima) finirono in arresto con l’accusa di “attacco alla sicurezza dello Stato e alla Costituzione”.
Il caso suscitò indignazione ben oltre i confini nazionali e le proteste vennero placate solo dopo un provvedimento di amnistia.
Oggi Ali scrive romanzi e poemi nella sua lingua materna e si dedica alla raccolta e alla trascrizione del patrimonio orale (canti, poesie e miti) della regione, per fissarlo nella memoria collettiva.
“All’epoca eravamo in pochi. Combattere il culto dell’arabità era pericoloso e la repressione sempre in agguato. Ricordo i viaggi in Algeria e gli anni del contrabbando culturale. Portavamo con noi libri, audiocassette e manifesti per diffondere in Marocco l’esperienza del sollevamento cabilo, esploso nel 1980 con le grandi mobilitazioni del ‘printemps berbère’.
Adesso i giovani amazigh sono numerosi e ostentano con fierezza la loro appartenenza. Per il regime non sarà facile tenere testa ad una simile pressione. Ciò significa che la nostra lotta non è stata vana”, afferma lo scrittore, indicando la folla in marcia di fronte al Parlamento.
Oltre alle rivendicazioni prettamente linguistiche e identitarie, i manifestanti hanno brandito striscioni e cartelli in solidarietà agli imazighen di Imiter, da cinque mesi in lotta contro la società di estrazione che gestisce la miniera d’argento nell’Alto Atlante orientale.
“Le grandi imprese sfruttano le risorse presenti nel nostro territorio, fanno profitti, ma la popolazione locale viene messa da parte. Non ci sono investimenti nella regione, perfino le infrastrutture di base – strade, scuole, ospedali – sono carenti. I nostri figli partiti a Errachidia o a Meknes per terminare gli studi, nonostante il diploma o la laurea, si ritrovano sempre più spesso disoccupati”, riferisce Moha Bensaid, un insegnante proveniente da Tinghir, a pochi chilometri dalla cittadina in rivolta sul monte Alebban.
“Abbiamo combattuto la colonizzazione e ci hanno ricompensato con l’esclusione”, rilanciano gli attivisti dalla testa del corteo.
La protesta contro la marginalizzazione in cui versano le aree a maggioranza berberofona, le ultime a cedere le armi di fronte alla penetrazione francese (Rif e Alto Atlante) durante il protettorato, è uno dei temi centrali su cui si sta concentrando l’azione del movimento amazigh.
Le ribellioni a carattere locale sono divenute ormai un fenomeno endemico nel paese, dove lo sviluppo resta delimitato alle grandi città e alla costa atlantica.
Prima di Imiter, nell’agosto del 2011, era stata la volta degli abitanti di M’rirt, villaggio situato nel Medio Atlante (Khenifra), a scendere in strada per denunciare le condizioni di degrado e di precarietà sociale in un’area pertanto ricca di giacimenti minerari (oro e zinco).
Per Rachid Raha, vicepresidente dell’Assemblée mondiale amazighe, il prossimo obiettivo del movimento “sarà fare in modo che le proteste sociali, rimaste fino ad ora circoscritte, e le iniziative promosse dalle associazioni e dai giovani militanti convergano in unico fronte di lotta”.
La tawada berbera si iscrive sulla scia della contestazione politica che da quasi un anno, nonostante le “aperture” del sovrano, è in corso nel regno alawita.
Alla manifestazione di domenica scorsa hanno preso parte anche alcuni esponenti del movimento 20 febbraio e gli attivisti dell’AMDH (l’associazione marocchina per i diritti umani).
“Lottare per i diritti del popolo berbero significa lottare per un Marocco democratico e plurale. Le rivendicazioni amazigh sono parte integrante della nostra piattaforma, a cui le autorità hanno risposto con grandi proclami e riforme inefficaci. Per questo la protesta va avanti”, ha dichiarato Nizar Bennamate, tra i membri più attivi del comitato “20 febbraio” della capitale.
Le critiche degli imazighen in marcia a Rabat non hanno risparmiato né il nuovo premier Abdelilah Benkirane né l’entourage reale, accusata di malversazione e corruzione.
“I martiri sono nelle tombe e i ladri siedono a palazzo”, ha scandito il corteo, prima di passare ad uno degli slogan più diffusi – almeno nell’anno appena trascorso – nella sponda sud del Mediterraneo: “il popolo vuole la caduta del regime”.
Mentre una nuova tawada è già stata indetta per il prossimo aprile, il Marocco di Mohammed VI sembra essere entrato in una fase di intensa mobilitazione.
La rivolta popolare scoppiata a Taza (nord-est) ad inizio gennaio è stata sedata solo dopo l’intervento delle forze di polizia giunte da Fes, in soccorso agli effettivi locali sorpresi dal sollevamento.
I laureati-disoccupati in sit-in a Rabat, invece, hanno occupato la sede del ministero dell’Educazione per dodici giorni fino a quando, lo scorso mercoledì, cinque di loro si sono cosparsi di benzina e poi dati alle fiamme (ricoverati all’ospedale di Casablanca, restano tuttora in gravi condizioni).
January 22, 2012
Marocco,Articoli Correlati:
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